Cosa hanno scritto, se non dépliants turistici e opuscoli patinati, i nostri tempi sul Gargano, sulle sue risorse? Niente! questa è l’amara conclusione che ci lascia dopo aver letto l’ultima pagina dell’opera del maestro comunale Giuseppe Del Viscio. Il Gargano è uno dei centri di più antica colonizzazione fondiaria, qui si hanno le prime trasformazioni fondiarie, i primi arboreti ove la struttura produttiva è costituita appunto dall’albero (olivo e fruttiferi vari), meglio nota come agricoltura alberata. Altrove, nelle Puglie, regnava sovrano il pascolo. Di questa storia dobbiamo tutto ai numerosi viaggiatori che hanno percorso il Gargano e hanno raccontato di vigne, oliveti, di orti ed agrumi. Dobbiamo tutto però a personaggi come Del Viscio, senza dimenticare Giuseppe Nardini, altro nostro concittadino, per il loro contributo di studio organico sulla realtà agricola del Gargano che oggi si rivelano unici, indispensabili. Da allora il vuoto assoluto. Ed è strano, inspiegabile tutto questo per una realtà in cui l’agricoltura costituisce ancora oggi l’ossatura produttiva. Certo è che le «cose d’agricoltura» erano materia di «cafoni», un retaggio culturale che sicuramente ne ha condizionato le sorti. I nostri genitori ci hanno insegnato sin da bambini «a scappare dalla campagna», a non legarci perché significava fatica, umiliazioni, miseria. E allora «Coltivazione, malattie e commercio degli agrumi» sicuramente non è mai stata letta abbastanza perché ci racconta, quasi come in un film (non vi sarebbe altro miglior soggetto per la cinematografia italiana) la storia di una comunità che ha saputo trasformare «l’aspetto dei campi e l’indirizzo dell’agricoltura». Una storia d’intere famiglie di contadini che in pochi anni popolano di «gente laboriosa e pacifica le campagne» e creeranno situazioni economiche paradossali, in cui cioè la rendita annuale di limoni «superava il valore della proprietа del fondo». E non poteva essere diversamente per un prodotto che mobilita centinaia di uomini, «migliaia di braccia» già dalla raccolta, con un «lavoro ordinato, minuto, coscienzioso e inappuntabile» organizzato in compagnie fatte di coglitori, panierai, portatori, tagliapicciuoli, numeratori, cernitici, involgitrici, porgitrici, incassatori, facchini, falegnami, per selezionare partite di prima, seconda e terza qualità, confezionate in appositi magazzini (Stabilimenti) sulla costa di San Menaio, Rodi, numerosi sin dal 1600.
Una macchina complessa ma perfettamente funzionante che ad un certo punto rischia di incepparsi in modo irreversibile di fronte ad una crisi che assumerà dimensione nazionale e Del Viscio con la sua opera non può che dare coraggio e augurarsi che i «giardinieri… sappiano trovare altrettanta energia per resistere a questa nuova crisi» ed in particolar modo «sappiano aprirsi altre vie per le quali sia possibile mantenere alta la nostra esportazione». Oggi sarebbe bello raccontargli che i giardinieri riuscirono ad aprirsi altre vie, ad ottenere una ferrovia per aprirsi ed unirsi alla Daunia, all’Italia. Amarissimo sarebbe invece raccontargli che su quel trenino in breve tempo viaggeranno sempre più emigranti e sempre meno esperidi.