Attorno ai criteri della vita associata

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La prassi politica ha come obiettivo generale l’amministrazione della cosa pubblica nella molteplicità delle azioni di governo attraverso i servizi centrali e periferici preposti in favore del bene privato e pubblico partecipato: consolidare le garanzie, proporzionare l’equilibrio distributivo, risanare i deficit, promuovere gli utili tra rischio e ricchezza, salvaguardare la qualità e la giustizia, colmare i bisogni primari, difendere i diritti dei meno abbienti, rimuovere gli ostacoli per la realizzazione dell’integralità delle persone e delle comunità; tutto questo soprattutto in tempo di congiunture sfavorevoli, contro le speculazioni, affinché il profitto non prevarichi e sia fatta salva la qualità della vita, anello debole della catena nella società democratica.

In tale scenario si giuoca il confronto tra destra e sinistra storiche. Il loro obiettivo è la soddisfazione dell’equilibrio sociale. I due poli risultano strutturalmente diversi a seconda che danno precedenza al privilegio o al diritto di equità; è la loro differenza storica ed ideologica. Ma spesso, nella prassi, le forme competono con modelli «contaminati» pur di raggiungere una realpolitik e risolvere problemi di maggioranze esigue, deboli e dalla tenuta incerta.
C’è una seconda fascia di problemi a cui sia la destra sia la sinistra devono offrire la loro soluzione: non in ossequio all’ideologia ispiratrice, ma ai bisogni della vita associata conclamati ed urgenti, con risposte trasparenti verso la richiesta di diritto dei governati. Il modello programmatico di società risponde ad assunti indicati dalla teoria ideologica, ma di fatto spesso questi restano confinati nel pretesto da cui invece si origina la possibile proporzione per raggiungere i benefici promessi in campagna elettorale.
L’ortoprassi, a questo punto, si ricollega non a pregiudizi teorici (definibili come ideologia) ma alle cause delle congiunture, ora di sistema, ora indotte, provocate da circostanze critiche che solitamente derivano da profitti non sempre dichiarati che non resistono ad analisi scientifiche e rigorose sui difetti di trasmissione dei beni e dei consumi.
La risposta non può esaurirsi in interventi tampone ma nell’iniziativa educativa che lo stato deve intraprendere perché attraverso il suo contratto formativo sia restituita legalità contro la prevaricazione.
Per esempio, il contrasto alle mafie e al crimine organizzato non è solo respiro profondo delle singole istituzioni, ma è obbligo dello stato essere in grado di estendere il contrasto su tutto il territorio e trovare anche alleanze estere per aggredire la sopraffazione, ridurre alla nullità il crimine, fondare l’azione riabilitativa delle democrazia ferita.

La sua azione pedagogica parte dalla prevenzione e si fa strada sino ai comportamenti della vita associata perché laddove si nutre il difetto là sia commisurata la libertà affinché la vita dei singoli e della comunità prosperi secondo scopo nel progresso e contro la noia del vivere.
Le riabilitazioni sembrano, oggi, più frutto dell’iniziativa di formatori illuminati che di politiche vere e proprie valide per tutto il territorio nazionale.
Le istituzioni di ogni territorio, dal livello comunale a quello regionale, sarebbero strumenti di osservazione ufficiale e specifica dei bisogni dei singoli cittadini e delle comunità locali. Le istituzioni stesse sono i detentori del servizio sociale con i loro compiti giurisdizionali a salvaguardia dei diritti, delle libertà e dei rapporti in genere; le istituzioni religiose locali con la loro penetrazione personalizzata cautelano l’eticità dei comportamenti; le libere associazioni nutrono l’impiego del tempo libero e alimentano gli interessi culturali e il benessere in genere; finalmente le scuole, sia pubbliche sia private, sono luoghi della promozione ed evoluzione individuale, culturale e sociale di tutti i cittadini. Se tutte queste istituzioni fossero a rete il supporto raggiungerebbe ogni cittadino come singolo e come comunità e verrebbe più organico intercettare i bisogni, arginare i deficit e le prevaricazioni attraverso la politica della prevenzione. La prevenzione, infatti, nel suo primigenio significato etimologico (lat. præventio), significa proprio riconoscimento del diritto. Il termine latino giuridicamente si riferiva al caso in cui nel conflitto di più diritti, proprio per principio di prevenzione, si dava la preferenza a quello sorto per primo. Quindi prevenire, come dovere dell’istituzione, significa riconoscere i diritti anche di coloro che delinquono: sono proprio loro, a cui si riconosce il diritto, che dovranno essere soggetti attenzionati perché la debolezza non sia radice della sopraffazione. Ma, a fronte di reati diffusi, commessi da soggetti sempre più giovani, non si registra l’incremento e neanche una minima fondazione della rete di interventi specialistici specifici, curati ed incrementati dagli Enti Locali.

Questi sono i tre interrogativi propedeutici ad una riforma degli organismi preposti all’educazione, al suo rinnovamento e alla prevenzione:
1. chi aggiorna e cura la formazione dei responsabili della rieducazione?
2. chi studia ed analizza i fenomeni del degrado e dei deficit per proporre piani di intervento nei settori?
3. chi coordina gli operatori della salute per l’attuazione del piano di prevenzione e riabilitazione?
Spazio e progetto formativi sono indispensabili perché i cittadini di un territorio siano confermati in una situazione ecologica globale.
La nostra scuola superiore di secondo grado licenzia studenti «maturi»: si presuppone che siano cittadini consci della loro responsabilità civile. Ma essi conoscono il funzionamento dello stato, l’esercizio della democrazia e della partecipazione alle scelte politiche, ne conoscono fisionomia e responsabilità? Basta assistere ad un esame di stato per misurare il grave deficit formativo dei giovani maturandi in conoscenze sulla contemporaneità socio-politica!

Lo studio della storia presenta tutte le situazioni in cui i governi hanno represso le voci del contrasto, hanno censurato il dissenso critico: il potere nutre la paura che il suo indebolimento derivi dalla funzione critica della cultura. Anche in Italia si è corso questo pericolo, non molto tempo fa, e si spinse addirittura con delle circolari a sollecitare l’indicazione degli insegnanti che avessero esplicitato a scuola delle critiche verso la gestione della cosa pubblica, una sorta di reato di vilipendio! Tale forma di vera censura non ebbe molto seguito, del tutto irrazionale e lesiva della libertà democratica e della libera docenza. Ma se non è la scuola chi deve informare e formare perché ogni cittadino sia consapevole su quello che si verifica nel paese e sui gangli di trasmissione delle contraddizioni sociali e delle debolezze confluenti nella disuguaglianza e verso l’asfissia della democrazia?

La proposta dello studio della storia a ritroso, nelle ultime classi soprattutto, ci ha dato l’opportunità di rileggere l’attualità in forma critica, disponeva alla risalita lungo l’itinerario dall’effetto a causa, risultando evidente la dinamica degli interessi e dei poteri quali coefficienti determinanti del condizionamento socio-politico del Paese e del mondo intero; mentre per tutta la durata dell’anno scolastico si esercitava la lettura critica degli avvenimenti nazionali ed internazionali, necessitanti una disamina ragionata e confrontata.1

 

1 Cfr. Francesco Sofia, Utopia e didattica della Storia, in «Nuova Secondaria», 10 (1996), pp. 58s