Agroenergie e territorio

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Il convegno di Anci e Legambiente sul ruolo dei Comuni italiani nella gestione delle fonti rinnovabili di origine agricola. Ecco le proposte per conciliare energia e uso corretto del suolo in vista del Piano nazionale per le energie rinnovabili

Pianificazione territoriale, incentivi modulari, integrazione di filiere, certificati bianchi all’agricoltura e sviluppo del biometano. Sono questi i punti chiave del documento sulle agroenergie definito da Anci e Legambiente insieme alle associazioni agricole e ai Comuni intervenuti oggi al convegno Agroenergie e territorio nella giornata inaugurale di Vegetalia, il Salone delle fonti rinnovabili in corso a Cremona fino a domenica. Un appuntamento organizzato dalle due associazioni per fare il punto, insieme alle amministrazioni locali, sul contributo dell’agricoltura nella lotta ai cambiamenti climatici, sull’utilizzo del suolo agricolo e sulle opportunità offerte dall’energia verde.

L’impiego delle energie rinnovabili sui suoli agricoli ha ricevuto un notevole impulso dalle nuove tariffe incentivanti. Queste, spesso, però, non vanno a beneficio dell’agricoltura, dell’efficienza energetica e delle risorse del territorio. E poiché l’Italia non ha ancora elaborato il Piano d’azione nazionale in materia di energie rinnovabili, da inviare a Bruxelles con la previsione su come raggiungere l’obiettivo del 17% dei consumi finali di energia proveniente da fonti rinnovabili entro il 2020, Anci e Legambiente hanno ritenuto utile un documento di proposte condivise con le parti interessate da presentare ai Ministri Scajola, Zaia e Prestigiacomo.

Le recenti disposizioni in materia di energia approvate dal Parlamento italiano, in particolare i 28 cent/kwh per tutti gli impianti al di sotto di un MW e il decreto ministeriale di prossima pubblicazione che riconosce un coefficiente, per gli impianti superiori a un Mw, di 1,8 per le biomasse provenienti da «filiere corte» consentono finalmente anche a questo settore di mettersi in moto e di poter portare un contributo significativo all’aumento della quota di energia proveniente da fonti rinnovabili. «Ma in quei provvedimenti – ha dichiarato Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente – ci sono anche errori che rischiano di vanificarne gli effetti positivi: negli impianti di piccola taglia l’allargamento della tariffa onnicomprensiva anche alle biomasse generiche parifica le biomasse agroforestali e i sottoprodotti agroindustriali alle frazioni organiche dei rifiuti urbani, è un errore perché non riconosce la diversa sostenibilità, economica e ambientale, di impianti alimentati da biomasse di origine locale o provenienti da filiere corte, non premia adeguatamente l’efficienza energetica e non valorizza il reddito agrario derivante dalla vendita di energia; per gli impianti di taglia più grande si estende il beneficio della “filiera corta” non solo alle biomasse proveniente da un raggio di 70 chilometri di distanza dall’impianto, ma anche a quelle provenienti da “accordi di filiera” che permetteranno persino l’importazione dall’estero. Poiché il mercato e l’industria si muovono in base alla direzione tracciata dagli incentivi, sarebbe necessario essere molto più rigorosi nel concedere gli stessi solo a biomasse che permettano risparmi misurabili nelle emissioni di CO2 (almeno del 35%), così come si stanno orientando altri paesi europei, e sarebbe stata molto utile una tariffa incentivante modulare, che alla tariffa “base” affianchi premi per l’utilizzo del calore e per l’accorciamento della filiera».

«La possibilità che il mondo agricolo partecipi a pieno titolo alla produzione di energia dipende in larga misura dalla definizione di accordi a livello regionale o locale tra i diversi attori coinvolti, orientati a ripartire equamente su tutta la filiera il valore aggiunto prodotto – ha aggiunto Flavio Morini, delegato Anci all’Ambiente -. Le filiere attivate a livello nazionale in questi anni hanno coinvolto solo marginalmente agricoltori, trasformatori e distributori locali favorendo, invece, strutture industriali che hanno utilizzato come materia prima oli o semi oleosi acquistati a basso costo sul mercato internazionale. Le agroenergie non si possono considerare una commodity energetica: se l’approccio a questa fonte è di tipo prettamente mercantile, prevale il criterio di produrre la massima quantità al minor prezzo, col conseguente ricorso a materie prime importate, senza alcuna ricaduta positiva per il sistema agricolo nazionale».

Le agroenergie sono, invece, da intendere – precisa il documento comune – come una fonte energetica indissolubilmente legata alle economie agricole locali e ai contesti territoriali. Questo implica uno sviluppo altamente decentrato, con scelte di tecnologie e di impianti dimensionate sulle risorse di biomassa dei diversi territori, e solo le filiere locali (per produrre e utilizzare energia in loco) in impianti di piccole dimensioni (inferiori a 1 MW elettrico di potenza), sono in grado di esaltare le ricadute economiche e ambientali delle agroenergie.

Data l’estrema frammentazione territoriale, inoltre, per incrementare l’apporto dell’agricoltura italiana al conseguimento degli obiettivi ambiziosi fissati dall’Unione europea per le rinnovabili (20%) e soprattutto per i biocarburanti (10% sul consumo energetico finale nel settore dei trasporti), l’impegno del Governo e delle Regioni italiane va rapidamente indirizzato a stimolare lo sviluppo del biometano (il biogas è la risorsa più abbondante in Italia), così come la ricerca e lo sviluppo dei cosiddetti biocarburanti di «seconda generazione» (in particolare i biocombustibili liquidi dai residui ligno cellulosici e dagli scarti agroalimentari). Altrimenti il contributo delle agroenergie non potrà che rimanere limitato.

È opportuno che ogni Regione identifichi le potenzialità di biomassa a fini energetici dei suoi diversi territori – tagli e residui forestali, residui agricoli, colture dedicate – e su questa base pianifichi e dimensioni potenza energetica globale, tipologia e dislocazione territoriale degli impianti. Importante, anche, un’analisi delle possibilità di recupero delle terre marginali, dei terreni agricoli incolti, dei terreni contaminati, delle fasce tampone autostradali per valutare la potenzialità di sviluppo ulteriore di colture energetiche dedicate in questi terreni e di incentivi particolari per le filiere che le utilizzano.

Inserite in piani di rotazione con le tradizionali colture alimentari e destinate principalmente a filiere locali, le attuali colture da energia (oleaginose in particolare e in genere le colture per biocarburanti di prima generazione) possono trovare impiego efficace a livello di pianificazione locale, sotto il profilo sia ambientale sia economico. Si tratta di adottare, invece del tradizionale criterio di resa per ettaro, un criterio di produttività «totale» che consideri anche il valore ricavabile dai diversi co-prodotti utilizzabili (es. panello residuo dei semi, residui colturali lasciati sul campo, frazione solida residua dalla fermentazione) e la quantità di sostanza organica resa al suolo. Un meccanismo che consentirebbe l’incremento del valore aggiunto delle colture dedicate, con l’integrazione di filiere diverse alimentari e non, sullo stesso territorio e con l’utilizzazione integrale delle produzioni destinate alla trasformazione in energia.

È fondamentale per questo che all’agricoltura, e in particolare alle pratiche agricole ecologiche, venga riconosciuto concretamente – con l’incentivo dei certificati bianchi – il ruolo di lotta ai cambiamenti climatici anche come fissatore di carbonio nel terreno.

(Fonte Legambiente – Anci)