Clima – Senza interventi i poveri più poveri

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L’indagine invita a un new deal globale per vincere la sfida climatica attraverso lo sviluppo dei Paesi più poveri

Promuovere lo sviluppo, salvare il Pianeta, questo il titolo di un rapporto predisposto dalle Nazioni unite e diffuso in occasione della Conferenza mondiale sul clima tenutasi a Ginevra nei primi giorni di settembre. La sfida del cambiamento climatico che il mondo si trova a dover fronteggiare è frutto di due secoli di emissioni incontrollate. Continuare su questa linea andrebbe in direzione opposta a quanto promesso al momento della sottoscrizione, da parte di 160 Paesi, del Protocollo di Kyoto.

A farne le spese sono quei Paesi in via di sviluppo, che da un punto di vista storico hanno le minori responsabilità. Anche se i Paesi economicamente avanzati stanno iniziando ad associare alle parole i primi fatti, gli sforzi attuati non sono sufficienti a vincere questa sfida: è adesso necessaria la partecipazione attiva dei Paesi in via di sviluppo, che è possibile solo se associata ad una crescita economica rapida e sostenibile. Una trasformazione verso un’economia di forte crescita e basse emissioni, è possibile solo con la creazione di un new deal globale capace di aumentare il livello degli investimenti, e di incanalare risorse verso un’attività economica più pulita. Molti Paesi in via di sviluppo non dispongono tuttavia delle risorse finanziarie, delle conoscenze tecnologiche, e delle capacità istituzionali per portare avanti questa strategia ad una velocità commisurata all’urgenza della sfida climatica.

È stimato che per ogni singolo grado di aumento della temperatura globale, il tasso di crescita dei Paesi in via di sviluppo possa scendere di due o tre punti percentuali, senza eccessive ripercussioni sui Paesi sviluppati, che potrebbero addirittura trarne benefici economici, come un aumento della produzione agricola (dovuta alla fertilizzazione da carbone), od una diminuzione dei costi di trasporto, grazie a nuove rotte artiche prive di ghiacci. Le emissioni dei Paesi sviluppati sono all’incirca 6-7 volte superiori rispetto a quelli in via di sviluppo. Il danno derivato dal cambiamento climatico non sarà percepito uniformemente fra stati e comunità. 600 milioni di persone potrebbero diventare vittime della malnutrizione come conseguenza dell’aumento delle temperature, e si trovano tutte in Paesi sottosviluppati.

Nei Paesi sviluppati, se l’aumento delle temperature supererà i due gradi centigradi, molte aree potrebbero veder accrescere il pericolo derivato dalle vulnerabilità già esistenti, riguardanti principalmente la disponibilità dell’acqua, e danni per le comunità costiere.

Un aumento delle temperature superiore a 2°C costituirebbe un grave pericolo anche per molte grandi città, come New York, Londra, Tokyo, Dacca, Shanghai, Mumbai e Rio de Janeiro, a causa dell’innalzamento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacciai. Sulla Cordigliera delle Ande, lo scioglimento dei ghiacciai metterebbe a rischio le scorte d’acqua e la sopravvivenza per almeno 30 milioni di persone. La sopravvivenza di 500 milioni di persone in tutto il mondo dipende dalle acque dei ghiacciai, e 600 milioni di persone che vivono in basse zone costiere sono a serio rischio.

Quando i Paesi sviluppati subiscono shock ambientali, possono attingere a risorse finanziarie ed istituzionali che permettono loro di far fronte a molti dei danni, diversamente dai Paesi in via di sviluppo, dove le perdite per siccità od inondazioni sarebbero quasi il doppio, mentre il numero di profughi e sfollati sarebbe molte volte superiore.

Ridurre le emissioni di gas serra richiederà ingenti investimenti provenienti da tutti i settori, con l’intento, tra le altre cose, di fermare la deforestazione, di riequipaggiare gli edifici per renderli energeticamente più efficienti, e di ridisegnare i sistemi di trasporto. Sarà tuttavia la transizione energetica a giocare un ruolo chiave nella strategia per combinare cambiamento climatico e obiettivi di sviluppo.

L’utilizzo di energia è responsabile al 60% di tutte le emissioni di gas serra, e una grande percentuale della riduzione di emissioni (all’incirca l’80%) dovrà provenire da una riformulazione dei sistemi energetici. La figura 0.2 mostra l’evoluzione storica, e un possibile futuro, per il sistema energetico globale e la percentuale di energia proveniente dalle diverse tecnologie esistenti. Questo scenario limiterebbe l’aumento della temperatura media a circa 2°C entro la fine del secolo, ma molte delle tecnologie necessarie a questa trasformazione hanno ancora un costo inaccessibile ai Paesi più poveri, se si esclude un sostegno economico da parte di quelli più ricchi.

Esistono tra gli 1,6 e i 2 miliardi di persone, la maggior parte in aree rurali, con difficoltà di accesso alle risorse energetiche. Dare energia a queste persone costerà approssimativamente 25 miliardi di dollari all’anno, per i prossimi 20 anni. Una somma consistente, ma modesta se paragonata ai flussi monetari che vengono mossi dai Paesi sviluppati per salvare settori dell’industria in crisi, come quello dei trasporti.

L’attuazione di questi investimenti porterebbe alla creazione di un vasto mercato dell’energia, con la conseguente applicazione di nuove conoscenze e tecnologie anche ad economie di più vasta scala, generando così occupazione e sviluppo. L’importanza potenziale del mercato dell’energia nei Paesi in via di sviluppo è tale da rappresentare una ghiotta opportunità d’investimento.

Anche se i costi e i rischi iniziali fungono da deterrente per gli investitori privati, al settore pubblico andrebbe riservato un ruolo chiave, almeno nelle prime fasi di questa espansione Chi promuove politiche integrate per sviluppo e cambiamento climatico, può certamente imparare dall’esperienza delle politiche del New deal negli Stati Uniti, in risposta alla depressione degli anni 30.

In particolare, gli investimenti pubblici in materia di energia, trasporti, agricoltura e salute, hanno portato non soltanto alla piena occupazione, ma anche ad una crescita economica tale da generare investimenti da parte di privati, quindi ulteriori posti di lavoro. L’attuale investimento nel sistema energetico globale è stimato in circa 500 miliardi di dollari all’anno. Lo scenario sostenibile mostrato in figura 0.2 richiederebbe almeno il doppio degli sforzi nei prossimi decenni: circa 1000 miliardi all’anno, o 20.000 miliardi per il 2030.

I costi globali per la mitigazione climatica e la limitazione dell’aumento dei gas serra sono estremamente variabili, e dipendono dalle metodologie utilizzate, e da quale sarà la concentrazione di gas presa come obiettivo: 450 parti per milione (ppm), o 550. Questi costi possono variare dallo 0,2 al 2% del prodotto lordo mondiale, o fra i 180 e i 1.200 miliardi di dollari per anno, fino al 2030. Nel breve e medio termine, l’adattamento al cambiamento climatico influenza anche i costi dello sviluppo. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) ha stimato che per attuare investimenti che siano immuni all’aumento delle temperature, sono necessari circa 40 miliardi di dollari, che arriveranno a 86 entro il 2016. Il fallimento nell’attuazione immediata della stabilizzazione climatica avrà invece un costo futuro molto più alto, fino ad 800 miliardi di dollari entro il 2030 (stima di McKinsey & Company, azienda di consulenza e gestione globale).

21 sono i miliardi di dollari, provenienti da fonti multilaterali, attualmente a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per adattarsi ai cambiamenti climatici. Questa cifra dovrà aumentare il prima possibile. Gli investimenti per l’adattamento comprendono misure volte a prevenire eventuali catastrofi naturali, ed a limitare i danni nel caso queste si verifichino.

Non è tuttavia semplice stabilire dove finiscano i normali investimenti per lo sviluppo, e dove inizino quelli per l’adattamento climatico: una stima precisa delle spese necessarie è assai difficile.

I costi globali per l’adattamento nelle cinque macroaree (agricoltura, acqua, salute, zone costiere ed infrastrutture) possono variare fra i 49 e i 171 miliardi di dollari, dei quali una percentuale fra il 34 ed il 57% è destinata ai soli Paesi in via di sviluppo.

Il finanziamento per tali investimenti è uno dei freni maggiori alla sfida climatica: riforme istituzionali, ricapitalizzazioni e ristrutturazioni delle banche per lo sviluppo dovranno essere adottate. Queste difficoltà servono comunque ricordare che da adesso, ogni «new deal ecologico» dovrà essere pensato solo a livello globale. Un new deal globale sostenibile deve cercare di stabilire una nuova agenda di politiche pubbliche che ponga gli stati su un differente cammino di sviluppo, che protegga le risorse naturali in maniera equa, senza compromettere la creazione di lavoro e la crescita. Questo obiettivo può essere raggiunto solo a patto che i governi dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri collaborino in iniziative congiunte volte al trasferimento delle conoscenze tecnologiche, e che i concetti di mitigazione climatica e sviluppo dei Paesi poveri, non siano più scissi e trattati singolarmente.

(Fonte Arpat, Testo a cura di Alessandro Bianchi)