Negoziati clima – Come uscire dallo stallo

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Due strade

Allo stato attuale dei negoziati è molto improbabile che a Copenhagen si arrivi con un trattato «forte» e legalmente vincolante. Ma è altrettanto improbabile che si raggiunga un accordo che accetti l’attuale bozza di testo, che non è condivisa e che rimane vaga su punti fondamentali quali gli impegni di riduzione delle emissioni dei paesi sviluppati e le risorse finanziarie necessarie per attuare impegni di mitigazione ed adattamento nei Paesi in via di sviluppo.

Finora, la volontà politica più forte è stata solo quella dell’Unione europea che ha assunto unilateralmente impegni concreti e vincolanti di riduzione delle emissioni in Europa del 20% al 2020, impegni che sono entrati nella legislazione europea (piano europeo noto come 20-20-20), nonostante l’Unione europea sia responsabile del 14% delle emissioni mondiali di gas serra. Ma l’Unione europea ha fatto di più: si è dimostrata disponibile ad assumersi un impegno maggiore di riduzione delle emissioni fino al 30% se gli altri paesi industrializzati si impegneranno anche loro a ridurre le proprie emissioni ed ha ufficialmente preso l’impegno di tagliare le proprie emissioni dall’80 al 95% entro il 2050.

Sul fronte finanziario, però, L’Europa tentenna. Pur avendo dichiarato in sede negoziale la sua disponibilità a finanziare le azioni di mitigazione e di adattamento nei Paesi in via di sviluppo, rendendo disponibili circa 2 miliardi di dollari per la fase iniziale del nuovo trattato, l’Unione europea è ora costretta a fare marcia indietro, dopo l’ultimo Consiglio Ecofin che non ha preso nessuna decisione in proposito.

Discorso ben diverso è per tutti gli altri paesi industrializzati, che si sono limitati soltanto a dichiarazioni di buona volontà e grandi manifestazioni di buone intenzioni, ma nulla di concreto è stato messo sul piatto della bilancia dei negoziati, né in termini di impegni di riduzione delle emissioni, né in termini di disponibilità a fornire risorse finanziarie.

Per quanto riguarda la struttura legale del nuovo trattato, sono sul tavolo dei negoziati due testi: uno riguarda il nuovo trattato costruito sulla base della «road map di Bali» (170 pagine circa, messo a punto dal Gruppo Awg-Lca) e l’altro è il testo del protocollo di Kyoto «emendato» (40 pagine circa, messo a punto dal Gruppo Awg-Kp) per estenderne la sua validità al 2020, ma che è indirizzato ai soli paesi industrializzati. Gli Usa, che non hanno mai ratificato il protocollo di Kyoto, non vogliono che ora si faccia sopravvivere un protocollo di Kyoto «emendato». Per loro, l’unico accordo accettabile e che intendono ratificare è il trattato costruito sulla «road map di Bali».

Al contrario degli Usa, la Cina, l’India e la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, non accetteranno mai che il protocollo di Kyoto «emendato», costato 4 anni di lavoro, sia ora buttato nel cestino, dal momento che è l’unico strumento operativo vero, dove sono riportati impegni quantificati al 2020, modalità e regole di attuazione, verifiche e controlli fino alle sanzioni. L’unica cosa che manca nel protocollo di Kyoto «emendato» è la quantificazione definitiva degli impegni al 2020, a causa della reticenza dei Paesi sviluppati, in mancanza di decisioni politiche ad alto livello.

In posizione intermedia fra Usa e Cina è l’Unione europea ed alcuni altri Paesi sia industrializzati, sia in via di sviluppo, perché sono disponibili ad accettare entrambi i documenti: sia il nuovo trattato che rappresenta l’accordo di base con tutto il quadro strategico di lungo periodo fino al 2050, sia il protocollo di Kyoto «emendato» che rappresenta lo strumento operativo di breve periodo attraverso il quale attuare gli impegni al 2020 dei paesi industrializzati. Questi due documenti potrebbero diventare un unico trattato, se il protocollo di Kyoto «emendato», si attacca in fondo come appendice o come annesso al trattato principale costruito sulla «road map di Bali».

Elementi cruciali del nuovo trattato

1) Nel nuovo trattato gli impegni da attuare entro il 2050 riguardano tutti: Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo secondo il principio della responsabilità comune ma differenziata, che presuppone che i paesi industrializzati si impegnino di più e su obiettivi concreti e verificabili e che i Paesi in via di sviluppo si impegnino a fermare la crescita tumultuosa delle loro emissioni attraverso azioni concrete di sviluppo pulito con l’aiuto dei paesi industrializzati.

Tenendo presente che le emissioni globali di gas serra al 2050 dovranno essere inferiori al 50% delle emissioni globali del 1990 (per mantenere il surriscaldamento del pianeta al di sotto dei 2°C), ciò significa che i paesi industrializzati dovranno impegnarsi a ridurre le loro emissioni tra il 25 ed il 40% entro il 2020 rispetto al 1990 e di ridurle, poi, di almeno 80% entro il 2050, sempre rispetto al 1990 per dare ai Paesi in via di sviluppo più spazio e più tempo per ridurre le loro emissioni. I Paesi in via di sviluppo, da parte loro, dovranno impegnarsi a rallentare, e poi fermare, la crescita delle loro emissioni, facendole infine regredire entro il 2050 e portarle allo stesso livello dei paesi industrializzati ma con qualche decennio di ritardo.

Le promesse di riduzione delle emissioni dei paesi industrializzati al 2020, finora rese pubbliche, si aggirano mediamente, se riferite al 1990, attorno al 10-15%, cioè ben al di sotto del 25-40%, anche se al 2050 quasi tutti i paesi industrializzati si sono dichiarati disponibili a ridurle dell’80%, ma non sempre con riferimento al 1990. I Paesi in via di sviluppo, invece, si sono dichiarati disponibili a fare la loro parte, anche subito, purché i paesi industrializzati si impegnino concretamente ad attuare i loro obblighi e rendano concretamente disponibili le risorse finanziarie e tecnologiche necessarie affinché possano intraprendere il loro cammino a basse emissioni di gas serra.

2) Le promesse del presidente Usa: Obama, di intraprendere un cammino simile alla Unione europea. riducendo le emissioni americane e rendendo disponibili adeguate risorse finanziarie e tecnologiche, rimangono, per ora, dichiarazioni teoriche, dal momento che Obama non ha il supporto di una legislazione approvata dal Congresso americano, legislazione che presumibilmente sarà votata nei primi mesi del 2010. Cina ed India, invece, hanno già approvato i loro piani di conversione energetica verso le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica, per intraprendere un cammino a basse emissioni di gas serra, ma aspettano gli aiuti internazionali per metterli in atto.

3) Gli Stati delle piccole isole, dell’Oceano Pacifico, ma anche dell’Oceano Indiano ed Atlantico, associati nella Aosis (42 paesi) che hanno emissioni del tutto trascurabili di gas serra, e che non hanno avuto, nel passato, emissioni di gas serra, premono affinché si proceda all’adattamento dei loro territori (in genere atolli) ai cambiamenti del clima, Questi piccoli paesi oceanici, saranno, infatti, quelli che subiranno le maggiori conseguenze negative e i danni dei cambiamenti del clima, pur non avendo avuto nel passato, e non avendo nel presente, alcuna responsabilità all’inquinamento complessivo del pianeta. Questo significa che le risorse finanziarie da mettere a disposizione dovranno aiutare anche la Aosis ed i paesi più poveri, e meno responsabili, non solo sul fronte della mitigazione ma anche sul lato dell’adattamento ai cambiamenti del clima.

4) I paesi produttori di combustibili fossili, molti dei quali sono Paesi in via di sviluppo (ad esempio Kazakhstan, Turkmenistan, Uzbekistan, Nigeria, Venezuela, ecc.) poiché hanno le loro economie basate sulla produzione, vendita e commercializzazione di combustibili fossili, potrebbero essere, anche gravemente, danneggiati da un accordo globale di riduzione delle emissioni e di decarbonizzazione mondiale (Paesi industrializzati e in via di sviluppo). Tali Paesi hanno necessità di riconvertire le loro economie su settori di sviluppo socio economico diverso da quello dei combustibili fossili, riconversione non facile e non breve, senza l’aiuto dei Paesi industrializzati. Quindi, nel conto dei Paesi industrializzati, vanno messe anche le esigenze di questi Paesi.

Come uscirne senza rischiare il fallimento di Copenhagen

Se non si trova un accordo dell’ultimo minuto sui punti cruciali sopraddetti, le soluzioni possibili per evitare un clamoroso fallimento sono due:

1) Il trattato di Copenhagen ed il protocollo di Kyoto emendato, per i quali non possono essere scritti obblighi vincolanti (gli Usa non possono ed altri paesi industrializzati tentennano), dovrebbero subire uno slittamento di circa 6 mesi. In altre parole, andrebbero congelati ed accompagnati da un documento aggiuntivo nel quale tutti si impegnano per una data, da fissare entro il primo semestre del 2010, a definire, quantificandoli, i propri impegni. Si tratta in pratica di rimandare la data per un accordo «forte» dal dicembre 2009 al giugno-luglio del 2010, per chiudere definitivamente in un Copenhagen-bis, quello che si doveva chiudere nel Copenhagen di dicembre.

2) Se ci saranno, come ci saranno, problemi per far sopravvivere il protocollo di Kyoto emendato (gli Usa vogliono cancellarlo, India e Cina vogliono mantenerlo) si potrebbe affrontare la situazione, approvando a Copenhagen il solo trattato basato sulla «road map di Bali» (che fissa solo l’obiettivo al 2050), ma rendendolo legalmente vincolante sull’obiettivo a lungo termine (accordo forte solo su un aspetto). Per l’obiettivo a breve termine (al 2020), si potrebbero negoziare e definire i relativi impegni subito dopo Copenhagen. Tali impegni andrebbero fissati direttamente in relazione ai quattro pilastri della «road map di Bali», in altre parole: impegni sulla mitigazione, sull’adattamento, sulle risorse finanziarie e sugli strumenti tecnologici. La possibilità di accordarsi in relazione ai pilastri della «road map di Bali» invece che nel protocollo di Kyoto «emendato» (che così potrebbe essere buttato nel cestino), avrebbe maggiori probabilità di successo e sarebbe accettabile sia dai Paesi industrializzati che da quelli in via di sviluppo. Tuttavia, c’è un aspetto negativo: i tempi per arrivare alla definizione degli impegni al 2020 si allungano in modo non facilmente prevedibile e certamente non si riuscirà a portare a termine questo accordo, suddiviso in quattro parti, entro il 2010. Il tempo, invece, è fondamentale e non si possono più perdere ulteriormente altri anni.

Conclusione

Le attese di Copenhagen sono altissime e uscirne fuori senza una delle due soluzioni precedenti e con un accordo costituito solo di principi e di impegni generici, sarebbe una manifestazione eclatante di fallimento, una ammissione di spreco enorme di tempo in decine di riunioni inutili di migliaia di delegati (il processo è iniziato nel 2005) e perfino una dimostrazione, in termini di immagine, di inutilità dei processi negoziali delle Nazioni Unite, con ritorni molto negativi da parte dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Ecco perché, è necessario, ad ogni costo, che tutti i Paesi (ricchi e poveri, industrializzati ed in via di sviluppo), diano un segno di ferma volontà per un impegno forte e vincolante a Copenhagen, anche se tale impegno sarà solo in parte o solo a metà, purché accompagnato, però, da analogo impegno vincolante per completare tutto il cammino necessario nei sei mesi successivi.

E che debba esserci un vincolo per chiudere il trattato entro una data certa, non è solo un problema di credibilità dei negoziati delle Nazioni Unite e di rispetto per le attese di tutto il mondo, ma è anche un problema dei necessari tempi procedurali per le notifiche, le ratifiche, il deposito delle ratifiche e l’entrata in vigore, tempi procedurali che rischierebbero di far saltare la coincidenza tra la scadenza dell’attuale protocollo di Kyoto (2012) e l’entrata in vigore del nuovo trattato, con un buco temporale indeterminato.