Un legame perverso: guerre e deforestazione

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Negli ultimi anni i ritmi di deforestazione in Africa sono notevolmente accelerati, benché con ritmi altalenanti in quanto condizionati da un meccanismo perverso.
Da un lato l’instabilità politica e le ostilità che affliggono vaste aree disturbano e rallentano le operazioni forestali. Dall’altro i traffici di legname fungono da copertura e finanziano tutta una serie di attività criminose.
Il caso più eclatante è quello della Liberia, il cui settore forestale ha foraggiato sia la guerra civile interna sia quelle in Costa d’Avorio e in Sierra Leone. Ormai non esistono più dubbi circa il ruolo pesantissimo che questo paese ha giocato nel clima di instabilità dell’Africa Occidentale.
Tramite lo Strategic Commodities Act l’ex presidente Taylor si arrogò il diritto di gestire in prima persona tutte le risorse liberiane, il che gli consentì di stornare le imposte dovute allo Stato. Poiché tra gli enti di controllo esautorati allo scopo vi era la Fda (Forestry Development Authority), alla Banca Centrale liberiana giunse meno di un centesimo di quanto ricavato dalla vendita del legname nel corso dell’intera dittatura. La quasi totalità dei proventi fu divisa tra le compagnie estrattive e lo stesso Taylor che ne impiegò buona parte per mantenere speciali unità da combattimento. Queste ultime sparsero il terrore tra la popolazione, perpetrando violazioni dei diritti umani ed uccisioni extragiudiziali di civili. Varie compagnie dedite ai traffici di legname ne reclutarono alcuni membri per il controllo dei propri campi di lavoro, il che la dice lunga su quanto il settore fosse pesantemente compromesso.
La rete criminosa si estese anche oltre confine, armando l’insurrezione in alcune province occidentali della Costa d’Avorio e fomentando la guerra civile in Sierra Leone tramite il Ruf (Fronte Rivoluzionario Unito).
Ancora una volta il «conflict timber» è servito a finanziare la ferocia: in Sierra Leone il Ruf ha infierito anche sui civili ed impiegato i bambini come schiavi sessuali o come combattenti addestrati ad uccidere gli stessi congiunti.
Questo per dieci anni, in una lotta schizofrenica contro il governo e tra milizie, al solo scopo di accaparrarsi le miniere. I diamanti venivano commerciati nonostante l’embargo dell’Onu, perché il Ruf li passava a Taylor che ne certificava l’origine come liberiana. Anche per le armi i veti internazionali sono stati ampiamente disattesi, sfruttando le rotte commerciali del legname. Infatti le attività connesse giustificavano l’apertura di nuove strade per il transito di autocarri e su questi i fucili si mimetizzavano tra i tronchi.

Un «cartello» letale

D’altro canto le compagnie estrattive erano tutte collegate le une alle altre, a formare un imponente cartello dotato di strutture proprie quali prigioni, campi paramilitari e milizie per pattugliare il confine con la Sierra Leone. Il manager della Otc (Oriental Timber Company) gestiva anche la Rtc (Royal Timber Corporation), mentre la Mwpi (Maryland Wood Processing Ind.) e la Ulc (United Logging Company) erano proprietà di due fratelli. Per chiudere il cerchio, il figlio del presidente Taylor collaborava con la Mwpi ed era


contemporaneamente direttore della Ulc. Tra l’altro svariate compagnie spagnole e francesi persero le proprie concessioni in favore di quest’ultima, il cui campo base fungeva da cavallo di Troia per le forze armate liberiane.
Nel maggio 2002 si sono svolte regolari elezioni, ma ormai le vittime si contavano a migliaia e la devastazione era tale da rendere la Sierra Leone il paese meno sviluppato al mondo. La situazione economica è tutt’ora disastrosa, per non parlare delle condizioni sanitarie: l’età media della popolazione è inferiore ai quarant’anni ed il tasso di mortalità infantile è il più alto dell’intero pianeta.
Sull’altro fronte il processo di pacificazione prosegue con lentezza anche maggiore. Il 7 luglio del 2003 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha messo finalmente al bando le esportazioni di legname liberiano. L’embargo è stato a lungo perorato dalla comunità internazionale e fortemente voluto dai liberiani stessi per affrancarsi dalla dittatura e porre fine al saccheggio delle risorse naturali.
Il mese successivo Charles Taylor ha accettato l’esilio in Nigeria, decretando la fine di una guerra civile che infuriava da quattordici anni. Tuttavia le ferite sono tali per cui occorrerà parecchio tempo prima che la situazione del paese possa dirsi ragionevolmente stabilizzata. Permangono tensioni alimentate da gruppi residui di ribelli che potrebbero trovare terreno fertile nelle frustrazioni di un durissimo dopoguerra. In un panorama di questo genere sarebbe utopistico attendersi piena trasparenza nella gestione delle risorse. Ne consegue che una regolamentazione internazionale chiara e rigorosa è indispensabile per contrastare i meccanismi del «legno di guerra».
Nell’attesa la responsabilità ricade sugli acquirenti occidentali che dovrebbero, qui ed ora, evitare rigorosamente l’acquisto di legni provenienti dalla Liberia.
A questo proposito va segnalato l’ottimo esempio della Confederazione Elvetica, che ha assunto inequivocabili prese di posizione.
Intanto ha applicato la risoluzione Onu del 15 novembre 2004, decretando l’embargo sulle armi, sanzioni finanziarie e restrizioni di viaggio nei confronti della Costa d’Avorio.
Poi il Consiglio federale ha deciso di rivedere totalmente l’ordinanza relativa alla Liberia, ottemperando alla risoluzione del Consiglio di sicurezza emanata il 21 dicembre scorso. Oltre alle restrizioni già in vigore (incluso il divieto di importare diamanti grezzi e legname) sono state introdotte sanzioni finanziarie nei confronti dell’ex presidente Taylor e dei suoi collaboratori più stretti.
D’altro canto la Svizzera è stata il primo Paese a bloccare i beni di personaggi implicati nella guerra civile in Sierra Leone ed a congelare i conti bancari degli imprenditori in odore di collusione, tra cui appunto i trafficanti di legname.

In Italia ancora molto da fare

In Italia resta ancora molto da fare: dopo il Camerun, la Liberia è il nostro secondo fornitore di legname e siamo al terzo posto per l’import, dopo la Cina e la Francia. Infatti, nel corso delle sue ispezioni, Greenpeace ha più volte rilevato tronchi con marchi sospetti, tra cui i famigerati Mwpi, Otc, Ulc e Rtc.
Alcune di queste società si ergono a paladine dell’ambiente e dei diritti umani per allontanare da sé ogni


sospetto di corruzione. In realtà stanno semplicemente attuando un’operazione d’immagine e poco cambierà nella sostanza, a meno che i consumatori non tengano ben alta la guardia.