Voglia di scoop, i benefici della crescita per la biodiversità

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L’alto tasso di deforestazione tropicale non è dovuto alla povertà, poiché le popolazioni locali incidono poco sugli abbattimenti, ma è causato principalmente dall’esportazione industriale operata proprio da quei Paesi che l’«Economist» definisce ricchi e in miglioramento rispetto alla deforestazione. Ovviamente, dopo aver distrutto per decenni intere foreste per costruire ferrovie e infrastrutture, i Paesi «ricchi» attingono a piene mani da quelli «poveri» per garantirsi le risorse naturali. Accusarli poi di non essere in grado di ridurre la deforestazione a causa della povertà, è quanto di più assurdo una testata così nota possa aver mai riportato nelle sue pagine

Abstract

This week the most famous economical journal, the Economist, publishes a special report on Economic growth and biodiversity titled “The effects of growth. The long view” which argue that “Contrary to popular belief, economic growth may be good for biodiversity”. The quoted British magazine offers a distorted view in an attempt to reverse years of efforts to bring in the right place the concepts of sustainable development, economic growth and well-being. The idea is to pass the theory that the current decline in the world’s biodiversity is due to uncontrolled Western economic development off as unfounded. The analysis, however, superficial and often inconsistent, fails to mention the natural and human history trying to justify his thesis by comparing the different policies to protect the environment of neighbouring countries.
Even if the awareness to keep a sustainable model of life in the Western countries is increasing, in this decade many developing countries are experiencing the economic growth, putting in big threat their environment. The opposite analysis of Roberto Cazzolla Gatti, environmental and evolutionary biologist, founder of the Economology Society and author of the book “The civilization paradox”, suggests that society follows common patterns of development from the indigenous’ lifestyle to poor society through a developing country to a developed country. Following these steps each society exploits its natural resources during the economic development towards its “civilization”. Nowadays, we can observe the Boreal hemisphere – populated by 2 billion people – consuming the whole environmental capital in one year and the Austral hemisphere – made of 5 billion people – consuming resources at a growing rate, which will reach in few years the Western standard. If no actions to skip the “intermediate” stage of overexploitation of natural resources during the economic growing phase are taken for the “Southern World Countries”, contrary to what Economist strongly and absurdly sustains, the Earth system cannot be able to keep alive the global biodiversity and provide services to sustain human life.

 

È in edicola questa settimana un numero speciale dell’«Economist» dal titolo «Gli effetti della crescita. La lunga vista». Insieme a una discreta analisi sullo stato della biodiversità mondiale e sugli effetti degli interventi umani su di essa, la quotata rivista britannica propone una visione distorta nel tentativo di ribaltare anni di sforzi per riportare al posto giusto i concetti di sviluppo sostenibile, crescita economica e benessere.
In uno degli articoli dello special report la rivista chiosa: «Contrariamente alla credenza popolare, la crescita economica può essere una cosa buona per la biodiversità». Uno spot che provenendo dalla più prestigiosa rivista economica pubblicata in Europa potrebbe non sorprendere molti, ma che nasconde un messaggio pericoloso una volta raggiunto il pubblico dei lettori. Si vorrebbe far passare per infondata la teoria secondo la quale l’attuale declino della biodiversità mondiale sia dovuto all’incontrollato sviluppo economico occidentale.
La dissertazione si apre con un’interessante riflessione: «I confronti tra Paesi limitrofi separati da politica o economia possono essere istruttivi. Le foreste della Corea del Nord sono diminuite di circa il 2% l’anno negli ultimi vent’anni, mentre in Corea del Sud sono stabili. Immagini satellitari dell’isola di Hispaniola, nelle Antille, dimostrano che il lato occidentale (Haiti, con un Pil pro capite di $ 771/anno) è sterile, mentre la parte orientale (Repubblica Dominicana, con Pil per persona di $ 5736/anno) possiede ancora molta fitta foresta. La crescita economica è ampiamente ritenuta dannosa per le specie diverse dall’uomo. Ma, come le fortune contrastanti delle foreste (una degna sineddoche della biodiversità) nella penisola coreana e ad Hispaniola dimostrano, non è tanto la crescita quanto la povertà a ridurre la biodiversità. La povertà senza crescita, combinata con la sovrappopolazione, è disastrosa. La povertà in combinazione con la crescita può essere altrettanto disastrosa. Ma una volta che le persone godono di un certo livello di prosperità, i benefici della crescita per le altre specie superano i suoi svantaggi».
L’analisi, però, superficiale e spesso infondata, omette di ricordare la storia naturale e umana quando si accinge a giustificare la sua tesi confrontando i Paesi limitrofi.
La Corea del Nord, infatti, è uno Stato socialista con un sistema economico pianificato e un livello di rispetto dei diritti umani tra i più bassi al mondo. Le condizioni di vita della Corea Popolare sono fortemente segnate dalla politica economica basata sull’industria pesante e questa è stata la causa principale della deforestazione nel Paese. L’industrializzazione socialista, l’isolamento politico ed economico acutizzatosi dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, insieme alle numerose calamità naturali, sono state la causa dell’impoverimento generale. Il Paese è retto da decenni da una dittatura totalitaria di stampo stalinista, sul modello della Repubblica Popolare Cinese ai tempi di Mao Zedong, che ha basato la sua idea di «crescita » sulla deforestazione e la distruzione dell’ambiente (conseguenze che si acutizzano sempre più in Cina).
Il territorio sudcoreano, invece, è prevalentemente montuoso e, nella maggior parte dei casi, non coltivabile. I territori adibiti all’agricoltura, situati a ovest e sud-est, costituiscono solamente il 30% del territorio nazionale e questa è la semplice ragione per cui la Corea del Sud ha più foreste di quella del Nord. La povertà centra ben poco. La crescita assolutamente nulla.

Crescita o sviluppo?

Il 3 gennaio 1993 il «Corriere della Sera» scriveva: «L’autorevole World Watch [Institute] ha appena riferito di uno spiacevole fenomeno in corso ad Haiti, dove la carenza di combustibile per cucinare (dovuta all’embargo economico seguito al recente colpo di Stato militare) aveva determinato un considerevole aumento del consumo di carbone di legna. Si è infatti calcolato che, se fino allo scorso anno le foreste ricoprivano solo il 10 per cento della superficie complessiva dell’isola, attualmente, come ha sottolineato Gerald Bailly della Camera di commercio locale, si è scesi attorno a una cifra inferiore al 6 per cento». Il quotidiano britannico «Guardian», poco dopo il terremoto che ha devastato il Paese, riportava: «Si stima che, al livello attuale, ogni anno vengano tagliati dai 30 ai 40 milioni di alberi. Finora i progetti per tutelare le foreste sono stati solo sporadici, su piccola scala, e a portarli avanti sono state soprattutto Ong straniere. Ad Haiti la deforestazione è una delle cause scatenanti della povertà: porta infatti a un peggioramento della qualità del suolo e dei rendimenti agricoli, alla scarsità d’acqua e, di conseguenza, al rischio di malnutrizione soprattutto nelle zone rurali. Per giunta, aggrava l’impatto dei disastri naturali come terremoti, inondazioni e uragani».
In poche righe diventa evidente la fallacia dell’analisi dell’«Economist»: la «deforestazione è una delle cause scatenanti della povertà» e non la sua conseguenza. L’attuale modello economico propagandato da economisti e riviste di settore (l’«Economist» è paragonabile alla Bibbia in questo campo) insiste sul rimediare ai disagi delle nazioni mediante la pressione sulla crescita e sullo sviluppo. Un modello lineare e semplicistico che non prende, assolutamente, in considerazione i limiti della Terra nel garantire risorse naturali sufficienti allo sviluppo di una popolazione in costante crescita, che si assesta sui 6 miliardi di abitanti, con l’Asia che ospita il 60% dell’umanità e l’Africa che si accinge a contenerne il 30%. Continuare a proporre un sistema economico fondato sulla crescita, dopo aver assistito ai disastri che questa strategia politica ha causato in Occidente, è un atteggiamento criminale, che illuderà le popolazioni in via di sviluppo e le renderà ancor più povere di quanto non fossero già. La crescita quantitativa non è possibile oltre il livello già raggiunto sul pianeta. Attualmente utilizziamo 1,5 mondi per soddisfare i nostri bisogni di materie prime e risorse naturali. Ciò significa che già stiamo sperperando le risorse dell’immediato futuro.
L’overshoot day è stato proposto dal Global Footprint Network di Londra per segnare il giorno in cui il consumo di beni naturali nel mondo supera la quantità prodotta nell’intero anno. Nel 2012 è coinciso con il 22 agosto, ma nel 1987 cadeva il 19 dicembre. Si stima che entro la metà del secolo ci serviranno due pianeti. Invocare la crescita per salvare la biodiversità è un messaggio distorto che serve a tutelare gli interessi dei gruppi e degli stati capitalisti e a propagandare l’idea di libero mercato tanto amata dagli economisti canonici.

Ricchi sfruttando i poveri

L’«Economist» tenta in tutti i modi di giustificare la sua posizione approfondendo la teoria economica: «Sembra che esista una versione ambientale della curva di Kuznets, che descrive la relazione tra la prosperità e la disuguaglianza in una forma a U rovesciata. Nelle prime fasi di crescita la disuguaglianza tende a crescere; nelle fasi successive diminuisce. Allo stesso modo, nelle prime fasi di crescita la biodiversità tende a soffrire, nelle fasi successive torna ad avvantaggiarsene. L’Indice del pianeta vivente (Lpi), sviluppato dalla Zoological Society di Londra e il Wwf, mostra un calo del 61% della biodiversità tra il 1970 e il 2008 nelle zone tropicali, che tendono ad essere più povere, ma un miglioramento del 31% rispetto allo stesso periodo nelle zone temperate, più ricche. Allo stesso modo, i Paesi poveri tendono ad abbattere le foreste e Paesi ricchi al loro impianto».
Anche qui le considerazioni sono parziali e omettono dettagli importanti. L’alto tasso di deforestazione tropicale non è dovuto alla povertà, poiché le popolazioni locali incidono poco sugli abbattimenti, ma è causato principalmente dall’esportazione industriale operata proprio da quei Paesi che l’«Economist» definisce ricchi e in miglioramento rispetto alla deforestazione. Ovviamente, dopo aver distrutto per decenni intere foreste per costruire ferrovie e infrastrutture, i Paesi «ricchi» attingono a piene mani da quelli «poveri» per garantirsi le risorse naturali utili alla loro crescita economica inarrestabile e insensata e li accusano, poi, di non essere in grado di ridurre la deforestazione a causa della povertà. È quanto di più assurdo una testata così nota possa aver mai riportato nelle sue pagine.
Sulla rivista «Economology Journal» nel 2011 ho pubblicato un articolo dal titolo «Modelli globali di sviluppo umano e protezione dell’ambiente». In quel lavoro di ricerca scrivevo: «Anche se la consapevolezza per mantenere un modello di vita sostenibile nei Paesi occidentali è in aumento, in questo decennio molti Paesi in via di sviluppo stanno vivendo la crescita economica, mettendo in grande pericolo il loro ambiente. La mia analisi suggerisce che le società seguono modelli comuni di sviluppo a partire dagli stili di vita degli indigeni passando per società povere attraverso la “via di sviluppo” sino a giungere alla condizione di società “sviluppata”. In seguito a questi passaggi ogni società sfrutta le proprie risorse naturali durante lo sviluppo economico verso la sua “civiltà”. Attualmente vediamo l’emisfero boreale (popolato da 2 miliardi di persone) consumare l’intero capitale ambientale in un anno e l’emisfero australe (composto da 5 miliardi di persone) utilizzare le risorse a un tasso crescente, che raggiungerà in pochi anni lo standard occidentale. Se non saranno intraprese azioni per saltare la fase “intermedia” di sovrasfruttamento delle risorse naturali durante la corsa verso la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo, il sistema Terra non potrà essere in grado di mantenere in vita la biodiversità globale e di fornire servizi per sostenere l’esistenza umana».
In questo studio ho utilizzato lo stesso indicatore citato dall’«Economist» (il Living Planet Index), ma arrivando a conclusioni significativamente differenti.

Una galoppante perdita di biodiversità

Il nostro pianeta si trova ad affrontare una serie di sfide che potrebbero portare alla perdita di molti ecosistemi. Queste sfide sono dovute alla domanda umana di risorse naturali e spazio (Daily, 1992). La principale causa di perdita della biodiversità negli ultimi tempi è la distruzione e il degrado degli habitat (Mea, 2005a). Più della metà della superficie originale stimata di foreste di latifoglie temperate era già stata convertita in agricoltura, piantagioni forestali e aree urbane prima del 1950 (Mea, 2005). Al contrario, la deforestazione e il cambiamento dell’uso del suolo sono incrementati nei tropici dopo il 1950 (Mea, 2005a). Lo sfruttamento degli ecosistemi acquatici è ormai ben oltre i livelli che possono essere sostenuti attualmente (Mea, 2005b). Inoltre, le previsioni suggeriscono continuamente che la domanda di acqua continuerà a crescere nella maggior parte del mondo (Gleick P. et al., 2009).
Inoltre, l’aumento della richiesta mondiale di grassi derivanti dalla palma da olio continua a essere uno dei principali fattori alla base di un recente drammatico calo della copertura forestale nel Sud-est asiatico (Nantha H. S. e Tisdell C., 2009). Ad esempio, i dati suggeriscono che le due specie di oranghi hanno già subito una riduzione di dieci volte le dimensioni della popolazione nel corso del XX secolo (Goossens B. et al., 2006) e molte popolazioni hanno toccato livelli minimi. Una forte domanda di prodotti ittici in combinazione con l’aumento di potenza delle imbarcazioni su scala globale e tecniche di pesca inefficienti hanno generato l’overfishing (Lpr , 2010).

 

Figure 1

L’indicatore più utilizzato per lo sviluppo è l’Indice di sviluppo umano (Hdi) del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) che, mediante la combinazione di reddito, speranza di vita e livello d’istruzione, confronta i Paesi sulla base del loro livello di sviluppo economico e sociale (Undp, 2009a). La relazione tra Impronta ecologica (Fig. 1, un indicatore dell’impatto delle azioni umane sull’ambiente) e Hdi non è lineare, ma possiede alcuni elementi d’incomprensione (al contrario della semplicità sostenuta dall’«Economist» quando cita la curva di Kuznets) la cui spiegazione potrebbe essere fondamentale per affrontare la crescita umana nei prossimi anni.
Nei Paesi con un basso livello di sviluppo, l’Hdi è indipendente dall’impronta ecologica pro capite. Tuttavia, con l’aumentare dello sviluppo oltre un certo livello, aumenta anche l’impronta pro capite; fino al punto in cui piccoli guadagni in Hdi vengono realizzati a un alto incremento della footprint (Lpr, 2010). Queste considerazioni rendono l’impronta ecologica un indicatore non molto valido per analizzare lo stato di conservazione dell’ambiente e della fauna selvatica globale, così come lo è per la valutazione dell’impatto umano sulla nostra Terra. Dopo il punto d’intersezione tra il crescente sviluppo e la diminuzione dell’ambiente naturale è possibile trovare un altro punto d’intersezione tra l’aumentare della sostenibilità e la diminuzione dell’impronta ecologica. Questo secondo punto, mai citato dagli analisti e mal interpretato dall’«Economist», sembra essere l’unica possibilità per sopravvivere in un pianeta sovrappopolato dall’uomo, garantendo un elevato livello di protezione della biodiversità e la conservazione degli ecosistemi .
Per interpretare al meglio lo stato di conservazione della biodiversità e degli ecosistemi e monitorare le pressioni su di essi, sono stati utilizzati una vasta gamma d’indicatori (Butchart, 2010; Cbd, 2010). Una delle misure più utili per valutare lo stato della biodiversità globale è il Living Planet Index (Lpi), utilizzato proprio nello special report della rivista economica britannica. Il Lpi si serve di una serie d’indicatori per il monitoraggio della biodiversità, la domanda umana di risorse rinnovabili, dei servizi ecosistemici e riflette i cambiamenti nella salute degli ecosistemi del pianeta individuando i trend delle popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi. Per poter immaginare la situazione attuale della Terra in termini di indice del pianeta vivente come un indicatore della protezione ambientale è opportuno dividere il mondo in 5 reami biogeografici.
In Nord America, inclusa la Groenlandia, esiste una notevole stabilità delle popolazioni viventi probabilmente a causa di un’efficace tutela ambientale e degli sforzi di conservazione operati a partire dal 1970. Per questo regno biogeografico, l’indice ha basso livello d’errore e un alto grado di fiducia (Lpr, 2010).
Le popolazioni delle specie nel regno Afrotropicale, invece, mostrano segnali di ripresa a partire dalla metà degli anni 90, quando l’indice ha toccato il suo livello più basso (-55 %), anche se è ancora al -18 %. Tuttavia, questo aumento può essere dovuto in parte a una migliore protezione della fauna selvatica nelle riserve naturali e parchi nazionali in Paesi in cui sono disponibili dati relativamente affidabili, come l’Uganda (Pomeroy, Daht, 2009). Dati provenienti da un numero più ampio di Paesi africani fornirebbero un quadro più dettagliato di queste tendenze (Lpr, 2010) .
Il calo del regno Neotropicale riflette un diffuso cambiamento di uso del suolo e l’incremento dell’industrializzazione di tutta la regione dal 1970, ma è anche dovuto in parte al declino catastrofico delle popolazioni di anfibi causato, in molti casi, dalla diffusione di parassitosi fungine. La diminuzione della foresta tropicale in questo reame si attesta intorno a circa lo 0,5 % l’anno, con una perdita di superficie totale tra il 2000 e il 2005 di 3-4 milioni di ettari all’anno (Fao, 2010; Hansen M. C. et al., 2008).
L’aumento del Paleartico, invece, può essere dovuto al recupero di popolazioni delle specie in seguito a una migliore tutela ambientale sostenuta da alcuni Paesi a partire dal 1970. Tuttavia, poiché la maggior parte dei dati sulle popolazioni animali provengono dall’Europa e relativamente pochi dati provengono dall’Asia settentrionale, i dati dei singoli Stati potrebbero fornire un quadro diverso (Lpr, 2010).
Il regno Indo-Pacifico comprende l’Indomalesia, l’Australasia e le isole oceaniche. Il declino delle sue popolazioni riflette proprio il rapido sviluppo agricolo, industriale e urbano in tutta la regione, che ha portato alla più rapida distruzione e alla frammentazione delle foreste, delle zone umide e dei sistemi fluviali in qualsiasi parte del mondo (Loh J. et al., 2006; Mea, 2005b). La copertura di foresta tropicale tra il 1990 e il 2005, ad esempio, è diminuita più rapidamente nel Sud-Est asiatico che in Africa o in America Latina, con stime che vanno dallo 0,6 % allo 0,8% l’anno (Fao, 2010; Hansen M. C. et al., 2008).
Attualmente un aumento del consumo sembra essere necessario per un aumento dello sviluppo (Ehrlich, 1992) e come suggerisce l’«Economist» per la protezione della biodiversità. Ma questo è solo una mezza verità. Nel mondo, le persone di diversi Paesi consumano in maniera molto differente tra loro; i Paesi più ricchi e sviluppati tendono a consumare molto più di quelli poveri e meno sviluppati.

Grafici a confronto

Lo scenario presentato dal Lri non racconta tutta la storia dal momento che i dati sono stati rilevati dal 1970, quando la maggior parte delle popolazioni del Paleartico e Neartico erano già in via di sviluppo e avevano già causato molti danni al loro ambiente. Presumibilmente, andando più indietro e considerando un periodo precedente agli anni 70, avremmo un inferiore Lri per l’Europa e il Nord America e valori un po’ meno bassi per i Paesi che sono attualmente in via di sviluppo.
Un alto livello di sviluppo umano, in cui le persone hanno la capacità di raggiungere il loro potenziale e vivere esistenze produttive e creative seguendo i loro bisogni e interessi (Undp, 2009), è chiaramente essenziale per tutti gli individui, ma di solito conduce ad un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e dei servizi ecosistemici. Analizzando i modelli di sviluppo seguiti dalle società nel corso della storia umana (Harris, 1987; Livi-Bacci, 1987; Parsons, 1977), si osserva una tendenza comune a tutte le civiltà, con una relazione inversa tra il livello di sviluppo umano e il degrado degli ecosistemi, almeno fino al raggiungimento di un livello specifico di «crescita». Capire dov’è questo punto sarà fondamentale per garantire che i 4-5 miliardi di persone che vivono sotto i livelli di sviluppo o in un Paese in via di sviluppo evitino la fase di «sfruttamento» delle risorse naturali (ciò che è stato realizzato fino ad ora dai 2 miliardi di persone dei «Paesi sviluppati») portando gli ecosistemi al collasso.

 

Figure 2

 

 

Figure 3

 

 

Figure 4

Per analizzare il duplice effetto dovuto allo sviluppo della popolazione umana/crescita economica sulla protezione dell’ambiente sul sistema Terra ho combinato il Living Planet Index (Lpi, fig. 2) e l’Indice di sviluppo umano (Hdi, fig. 3).
Rappresentando graficamente i due indici si ottiene un grafico come in Figura 4 dove la linea blu è una semplificazione del Lpi, detta «protezione ambientale» (Ep), che varia da 0 a 100 e la linea rossa è una semplificazione del Hdi, chiamata «sviluppo umano» (Hd) che varia da 0 a 100. L’asse x può essere considerato sia come una rappresentazione statica dei principali Paesi del mondo riuniti in 21 gruppi di Hdi o un’evoluzione dinamica dello sviluppo umano/tutela dell’ambiente tra il I secolo d.C. e il XXI secolo (Onu, 2008).

 

 

Figure 5

La Figura 5 mostra le stesse curve in modo analitico. Considerando la situazione globale moderna possiamo suddividere la popolazione in cinque categorie rappresentate dai rettangoli colorati nel grafico. Quello blu con numero 1 include ogni popolazione che vive con un vero e proprio stile di vita «indigeno». Oggi, queste categorie non rappresentano più di 300 milioni di persone, sparse in piccoli gruppi in tutto il mondo. Il rettangolo 2, viola, rappresenta le «popolazioni povere», alternativamente definite «Terzo mondo», che raccoglie circa 1 miliardo di persone che vivono sotto il livello di sviluppo (< 0,3 HDI ), la maggior parte delle quali in Africa. Il rettangolo 3, in rosa, comprende i Paesi in via di sviluppo e annovera più di 3,5 miliardi di persone, in particolare riuniti in Sud America, nel Sud-Est asiatico e in India. Il rettangolo 4, giallo, comprende i Paesi sviluppati, con una popolazione di 2 miliardi di persone, le quali vivono soprattutto in Nord America, Europa, Russia e Giappone. L’ultimo rettangolo, numero 5 in verde, rappresenta un piccolo numero di «Paesi sostenibili», con una popolazione di circa 500 milioni di persone, rappresentati da alcuni Stati europei (Germania, Norvegia, Svezia, ecc.), da pochi negli Stati Uniti e da uno in Asia (Buthan). Questi ultimi sono i Paesi che hanno raggiunto il livello di vita sostenibile, con un elevato standard di benessere, conservazione della natura e di tutela dell’ambiente.
Questa descrizione ci dà una visione globale della situazione attuale nelle società del mondo.
Inoltre, è possibile osservare il grafico in Fig. 2 in modo dinamico, attraverso un periodo discreto di storia umana. Considerando l’ascissa come la scala temporale dal I secolo al XXI secolo d.C., abbiamo un esempio del modello globale di sviluppo delle popolazioni nel corso della storia. Da una situazione indigena (rettangolo 1) in cui una piccola parte di umanità è attualmente rimasta, molte civiltà si sono evolute verso la fase di pre-sviluppo (rettangolo 2), anche se la maggior parte delle società africane rimangono ancora a questo livello. Poi, attraverso una fase di sviluppo (rettangolo 3), dove troviamo la gran parte delle civiltà moderne di oggi, alcune società (euro-asiatica, giapponese e nord-americana in particolare) hanno raggiunto lo standard di «Paesi sviluppati» (rettangolo 4) attorno alla XIX-XX secolo. La maggior parte di questi ultimi mantiene tuttora questo standard e non si muove in avanti. Pochissimi Paesi hanno raggiunto nel XXI secolo il livello «sostenibile» della vita (rettangolo 5), nel senso di uno stile di vita che è considerato «sviluppato» secondo le definizioni Hdi ma, allo stesso tempo, consente un elevato livello di Lpi.

Analizzando la situazione descritta nella figura 2, è possibile rilevare tre livelli grossolani di protezione ambientale. Il Livello 1 (L1) si realizza quando la popolazione vive in «maniera indigena» che è completamente compatibile con l’ambiente. Questo è il caso dei Masai del Serengeti, dei Pigmei dell’Africa centrale e di qualche civiltà in Amazzonia e in Indonesia. Quando inizia lo sviluppo, le due curve convergono verso un punto in cui sia il livello di HD sia quello di EP è basso, come può essere visto in Africa e in alcune regioni indo-pacifiche.
Quando le società si evolvono verso lo sviluppo economico e la crescita della popolazione, il livello di sfruttamento delle risorse naturali e i danni causati agli ecosistemi diventano massimi e l’indice di protezione ambientale (linea blu), tocca il punto più basso (L3). Questa è la situazione in cui si trovano, ad esempio India, Cina, Indonesia, Brasile e alcuni Paesi africani. Non appena le società passano alla fase in via di sviluppo sino ad arrivare a una condizione sviluppata (> 0,7 Hdi) l’ambiente comincia a recuperare.
Europa e Nord America stanno vivendo questa situazione in questi ultimi anni. Il punto di passaggio da una «società sviluppata» (rettangolo 4) a una «società sostenibile» (rettangolo 5) è rappresentato da B, in cui le due curve s’intersecano di nuovo, ma questa volta al più alto livello di HD e EP. Da questo punto il livello di EP (L2) è molto vicino, anche se inferiore, a quello delle popolazioni «indigene». Questo è lo standard raggiunto ancora da molti pochi Paesi nel mondo, i quali pongono la conservazione e i programmi di tutela ambientali in cima alle priorità politiche e permettono alla natura di riconquistare la selvaticità originaria.

Super sfruttamento del Pianeta

Infine, nel grafico di figura 5 l’area gialla α tra le due curve rappresenta la perdita di risorse naturali e servizi ecosistemici durante il processo di sviluppo. Attualmente 2 miliardi di persone sono nella fase di sviluppo rappresentata dalla zona gialla ma, quando i restanti 5-7 miliardi di persone si troveranno a perseguire il modello di sviluppo globale come già realizzato da Paesi europei e americani (e proposto come panacea dall’economia canonica e da riviste come l’«Economist») e arriveranno nella zona gialla α, l’umanità consumerà risorse di oltre 5 pianeti come la Terra. Ovviamente questo risulta impossibile e il rischio è quello di ridurre i servizi ecosistemici a un livello che non consentirebbe il mantenimento di feedback retroattivi, che possono tramutarsi in feedback positivi e resettare l’attuale biodiversità e l’evoluzione degli ecosistemi ai livelli del Precambriano. Modelli simili prevedevano differenti livelli di crescita economica e sociale delle popolazioni, ma tutti prospettano un elevato impatto sull’ambiente fino al declino del numero di esseri umani.
Le società sembrano seguire modelli di sviluppo comuni e attualmente vediamo una situazione in cui alcune civiltà sono in una fase sostenibile e la maggior parte si assestano nella zona gialla del sovrasfruttamento delle risorse naturali e di servizi ecosistemici. Questa situazione è insostenibile e non si concluderà a breve. Poiché si prevede che altri 5-7 miliardi di persone procederanno verso lo sviluppo nei prossimi anni seguendo i modelli globali descritti sopra, gli ecosistemi e la biodiversità saranno soggetti a un alto livello di stress, senza alcuna garanzia di resilienza.
Tenendo presente le tendenze indicate precedentemente, l’unica soluzione per la sopravvivenza umana e ambientale in uno stato di salute sta nella possibilità che i Paesi attualmente ricadenti nel terzo e quarto rettangolo del grafico in Fig. 5 si spostino rapidamente alla 5^ fase, oltre il punto b, mettendo in atto una serie di meccanismi indirizzati verso un approvvigionamento energetico efficiente e rinnovabile, un ciclo chiuso dei rifiuti, biodegradabilità dei prodotti chimici, neutralità delle emissioni di carbonio dai trasporti, una dieta biologica, una drastica riduzione dei consumi delle risorse naturali (ciò che l’«Economist» volontariamente dimentica di menzionare), una serie di leggi per la protezione dell’ambiente e lo sviluppo di misure di conservazione della fauna selvatica. Al tempo stesso, come condizione necessaria e sufficiente, è fondamentale che i Paesi che si stanno spostando nel 5° rettangolo favoriscano lo sviluppo dei Paesi che saranno, o già sono, nel 2°, 3° e 4° stadio dando loro tecnologie sostenibili (know-how ecologico e gratuito), fornendo strumenti giuridici e l’insegnamento di principi d’igiene, educazione ambientale e sessuale e consentendo loro di avere lo stesso diritto di svilupparsi, come è stato fatto da Paesi nella 5^ fase, ma evitando di passare attraverso l’area gialla α che non reggerebbe il consumo di risorse naturali e di servizi eco sistemici di 7-9 miliardi di persone (un equivalente di 5 pianeti nei prossimi quattro decenni).
Inoltre, il grafico mostra che il miglior stile di vita per la tutela dell’ambiente nel mondo è quello indigeno essendo L1 superiore all’L3 delle «economie sostenibili», anche se queste rappresentano la soluzione migliore in un mondo «civilizzato». Questo divario è dovuto all’interconnessione profonda tra popoli indigeni e la natura (Diamond, 1997 e 2006; Cazzolla Gatti, 2013) e al loro alto livello di conoscenza dell’ambiente (rapporto culturale con la natura, medicina tradizionale, risorse alimentari e utilizzi di fibre naturale, mitologia, ecc.) che manca persino nelle società sostenibili della 5^ fase. Ciò significa che se il mondo civilizzato riducesse questo gap, distruggendo (e civilizzando) le ultime culture indigene e mantenendo come unico possibile livello di protezione ambientale quello in L3, anche se esso rappresenta la soluzione più sostenibile per le civiltà sviluppate, l’intera umanità perderà una parte fondamentale di background culturale che solo i popoli indigeni preservano.
Dopo una serie di inconcludenti esempi di territori in cui la crescita ha permesso la conservazione della biodiversità, l’«Economist» sembra accorgersi della debolezza della sua tesi quando scrive: «Quando i Paesi diventano più ricchi, l’agricoltura tende a diventare più intensiva. La produzione aumenta, i terreni marginali vengono lasciati incolti, diminuisce la forza lavoro agricola e le persone si muovono verso le città. I terreni abbandonati vengono usati per la ricreazione e la conversione a bosco. Questo è il motivo principale per cui nel 2005-2010, secondo la Fao, la copertura forestale è cresciuta in America ed è stabile o in aumento in tutti i Paesi europei tranne Estonia e Albania».
L’assurdità di questa affermazione, oltre all’osservazione che riguarda il dato Fao apparentemente positivo e, invece, del tutto inattendibile poiché considera le monocolture arboree e le piantagioni al pari di foreste (motivo per cui il mondo «ricco» sta recuperando le sue foreste), la si trova nello stesso report qualche riga più in là: «Molti verdi sostengono che l’intensificazione dell’agricoltura danneggia la biodiversità. È vero che i pesticidi e i fertilizzanti tendono a ridurre il numero di specie in cui sono utilizzati, ma l’agricoltura intensiva impiega meno terra rispetto alle colture estensive per produrre la stessa quantità di cibo».
Ma l’«Economist» continua a proporre mezze verità, poiché se è vero che il quantitativo di terra utilizzata dalle colture intensive è inferiore, l’alimentazione dei «poveri» è certamente più sostenibile di quella dei ricchi europei e americani che necessitano del 90% in più delle risorse per allevare i loro manzi da hamburger e inquinano aree enormi intorno ai campi (ben superiori alla superficie utilizzata dall’agricoltura biologica o rurale da «poveri»), con sostanze mutagene chimiche, i terreni forzati a produrre per decenni, senza sosta, la stessa monocoltura.
L’ultima baggianata l’«Economist» la riporta a chiusura della dissertazione: «I Paesi più ricchi tendono a essere meglio informati circa il valore degli ecosistemi e ad avere una visione più a lungo termine. È per questo che la Cina, dopo aver distrutto così tanto della sua foresta, ora sta pagando i suoi agricoltori per piantare alberi».
In questo caso, però non devo neanche sforzarmi di controbattere, perché gli autori di questa illuminante analisi si rispondono da soli: «Il valore ecologico di una parte della foresta risultante genera molti dubbi, infatti molta di essa è una monocoltura di varietà importate che non sempre si adattano al clima locale». Cosa abbia a che fare una monocoltura di pini in Cina con la tutela della biodiversità non si riesce proprio a comprendere. Come la crescita proposta dagli economisti e i giornalisti che scrivono per l’«Economist» possa conciliarsi e addirittura favorire la protezione della biodiversità appare ancora più misterioso.
Ho inviato la ricerca scientifica descritta in questo articolo dal titolo «Global Patterns of Human Development and Environmental Protection» a decine di riviste economiche e la risposta è stata sempre un rifiuto alla pubblicazione sino a quando ho deciso di pubblicarlo comunque sulla rivista «Economology Journal» di cui sono Editor-in-Chief. Un articolo apparentemente simile, ma pericoloso nel messaggio e fuorviante e completamente erroneo nell’analisi, scritto a tre anni di distanza sullo stesso tema viene, invece, pubblicato dalla più letta e prestigiosa rivista economica mondiale.
Un contadino che semina, zappa, coltiva e cucina la propria patata non produce alcun flusso di denaro, non cresce e non si sviluppa. Ma ha la pancia piena la sera e un terreno sano e circondato da biodiversità. Questo individuo che non genera reddito per gli Economist non conta. Non esiste.
Un articolo che analizza, ricostruisce, illustra, mostra, dimostra come coltivando e mangiando in quel modo quella patata si preservi una biodiversità molto maggiore che se si fossero rasi al suolo ettari di foresta per piantare una coltura intensiva di patate da esportare, ovviamente per gli Economist non conta. Non esiste.
Tutte queste «non esistenze», insieme, però hanno la forza di smuovere la coscienza dell’umanità, smascherare gli impostori e dare una speranza alle infinite forme bellissime che garantiscono l’esistenza della Terra.

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