La disfatta della cultura ambientale

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Ma i problemi ci sono e incombono come una spada di Damocle sulla vivibilità quotidiana e sulla sua deprimente qualità. La natura, la sua biodiversità, l’inquinamento soprattutto atmosferico; la forte esposizione ai rischi naturali, la vulnerabilità del nostro fragile territorio; lo sperpero di terre agricole; la manomissione del paesaggio. Sono i temi di cui si fa portavoce solo qualche sparuta voce predicante nel deserto. Anche a sinistra, area politica nella quale si credeva e si ritiene che maggiore sia e debba essere l’impegno su questi temi

Quando si entra in un tunnel la speranza è di uscirne. E si cerca la luce per vedere quando se ne uscirà.
La metafora del tunnel è generalmente utilizzata nei periodi di crisi economica. È il caso del tunnel nel quale nel 2008 sono entrate le economie planetarie molte delle quali non riescono ancora a vederla la luce. Ma sappiamo anche che quando l’uscita avverrà non sarà più tutto come prima (ammesso che il prima fosse da rimpiangere).
Ricordo il tunnel nel quale le economie occidentali entrarono nel 1973-’74 dopo la crisi internazionale delle fonti di energia seguita alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973. L’impreparazione delle economie occidentali, prima fra tutte l’Italia, fu evidente. Ma mentre alcune avevano riserve energetiche accantonate dall’illusione del petrolio abbondante e a basso prezzo, altre, prima fra tutte l’Italia, non ne avevano alcuna. Perciò l’uscita dal tunnel fu per queste più lenta e quando avvenne una cosa fu chiara: non ce n’era più per tutti. Nell’industria innanzitutto la quale riuscì ad approfittare delle modalità della crisi e della sua uscita per rafforzarsi nei rapporti con il mondo del lavoro riuscendo ad incrementare comunque la produzione, ma con meno lavoratori.
È quanto avverrà con la prossima uscita per misurare la quale si fa ricorso all’incremento del Pil a qualche aumento percentuale di produzione ed esportazione, ma non si dice una parola del possibile incremento dell’occupazione. Né mi pare di aver letto granché sul rapporto in atto tra incremento della produzione e decremento dell’occupazione.

Si chiama crescita senza sviluppo. Oggi non v’è chi non sia in grado di dire perché l’Italia è stata in recessione e perché avendo chiuso migliaia di aziende vi siano centinaia di migliaia di disoccupati in più. Ma quando si dice che tra fine 2013 e inizio del 2014 vi sarà una sia pur piccola ripresa e che il Pil aumenterà di uno 0,5-0,7% chi può dire come questo accadrà? quali settori consentiranno di incrementare lavoro ed occupazione? chi cerca lavoro e lo trova non sta mica a discutere su quello che gli chiedono di fare, ma se le scelte di crescita si verificassero in settori di breve durata staremmo presto punto e da capo. Se alla base della crescita vi fosse anche un obiettivo di miglioramento concreto della qualità di vita, gli indirizzi potrebbero essere verso settori e iniziative meno effimeri? Dare sicurezza ad un territorio che frana o è sommerso dalle alluvioni ad ogni pioggia più intensa, soprattutto, ma no solo, ad ogni cambio di stagione; mettere in definitiva sicurezza il patrimonio immobiliare nelle aree sismiche; rendere respirabile l’aria dovunque, ma soprattutto in aree come Taranto dove non si dovrebbe perdere un posto di lavoro, ma nemmeno una vita umana eccetera eccetera, non sono investimenti capaci di far girare economia e crescita chiamandole anche sviluppo?
Sarebbero così considerati se l’ambiente e il rapporto qualità dell’ambiente/qualità della vita fossero guardati con altri occhi. E, infatti, un’altra differenza tra i due momenti che sto mettendo a confronto sta nel modo in cui all’inizio degli anni Settanta e oggi viene affrontato il problema ambiente. Allora la sensibilità nei confronti del problema ambiente era crescente avendo anche radici abbastanza recentemente immesse nel terreno; oggi mi pare evidentemente in calo quella sensibilità: nell’opinione pubblica, nei partiti, nel governo. E mi chiedo se esiste ancora un problema ambiente riferendomi, evidentemente, non ai problemi della qualità ambientale, ma essenzialmente alla consapevolezza del problema e alla percezione dello stesso. E non solo da parte della popolazione, ma dei partiti politici, di governo e non. Me lo chiedo e lo chiedo perché l’impressione è che rispetto agli anni in cui la sensibilità ambientale nasceva e cresceva l’interesse sia andato progressivamente scemando. Ed è grave che sia così.

Qualche mese fa, il cinque giugno 2013 si è celebrata l’annuale giornata mondiale dell’ambiente. Un altro anno è passato e sono 41 dal 1972, quando appunto dal 5 al 16 giugno si tenne a Stoccolma la prima conferenza delle Nazioni Unite su «L’Ambiente Umano» che si proponeva di considerare il bisogno di prospettive e principi comuni al fine di ispirare e guidare i popoli del mondo verso una conservazione e miglioramento dell’ambiente umano. E di farlo ritenendo «la protezione ed il miglioramento dell’ambiente una questione di capitale importanza», ma anche avendo come «obiettivo imperativo» dell’umanità «difendere e migliorare l’ambiente per le generazioni presenti e future». 40 anni sono trascorsi con pochissimi risultati concreti, ma ricchi di altre celebrazioni, conferenze delle Nazioni Unite, protocolli vari. Eventi e circostanze ai quali e alle quali l’Italia non ha mai mancato di partecipare. Ma, potrei dire, vi ha partecipato soprattutto perché come diceva De Coubertin per le Olimpiadi, l’importante è partecipare. Né solo l’Italia, d’altra parte.
Una indifferenza per il problema manifestata anche nella campagna elettorale delle ultime elezioni politiche nella quale ambiente e territorio sono stati, come abbastanza di consueto, il convitato di pietra. Ma il problema c’è e incombe come una spada di Damocle sulla vivibilità quotidiana e sulla sua deprimente qualità. La natura, la sua biodiversità, l’inquinamento soprattutto atmosferico; la forte esposizione ai rischi naturali, la vulnerabilità del nostro fragile territorio; lo sperpero di terre agricole; la manomissione del paesaggio. Sono i temi di cui si fa portavoce solo qualche sparuta voce predicante nel deserto. Anche a sinistra, area politica nella quale si credeva e si ritiene che maggiore sia e debba essere l’impegno su questi temi.
Né mi sento di dire che vadano nel senso che auspicavo le posizioni dei «NO…» (Noinc, Notav, Notap eccetera) comprensibili, ma non sempre condivisibili nella forma oltre che nella sostanza.