Il settore idrico attende ancora soluzioni

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L’Unione europea ha più volte ammonito l’Italia avviando ben quattro procedure d’infrazione per il mancato adeguamento alla direttiva europea sui reflui, due delle quali già sfociate in condanna per le quali si stanno pagando multe salate. L’Autorità ha ritenuto opportuno segnalare al Governo e al Parlamento l’utilità di interventi normativi di modifica delle vigenti previsioni legislative per accelerare l’affidamento del servizio idrico integrato

Nel Mezzogiorno «persistono situazioni in cui si perpetuano inefficienze» nella gestione dell’acqua e, se non si corre ai ripari rapidamente, anche il Pnrr rischia di fare flop proprio nel tentativo di porre rimedio al «water service divide» fra centro-nord e sud.
Il dibattito interno alla maggioranza di governo sembra, quindi, abbandonare lentamente la dimensione ideologica per affrontare temi più concreti, che davvero assillano il settore idrico.
Primo fra tutti, appunto, il «water service divide» delle regioni meridionali rispetto alla buona qualità dei servizi del centro e nord del Paese. Un problema enorme e irrisolto, che riguarda un terzo degli abitanti che hanno poca acqua, poca depurazione, pochi investimenti, tariffe basse ed una morosità elevatissima. Insieme a frammentazione nelle gestioni e assenza di realtà industriali vere. Enti di ambito mai istituiti o mal funzionanti, schemi tariffari ancora da approvare dopo anni. Un fallimento enorme, considerato anche la destinazione in questi anni, sempre nel Mezzogiorno, di buona parte dei fondi strutturali europei.
Bisogna correre ai ripari per dare una base solida allo svolgimento delle azioni previste dal Recovery Plan. Bisogna modificare il quadro legislativo nazionale prevedendo «un termine perentorio entro cui siano perfezionati i processi di affidamento del servizio idrico integrato», ove questi sono possibili. E se questo non accadrà, bisognerà andare a una gestione del servizio idrico integrato affidato per quattro anni, poi riconfermabili per altri quattro, a una società a controllo pubblico, «che sulla base della disciplina dei contratti pubblici, possa far ricorso a soggetti dotati di adeguate capacità industriali e finanziarie per la fornitura di servizi». Un altro soggetto, anch’esso a controllo pubblico, dovrebbe svolgere azione di «supporto tecnico in termini organizzativi e di know how specifico (anche per i profili normativi e regolatori)» per i presidenti delle regioni richiamati.
Una soluzione tranchant è, quindi, quella che auspica l’Autorità dopo anni di richiami che di fatto non hanno superato una situazione paradossale dell’Italia divisa in due. Con dieci regioni e 16,5 milioni di residenti assoggettati alla regolazione tariffaria e altre nove regioni che non hanno gestioni interessate da approvazioni tariffarie. Quattro regioni meridionali (Molise, Campania, Calabria e Sicilia) sono, poi, la punta di questo iceberg di resistenza alla riforma lanciata fin dal 1994 dalla legge Galli.
Bisogna intervenire anche perché le perdite di acquedotto o, per dire più correttamente, il numero di «rotture» per chilometri di rete nel Sud continua a essere di 33,6 contro 22 della media italiana (18,1 nel nord ovest, 13,8 nel nord est e 25,4 nel centro). Ma, più in generale, l’Autorità denuncia carenze e inefficienze «nella fruizione dei servizi, nella realizzazione degli investimenti, nell’attività legislativa regionale, nei meccanismi decisori degli enti di governo dell’ambito e nelle capacità gestioni e di carattere industriale degli operatori».
Solo con un’azione di riforma complessiva volta al rafforzamento della governance della gestione del servizio idrico integrato. Non va dimenticato di ricordare che già il Pnrr, missione 2, componente 4, preveda la necessità di un intervento centrale finalizzato a «rafforzare il processo di industrializzazione del settore (favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati, con l’obiettivo di realizzare economie di scala e garantire una gestione efficiente degli investimenti e delle operazioni)». Allo stesso tempo sempre il Pnrr ha evidenziato che «precedenti esperienze dimostrano che nel Mezzogiorno l’evoluzione autoctona del sistema non è percorribile senza un intervento centrale finalizzato alla sua risoluzione».

La governance del settore idrico

Il settore idrico è per sua natura legato alla sostenibilità, in quanto gestisce una risorsa naturale, bene essenziale e fondamentale per la vita. Opera in un contesto ambientale di per sé «circolare» (il «ciclo dell’acqua», per l’appunto) e fa della socialità il suo motivo d’esistere.
Le preoccupazioni delle giovani generazioni sono perlopiù concentrate su temi di natura etica e morale, e configurano un consumatore più consapevole che pone sotto una lente di ingrandimento non solo il prodotto in sé, ma l’intero processo produttivo. I consumatori domandano un impegno chiaro e credibile nei confronti dei temi ambientali e sociali per generare maggiore sostenibilità.
La governance del settore idrico vede la presenza di enti ed istituzioni, sia locali sia nazionali, immersi in una complessa rete di rapporti. Inoltre, la regolazione stessa è sempre più orientata a incorporare obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, a cui si affiancano obiettivi di copertura dei costi efficienti. Gli operatori a loro volta sono sempre più consapevoli della necessità di rinsaldare il rapporto di fiducia e di rinforzare gli strumenti di partecipazione dei cittadini.
Sostenibilità ambientale e benessere sociale era, un tempo, una scelta personale che ricadeva nel campo dell’etica, ora è diventata un imperativo che entra di diritto in quella della strategia delle aziende. È infatti impensabile (specialmente in un’ottica di medio lungo periodo) immaginare uno sviluppo economico separato da questioni legate al clima e alla transizione ecologica.
Questa consapevolezza sta accorciando la distanza tra i due orientamenti tipici nell’intendere un’impresa: quello che ha come obiettivo il raggiungimento del profitto e quello che persegue l’esclusivo benessere sociale, tipico del settore no profit. Questa dicotomia ha spesso portato a ritenere che i due paradigmi fossero in contrapposizione tra loro, con le logiche del primo in contrasto con quelle dell’ambiente, del benessere collettivo o ancora con quelle delle future generazioni.
Un dibattito antico, ravvivato dall’entrata in vigore della Legge di stabilità per l’anno 2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico un nuovo strumento giuridico: la Società Benefit. Con tale previsione le società di capitali hanno la possibilità di poter perseguire in modo congiunto e integrato finalità di lucro e di beneficio sociale, intenzionalmente e consapevolmente specificati nello statuto.
Tale strumento giuridico ha affermato che il For Benefit e la sostenibilità non siano più un’alternativa ma un nuovo modo di fare impresa. Con questa nuova qualifica giuridica un’impresa, oltre ai propri obiettivi di profitto, si impegna a perseguire anche scopi di beneficio comune atti ad avere un impatto positivo a lungo termine sulla società civile e sull’ambiente.
Come si evince dal 376° comma dell’art. 1, le finalità perseguite dal legislatore sono quelle di promuovere la costituzione, nonché la diffusione, di società che perseguono un duplice fine; da una parte, la realizzazione di attività lucrative dirette a distribuire gli utili ai soci e, dall’altra, perseguire iniziative benefiche a favore di una vasta pluralità di portatori di interesse.
La Società Benefit si caratterizza, dunque, per la duplice finalità e l’individuazione del beneficio comune nelle clausole statutarie. L’art. 1, comma 376, L. n. 208/2015 statuisce che tale società nell’esercizio di un’attività economica, «oltre» allo scopo lucrativo o mutualistico, persegue «anche» una o più finalità di beneficio comune che intende perseguire da indicare nel proprio oggetto sociale, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di tutti gli stakeholder. La normativa Benefit definisce i portatori di interesse in: persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse, che sono comunque coinvolti dall’attività di impresa.
II beneficio comune generato deve essere reale e tangibile e rispondere alle esigenze concrete della realtà nella quale l’azienda si colloca così come agli obiettivi dell’azienda stessa. Per tale motivo, la definizione del beneficio comune non può esulare dagli obiettivi dell’azienda e dal ruolo che questa ricopre all’interno della realtà che la circonda, ma deve essere fortemente connesso a tali elementi.
Per queste società è forte l’interdipendenza tra l’ambiente, il territorio e la collettività servita; ad oggi, tuttavia, nessuna azienda che gestisce il servizio idrico italiano ha scelto di trasformarsi in Società Benefit; nonostante tale forma giuridica sia naturalmente votata alla sostenibilità ambientale e sociale del servizio, non è ancora maturata la consapevolezza di adottare un modello esplicito di riferimento.
La scelta di un’azienda di trasformarsi in una Società Benefit arriva al termine di un percorso di cambiamento della cultura aziendale sino a integrare i temi della sostenibilità nella strategia aziendale: con l’adesione al modello Benefit le imprese inviano un segnale chiaro, di rinnovamento della missione aziendale a tutti i portatori di interesse. In Italia vi sono alcuni esempi di società che stanno maturando l’idea di questa trasformazione si stanno, comunque, affermando.

La depurazione

Le risorse del Pnrr sono anche fondamentali per combattere la mala depurazione che riguarda 30 milioni di abitanti equivalenti. Vi è, pertanto, l’urgenza di destinare più investimenti per efficientare la depurazione e completare la rete fognaria. L’Unione europea ha, peraltro, più volte ammonito l’Italia avviando ben quattro procedure d’infrazione per il mancato adeguamento alla direttiva europea sui reflui, due delle quali già sfociate in condanna per le quali si stanno pagando multe salate.
Nell’affrontare il problema della cattiva depurazione, è importante prevedere anche più controlli alle foci e lungo i corsi d’acqua e promuovere più informazione tra i bagnanti.
Nei laghi e mari italiani scorrono cattive acque. Le criticità maggiori sono state riscontrate soprattutto a ridosso delle foci di fiumi (inquinate nel 58% dei casi), rii e canali che, riversandosi in mare o nel lago, portano con sé cariche batteriche anche molto elevate: un problema che dipende soprattutto dagli scarichi fognari che non vengono depurati dai comuni dell’entroterra.
Ancora oggi il 40% dei reflui fognari dei centri urbani della Penisola non è adeguatamente depurato: ed è un problema che non riguarda solo il Sud Italia ma anche il Nord della Penisola.
Le risorse del Pnrr sono fondamentali, pertanto, per combattere la mala depurazione che riguarda 30 milioni di abitanti equivalenti. Per questo va sottolineata l’urgenza di destinare più investimenti per efficientare la depurazione e completare la rete fognaria.
L’Unione europea ha, infatti, più volte ammonito l’Italia avviando ben quattro procedure d’infrazione per il mancato adeguamento alla direttiva europea sui reflui, due delle quali già sfociate in condanna che sono costate al nostro paese oltre 77 milioni di euro e continueremo a pagare fino a che l’emergenza non verrà superata.
Nell’affrontare il problema della cattiva depurazione, è importante prevedere anche più controlli alle foci e lungo i corsi d’acqua e promuovere più informazione tra i bagnanti.
In conclusione, la sostenibilità e la sicurezza dell’intero ciclo idrico è indiscutibile finalità civile, nel più ampio senso del termine. L’Autorità ha pertanto ritenuto opportuno segnalare al Governo e al Parlamento l’utilità di interventi normativi di modifica delle vigenti previsioni legislative per accelerare l’affidamento del servizio idrico integrato. In particolare si condivide la necessità di prevedere un termine perentorio entro cui concludere i processi di affidamento, un supporto tecnico agli enti territoriali che ne avessero necessità, l’affidamento ad un soggetto societario a controllo pubblico nel caso decorrano i termini previsti, a tutela della continuità di servizio ai cittadini.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia

 

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