Ancora da costruire una città come sistema ecologico di relazioni

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E bisogna fare i conti con questo sistema che senza lavorare sfrutta solo i beni naturali e il lavoro di altri e si è costituito, invece, come potere finanziario globale che opera per il successo delle Nazioni, ma solo per quelle dalle quali, di volta in volta, trae i massimi vantaggi. Un sistema che ha preteso e gli è stato concesso (perché già ne era diventato padrone) sia il governo di un mondo democratico, affascinato e paralizzato dalle giostre del «libero mercato dei consumi» (a costi sopportabili per i cittadini ma terminali per le risorse e per gli equilibri naturali), sia di favorire governi locali armati che difendessero, di fatto, il saccheggio dei propri territori, se ricchi di risorse utili al sistema

Su come fare buone scelte per lo sviluppo delle Città (come sistemi ecologici in equilibrio fisico e sociale) e per la nostra migliore qualità di vita (perché sia in sintonia con i processi vitali garantiti dagli equilibri naturali), avevo richiamato (nei miei due articoli sui precedenti numeri di questo stesso trimestrale [Quale Città, n.98, giugno 2022] e [Agricoltura da riscoprire, n.99, settembre 2022]) la necessità di fare riferimento a due punti nodali, tradizionali dei momenti delle scelte: quello delle conoscenze tecniche e quello dei metodi.

In particolare era stata evidenziata la necessità sia di definire i problemi da affrontare e di disporre di informazioni tecniche (che fossero corrette e coerenti con le finalità condivise per la risoluzione di problemi e per lo sviluppo della migliore vivibilità urbana), sia di un percorso di scelta, di un metodo, per passare dal confronto, fra i diversi e informati punti di vista individuali, alla definizione di scale condivise di priorità di problemi e di affidabilità di tecniche da applicare per le migliori soluzioni esecutive.

Dunque, si trattava di scenari oggettivabili, di buone conoscenze (su accertate proprietà tecniche delle risorse materiali) e di affidabili applicazioni tecnologiche (da spendere per convenienti soluzioni di confinati problemi concreti) a sostegno degli equilibri vitali del sistema Città.

Lo stato delle relazioni umane nel contesto urbano

Con l’intenzione di affrontare il tema delle relazioni umane nei contesti urbani, dobbiamo ora prendere atto del profondo cambiamento di scenari rispetto a quelli proposti per le scelte economiche dei sistemi urbani, in tema di energia e di strutture. Non abbiamo problemi oggettivi o oggettivabili da affrontare, ma tendenze: dalle collaborazioni alle solitudini, dagli affanni del lavoro al divertimento, dalle preoccupazioni esistenziali degli adulti alle imprudenze dei più giovani, dalle angosce per il futuro ai casi di benessere estremo e senza limiti assicurato a pochi, dalle competenze più raffinate per ogni cosa all’ignoranza vantata, dalle attenzioni umane inaspettate all’indifferenza fino al limite della violenza.

Fra bene e male, la nostra valutazione sulle relazioni umane è però sproporzionatamente influenzata dalla presenza, pur se quantitativamente trascurabile, dei comportamenti provocatori (soprattutto quelli irriducibili), dalle insofferenze per gli abusi, dall’indisciplina, dal disorientamento (quando sentiamo di dover prendere posizione su fatti inaccettabili). Tutte situazioni che, al di là della loro diffusione o confinamento solo in particolari aree del territorio urbano, incidono fortemente sulla nostra fiducia verso un buon futuro.

Un quadro nel quale non mancano ingovernabili conflitti, fra interessi diversi, su come modificare i territori, sui servizi non equamente distribuiti. Un quadro nel quale non mancano gli effetti di una protesta, spesso inascoltata, per questo stato delle cose. Spesso viene a mancare la cura dell’aspetto, anche solo formale, dell’ambiente artificiale di una Città (che sopravvive solo con le manutenzioni) e dell’igiene dei luoghi: c’è un degrado intenzionale che affligge particolari luoghi e che è evidente in un maltrattato confinamento dei rifiuti o nella sporcizia abbandonata sui marciapiedi. Ma c’è anche la devastazione della segnaletica stradale, degli arredi dei giardini, una devastazione che arriva fino a colpire presidi di sicurezza come le barriere pedonali, i semafori, i cassonetti, i cestini dei rifiuti. Sono sicuramente tutti segno di un disagio sociale, di un non riconoscersi nel contesto nel quale si vive, effetto sia della mancanza di opportunità per una vita dignitosa, sia delle derive di una emarginazione, priva di soluzioni efficaci, che porta ad opporsi radicalmente a un mondo ostile o, quantomeno, considerato immutabile, senza senso e troppo diverso da quello nel quale si immagina di potere essere se stessi.

Disagio sociale, forse, almeno in una certa parte, da attribuire all’idea, ancora corrente, di un potere, tradizionalmente esercitato e tutto da contrastare, che opprime gli esclusi per ceto o per censo o per cultura.

Questo degrado strutturale, se unito poi alla qualità fisica dell’ambiente (in particolare l’inquinamento dell’aria da parte dei gas di scarico dei veicoli a motore, degli impianti termici, delle polveri dei cantieri e di provenienza industriale), ma anche all’affollamento e all’occupazione delle poche aree libere delle Città (marciapiedi compresi), ai rumori finisce col pesare sulla qualità complessiva percepita, delle Città. Anche se, poi, si tenta il riscatto della loro immagine trasformando in grandi salotti le strade di alcune zone (in realtà solo per incentivare le attività commerciali e i consumi), ma trascurando le altre, pur se contribuiscono, fuori misura, al finanziamento delle aree più fortunate.

Il rapporto con la Città non è, però, tutta in queste poche righe. C’è sempre un fermento che opera e che quando viene allo scoperto ci fa respirare. Sono i fermenti della cultura che però non godono delle attenzioni istituzionali delle quali godono altre attività e anzi, a volte, sono addirittura rimproverate di non partecipare alla vita consumistica della Città. Le attività teatrali, i concerti, le sale cinematografiche, varie mostre itineranti non sono tutta la cultura: è solo quella parte un po’ standard, proposta a pagamento, che diventa solo intrattenimento, non certo stimolo o provocazione per scoperte o anche solo per vedere in altri modi le stesse cose. In qualche caso, persone di buona volontà, qualche associazione, a proprie spese invitano amici e pochi altri a partecipare a una presentazione, a un confronto. Qualche operatore solitario della comunicazione si impegna per dare qualità all’informazione, per muovere le acque stagnanti della cultura, quella non ispirata dal senso comune delle cose.

Le relazioni, una pratica complessa di vita

Di fronte alla profonda diversità sia delle specifiche identità, che attivano relazioni interpersonali, sia dei modi di pensare e di comportarsi, praticati in situazione dai singoli individui, diventa necessario ampliare i contenuti in gioco non solo nella loro quantità, ma soprattutto nella loro qualità, per cercare di integrare irriducibili differenze come quelle che si presentano nell’ampio panorama socio-culturale di una eterogenea collettività urbana moderna e dei suoi intorni.

Dunque nelle Città le relazioni interpersonali, come esperienza ed espressione di uno stile di buona e fertile convivenza, non possono essere affrontate con le sole opportunità di analisi di una realtà oggettivabile e di una teorica o ideologica convenienza pratica delle scelte.

Dobbiamo, anche, prendere atto che, oggi, a dare sostegno alla vita di una Città, non abbiamo solo mura, edifici, strade e impianti tecnologici per le comunicazioni o per la produzione e distribuzione di energia e di altre risorse essenziali o centri di ricerca e sviluppo delle innovazioni di prodotti e di processo (tutte applicazioni di scoperte scientifiche), ma anche modelli di vita da costruire o, purtroppo, anche solo da indossare. Possiamo sviluppare, consapevolmente, nostri personali e unici modelli che rispondono alle attese più profonde del nostro essere o possiamo adattarci a modelli già disponibili e preordinati per i ruoli previsti, a livello locale o globale, funzionali alla tenuta sia dell’attuale modello di sviluppo economico-finanziario, sia alla gestione politica e di governo di ampie aree regionali, in particolare quelle del mondo occidentale.

Queste ultime, fanno riferimento a tutto un insieme di condizioni preconfezionate, ma sempre modificabili a favore di interessi particolari, supportate da interpretazioni opportuniste (di oggettivati fenomeni naturali) e da indotti, consolidati e diffusi comportamenti e modi di pensare, umani, indirizzati allo sviluppo dell’economia dei consumi.

Una realtà che anche fino a venti anni fa non era del tutto evidente e molti, così, hanno potuto immaginare, sulla spinta del nuovo millennio, un mondo diverso da quello attuale: grandi erano le attese, oggi pienamente tradite. Si sperava in una integrazione, in una sinergia fra progresso umano e sviluppo tecnologico, che avrebbe potuto arricchire la realtà naturale con il contributo umano per lo sviluppo della qualità della vita umana in sintonia con gli equilibri naturale. Non è andata così, gli equilibri naturali e l’umanità che ne fa parte, sono stati asserviti a imperiose forme di potere assoluto che gestiscono la politica e l’economia, che concedono solo una precaria sopravvivenza a chi si sottomette ai modelli unici di un faticoso lavoro esecutivo, ma che concedono anche condizioni di vita estremamente gratificanti, per chi offre proprie devote e qualificate prestazioni, per il più efficace e non ostacolato esercizio del potere.

Qualunque scelta di vita sociale o di lavoro si faccia, non si può, oggi, negare che il rapporto con la tecnologia è sfuggito di mano alla società civile. La tecnologia non si sviluppa spinta da sogni di fertile futuro e da bisogni umani, ma è finita, quasi come se fosse un percorso naturale, fra le opportunità offerte alla formazione ed esercizio di un potere totale su ogni cosa.

Le nostre proiezioni sul possibile futuro fanno, così, più fatica, oggi, a immaginare uno spontaneo progresso umano. Una situazione che, nonostante una nostra resilienza culturale a coltivare letture, umane e non solo meccaniche, sul futuro del nostro vivere, rallenta la nostra fiducia verso un generoso metterci in gioco, nella prospettiva di ottenere un miglioramento delle qualità delle relazioni umane.

L’intreccio delle nuove crisi in atto (da quella di origine sanitaria, a quelle geopolitiche, a quelle economiche) ha poi peggiorato gli scenari possibili e soprattutto quelli attuali che coinvolgono le prospettive di vita dei più giovani. Fra alienazioni digitali e depressioni, da un verso, e volontà di affrontare i problemi esistenziali (che sentono come propri dell’uomo e non di una personale situazione contingente), da un altro verso, molti giovani sembrano essersi iscritti ad una scuola di vita fuori dai banchi delle scuole. Nei loro pur selezionati interventi sulla carta stampata o in video o semplicemente nella quotidianità delle loro relazioni sociali, partecipano raccontando esperienze, confrontando attese e realtà e meravigliandosi del bene o del male che emerge, non perché inatteso ma perché si sentono interrogati e responsabili delle valutazioni che possono formulare e degli orientamenti che, anche inconsapevolmente, possono essere assunti.

La resilienza in questo caso non è certo espressione di un interesse pratico a conservare l’esistente, ma è volontà di ripartire dai riferimenti più qualificati e propri del vivere umano, una volontà di riflettere sul senso delle cose senza pregiudizi, nei confronti dei propri simili, tantomeno di tipo ideologico.

A fronte di un sistema messo in crisi dai limiti dell’attuale modello di sviluppo (consumo annuale delle risorse quasi doppio rispetto a quello che la Terra è capace di ripristinare), abbiamo Nazioni che se non sostengono apertamente la conservazione di questo modello di economia dissipativa e terminale (arrivando perfino a negare i forti segnali di alterazione degli equilibri naturali), di fatto puntano a tirare avanti fino all’esaurimento delle risorse, rimandando disastrosamente il varo di misure anche solo per mitigarne le conseguenze. Gruppi di cittadini del mondo manifestano il loro dissenso che incontra un ampio sostegno popolare, ma poi sembra che, su questo fronte, tutto sia vanamente speso.

Il fatto è che questo sistema mantiene almeno in condizioni di vita accettabili circa il 50% della popolazione mondiale. Escludendo i 198 milioni di persone (che si prevede saranno sotto la soglia di povertà nel 2022), l’altro 50% circa della popolazione riesce almeno a sopravvivere al di sopra della soglia di povertà. È allora evidente che, senza una alternativa, opporsi all’attuale sistema economico, vorrebbe dire solo interrompere l’unica gestione disponibile di risorse vitali per l’intera umanità.

Ma il problema di un sistema destinato al collasso, con l’esaurimento delle risorse vitali, rimane e appare ancor più tragico e ingiusto se la mancanza di alternative non è un destino, ma l’effetto di un atto deliberato, di sottrazione di alternative, finalizzato a rendere immutabile la tirannia del libero mercato dei consumi. Una tirannia impalpabile ed efficiente, perché ha messo nelle nostre mani tutta la gestione produttiva della sua macchina di poteri assoluti che è anche la fonte per l’attuale sopravvivenza di tutta l’umanità.

Un progetto e una sua realizzazione a dir poco diabolica che può godere dell’eternità assicurata sia con l’indisponibilità di tempo e di energie (per l’esercizio della specifica qualità umana della riflessione sul senso delle cose), sia con i premianti modelli di intelligenza artificiale sempre vittoriosi nel fare ciò che fanno, senza saperlo e anche quando sbagliano (gli algoritmi sono, infatti, applicazioni approssimate di cose manipolate da uomini per attribuire a esse una forma o una funzione che non potranno mai essere neutrali e tantomeno giuste, perché incompiute e falsificabili per l’infinitesima e irraggiungibile origine delle cose).

Il metodo

Nel mondo delle relazioni, non siamo nella condizione di avere di fronte fenomeni sui quali fare calcoli per misurare convenienze concrete di scelta e dare soluzioni matematiche ai problemi.

Non possiamo, dunque, correre in questa sterile direzione, dobbiamo fermarci per definire un metodo specifico per costruire un altro tipo di contesto: non un nuovo mondo materiale ma un mondo che eserciti idee e progetti con mirate e qualificanti ricadute, in questo caso, sulle strutture e i servizi delle Città e in funzione delle qualità di tutto il contesto vitale che ci accoglie.

Una prospettiva che rischia di sfuggire ai nostri progetti ordinari e che può, invece, interrogarci sui modi con i quali potremmo affrontare il mondo complesso delle relazioni. Tutto un lavoro fatto di idee e di pensieri che, prima di impegnarsi in progetti con finalità e obiettivi vaghi, cerchi di capire situazioni e modi che, allo stato attuale delle cose, potremmo definire poco frequentati fin dalle loro radici.

Siamo stati abituati a trovare, negli scaffali delle tecnologie, prodotti per risolvere problemi e, insieme, anche per crearne altri le cui soluzione sono regolarmente rimandate al dopo di ancora nuove tecnologie. Non esistono, invece, né esisteranno mai scaffali con prodotti per la soluzione di problemi sociali e relazionali. Ma se continuiamo ad affannarci in questa direzione, non esistendo soluzioni preconfezionate, c’è il rischio che potremmo finire con l’invocare l’ordine come soluzione unica e conclusiva. Sarebbe la fine, una specie di paralisi, segno dell’accettazione di una nostra impotenza e impreparazione primitiva ad affrontare problemi relazionali. Dobbiamo, invece, fermarci per capire i termini di questo stallo e provvedere a rimediare ai suoi effetti, risalendo alle cause. Dobbiamo fermarci a pensare per capire perché non troviamo strumenti per risolverli.

Dobbiamo fermarci a pensare, per rientrare in noi stessi, riprendendo in carico, la nostra mente, incautamente riposta fra cose inutilizzate: si tratta di ricominciare a «riflettere» non solo su «come» fare le cose, ma «perché» farle in un modo piuttosto che in un altro.

Dobbiamo forse riflettere partendo dai punti forti della nostra tradizione culturale: dalla scienza, per esempio, fonte di conoscenze, di saperi e di applicazioni universalmente utili per rispondere ai bisogni dell’uomo e alla tenuta di uno sviluppo in sintonia con gli equilibri naturali. Invece, oggi, le sue applicazioni per la salute, per l’agricoltura, per l’alimentazione, per le comunicazioni, sono tutte asservite a un mondo di soldi impegnati a fare sempre più soldi, senza che vi sia un lavoro reale a favore del bene comune e, invece, proprio a spese dei beni comuni: le conoscenze e le risorse naturali oggi alimentano un sistema che genera facili consumi e che li promuove con sempre nuove e più sofisticate tecnologie. Un sistema che ottiene, così, due distruttivi vantaggi: sia di disporre di risorse senza il lavoro e l’energia necessarie per produrle (ma anche senza pagare diritti sui beni comuni utilizzati e senza neanche dover rispondere a una governata concessione che impedisca abusi), sia imponendo, agli operatori del sistema produttivo, il ricorso a un lucroso e continuo finanziamento per l’acquisto di tecnologie sempre più avanzate, necessarie per mantenere, ai massimi livelli, il motore della competizione sui mercati.

Detto in altro modo questo sistema vende ciò che non è di sua proprietà, vende i soldi raccolti, da sprovveduti risparmiatori e cinici speculatori, per alimentare lo sviluppo delle tecnologie; impone diritti che, dopo non averli lui pagati a monte, pretende che siano, invece, riconosciuti a valle ai suoi creditori perché possano pagare i debiti fatti contrarre con i finanziamenti; vende i mercati, senza averli pagati ma solo gestendo, arbitrariamente e senza risponderne a nessuno, un potere esercitato su interi continenti.

Questo sistema senza lavorare per produrre qualcosa, sfrutta solo i beni naturali e il lavoro di altri e si è costituito, invece, come potere finanziario globale che opera per il successo delle Nazioni, ma solo per quelle dalle quali, di volta in volta, trae i massimi vantaggi. Un sistema che ha preteso e gli è stato concesso (perché già ne era diventato padrone) sia il governo di un mondo democratico, affascinato e paralizzato dalle giostre del «libero mercato dei consumi» (a costi sopportabili per i cittadini ma terminali per le risorse e per gli equilibri naturali), sia di favorire governi locali armati che difendessero, di fatto, il saccheggio dei propri territori, se ricchi di risorse utili al sistema. Di risposte ai reali bisogni, non ce ne è neanche per parlarne, a meno che non diventino anche loro fonte di lucrosi affari (aiuti internazionali, investimenti umanitari trasformati in una controllata sottomissione in nome di uno sviluppo, sicuramente improbabile, perché temuto come ostacolo al dominio sul mondo).

Il sistema, in quanto meccanismo creatore di conoscenze e di applicazioni, non è certo responsabile dell’uso, arbitrario e fuorviante, finalizzato allo sviluppo, cieco e senza meta, del fare le cose che si possono fare e solo nell’interesse egoistico di pochi. Come per ogni strumento (dal coltello ai mezzi più sofisticati della comunicazione) la scienza e le applicazioni (tecnologiche e sociali) che ne derivano, non possono non mettere a disposizione di tutti non solo un ben articolato e comprensibile libretto di istruzione. Ma oggi devono mettere a disposizione anche una ragionata e giusta informazione sugli effetti di una ipertrofia tecnologica che ci imprigiona in un mondo di consumi e di rifiuti che richiedono sempre più tecnologia e che sottraggono, al senso del nostro esistere e in mille modi, i tempi umani per le consapevolezze. E questo è un primo punto di qualità che deve essere condiviso per una relazione informata, autonoma e responsabile fra gli abitanti delle Città e della Terra intera.

In mancanza di questi momenti, infatti, il corso delle attività umane e dei loro contesti, può essere facilmente deviato verso una lettura, una valutazione o una applicazione solo formalmente corretta dei fenomeni, per essere adattata, poi, a interessate applicazioni di parte: sarebbe un fallimento per ogni iniziativa. Oggi, i benefici offerti dalle conoscenze e dagli strumenti fisici e culturali a favore della qualità della vita umana e della sua sintonia con gli equilibri vitali, rischiano, infatti, di essere tutti convertiti in un diritto, incontrollabile, a sviluppare un mondo di «affari» che, sostanzialmente, con sviati riscontri scientifici e sociali, persegue prepotenti e ingiusti vantaggi esclusivi, a spese di tutte le risorse disponibili al momento e prive di controllo per una loro gestione conservativa o rinnovabile.

Il contesto e i contenuti

Sui contesti locali, sulle Città, c’è anche un altro fattore che pesa notevolmente, ma che agisce dal loro esterno: sono gli scenari di una rischiosa instabilità geopolitica. Questi sono l’epilogo delle scelte iniziali decise dal Gatt (General Agreement on Tarifs and Trade, un accordo sul commercio internazionale proposto e concluso a fine anni 40 del secolo scorso, come occasione di progresso, pur se non ben identificato al di fuori di uno stretto successo nel solo ambito economico-finanziario). Ma è anche effetto della successiva e imperiosa spinta liberista impressa al commercio con la costituzione del Wto (World Trade Organization) e dalla sua decisione (tramite rappresentanti delle nazioni ad esso aderenti) di diventare l’organo di governo mondiale della politica e del commercio. Una iniziativa che trova continuità nella costituzione (addirittura con il coinvolgimento dei diretti responsabili governativi ed economici dei paesi partecipanti: Ministri finanze e vertici Banche Centrali) di un gruppo (G) di nazioni più avanzate (non definitivo e variabile nel numero, da 6 a 20, cioè dall’iniziale G6 al G20).

I limiti di un equilibrio ideale (immaginato o solo strumentalmente fatto immaginare) tutto regolato dagli scambi commerciali, in un sistema competitivo, hanno consentito, in realtà, di esercitare libere prepotenze locali e di innescare prepotenze globali. Situazioni create e sfruttate per favorire instabilità economiche che, di fatto, hanno permesso, anche solo indirettamente, prevedibili saccheggi di risorse e speculazioni finanziarie di ogni tipo.

Sempre in questo quadro di scelte preordinate, non sono mancati altri deviati supporti. Quelli educativi, per esempio, con la definizione di percorsi formativi che, in concreto, finivano col selezionare e organizzare le risorse umane: dagli operai fino alle classi dirigenti, che potevano essere ben orientate per dare ciascuno il proprio contributo al successo dell’economia del libero mercato dei consumi. L’attenzione, infatti, non era diretta anche alla cura efficace di chi incontrava difficoltà formative, ma alla premiazione dei più «capaci». Una scelta che, inizialmente, era funzionale alla prospettiva, di fatto già in via di attuazione, di uno sviluppo della meccanizzazione delle produzioni. Una prospettiva sia di maggiore efficienza produttiva, sia di affrancamento del lavoratore dalla fatica fisica (ma con un maggior controllo dei ritmi di esecuzione dei suoi compiti), sia di disponibilità di un reddito che faceva girare l’economia. Un reddito che se liberava dalla povertà, trasformava un sistema, sostanzialmente di risposte ai bisogni, in un meccanismo di promozione di consumi compulsivi, spinti dall’ansia del possesso delle cose.

Possiamo richiamare, ancora, l’automazione della produzione, sviluppata con le applicazioni della meccatronica, che non solo ha ridotto l’offerta di lavoro umano, ma ha anche aumentato il livello delle competenze e dell’efficienza operativa richieste al lavoratore, pur a fronte di nessun miglioramento della sua qualità di vita.

Il tutto è avvenuto silenziosamente, quasi come se fosse stato un lento processo evolutivo di un fenomeno naturale.

Noi disattenti o comunque distratti, dall’apparente normalità (sostenuta da un preordinato senso comune delle cose), abbiamo lasciato campo libero a questa deriva socio-economica. Non pochi, anzi, se non si sono proprio alleati, si sono messi al servizio dei promotori, innocenti o maligni, che, in nome dell’efficientismo del «fare e consumare», si sono impegnati a premiare, con profitti e poteri arbitrariamente dispensati, chi raggiunge i massimi successi, in una gara senza senso che distrugge relazioni umane e beni comuni.

Sul piano delle mistificazioni, possiamo richiamare le infide azioni volte al travisamento delle interpretazioni scientifiche dei fenomeni naturali a supporto di dubbie utili applicazioni.

In particolare, è il caso dell’informazione alterata sull’oggettiva assenza di CO2 nei processi di produzione di energia da fonti nucleari. Un’assenza impossibile nella produzione di energia da fonti fossili, ma che non permette di dichiarare «verde» l’energia ottenuta dalla fissione nucleare solo perché non produce CO2. La portata della nocività, ambientale e per la salute umana, nel caso del nucleare, è di altra natura. Deriva, infatti, dall’immissione, a elevato impatto, di atomi radioattivi (o di prodotti che li contengono), nelle acque e nell’aria e poi dalla loro ricaduta anche nelle connesse catene alimentari. Una particella radioattiva non si degrada, non viene metabolizzata, neanche nei tempi biologici di una vita. Fin quando rimane nei tessuti di qualsiasi essere vivente procura, con continuità totale, il massimo di un fatale danno cellulare.

Quindi, sull’oggettiva assenza di produzione di CO2, da parte delle centrali nucleari è stata costruita la mistificante natura verde, di questo tipo di fonte energia, mentre si è taciuto, su tutti gli altri problemi di sicurezza e di inquinamento radioattivo, a elevato impatto e a lungo termine sulla salute umana. Possiamo continuare, così, senza sosta, con altre mistificazioni che fanno intendere scelte ecologiche o di risparmio di energia, in realtà inesistenti (per esempio, con il passaggio all’auto elettrica, con la semplificazione digitale, con le vantate convenienze delle vendite on-line) un uso deviato di fenomeni oggettivamente definiti, ma piegati poi a sostenere false interpretazioni.

Se riflettiamo, non è necessario molto impegno per completare l’immensa lista di tecnologie e relative procedure che affliggono i nostri tempi, nell’attesa di una nostra sfiancante e avvilente sottomissione finale alla monocrazia tecnologica dell’on-line e delle finzioni in ambienti virtuali estremi e di ogni tipo. Tutta una artificializzazione suicida non solo per l’ambiente naturale (che rischia di scomparire dai nostri orizzonti), ma anche per le relazioni vitali ridotte a procedure meccaniche e veloci. Siamo di fronte a una nuova forma di economia di scala che permette, col maggior numero di cose prodotte nella stessa unità di tempo, di ottenere maggior profitti.

Ma qual è il fine che muove questo costoso e opprimente entusiasmo tecnologico? La risposta è forse tutta contenuta nella convenienza di un mondo fatto di investimenti, di debiti, di consumi e di profitti e tasse da procurare per mantenere in moto un’assurda scommessa: quella di trasformare il vivere umano in un sistema di liberi consumi pronti solo ad essere trasformati in rifiuti per fare spazio ad altri insostenibili liberi consumi.

Metodo e riflessione

Non cercheremo certamente di entrare nel merito dei complessi, ma anche complicati, meccanismi delle relazioni in un contesto urbano. Ma possiamo senz’altro affermare che nessuna relazione di qualità sarà possibile se nelle Città non ci sarà una sufficiente condivisione di qualità di vita che possa creare una cultura del confronto e che si esprima come arte dell’incontro. Un’arte che vive di riflessioni personali e spassionate, che permette di essere noi stessi e di non ridurre (come normalmente avviene) ogni cosa al conveniente e all’utile che può favorire solo un particolare interesse. Un’arte del vivere che può essere alimentata solo dalla reciproca fiducia, da generose consapevolezze e responsabilità.

Usare le risorse a nostra disposizione, in questa prospettiva, permette di guadagnare e condividere una nostra sensibilità e responsabilità verso bisogni essenziali che sono il bene atteso da tutti: solo così la vita, eliminati gli avvilenti e insostenibili affanni competitivi, può diventare il piacere di una continua emozionante scoperta di relazioni umane che si sviluppano come se fossero connessioni in sintonia fra punti di una specie di frattale «creativo» di fenomeni umani.

Oggi senza un recupero delle specificità umane, e per prima quella della riflessione, rischiamo di inseguire solo un «meglio» meccanico e di non disporre di motivi fondati per fare ciò che la qualità della nostra natura ci spinge a fare.

Non ci sono, cioè, meccanismi deterministici che attivano relazioni, ma solo un riconoscimento, reciproco che attiva il piacere di appartenere all’umanità e di poter entrare in sintonia anche con l’ambiente che ci accoglie.

Si tratta dunque di relazioni fra soggetti autonomi, che, pur se non hanno uno schema accreditato di riferimento, sono una risposta spontanea, della natura umana, a una predisposizione originaria a creare e gestire relazioni sulle quali costruire o modificare e condividere convergenze, su problemi e iniziative, dalle quali dipende il clima sociale, culturale, economico di una Città.

Per affrontare il tema dell’identità dei cittadini e delle relazioni umane nei contesti urbani, questi scenari (che possono avere senso solo se riproposti come avvenimenti di un loro non replicabile tempo reale) sono da considerare esperienze originali essenziali che si formano solo in ogni nostro presente. Esperienze, quindi, che non possiamo ridurre in forme codificate e rituali (come avviene nelle relazioni economiche, accademiche, istituzionali), magari anche rielaborate dal senso comune e in scenari di tempi passati che paralizzerebbero le iniziative in tempo reale del presente trasformandole in proposte buttate al vento.

Se non accendiamo i fari della valutazione critica sull’origine, di questi problemi (non solo fisici ma anche indotti nei nostri modi di pensare e di adattarci ai comportamenti comuni più diffusi), ogni iniziativa finalizzata al costruire e curare una città dell’uomo e non solo degli affari, finirà col produrre parole senza concrete opportunità di progresso e di qualità della vita.

Ma creare un coordinamento che sia anche operativo, e non solo un’intenzione di cambiamento di una comunità, è un problema estremamente complesso. La promozione di iniziative che sono in contrasto con un diffuso e rassicurante senso comune delle cose, avranno, infatti, sempre poche opportunità di incidere sulla stratificazione delle mancate analisi critiche, consapevolezze e riflessioni, necessarie per riconoscere e assumere le nostre responsabilità (che, in una società democratica, non possono essere addossate ad altri). Anche la gestione fertile delle diversità, della natura umana, diventa impossibile se non c’è un equilibrio che le valorizzi nella prospettiva di possibili sinergie, che superino la conservazione dell’esistente garantita dalla mancata rimozione delle cause.

Di fatto, pur potendo confrontarci e condividere progetti diversi e una scala di priorità per la loro realizzazione, potremmo essere ancora in una realtà priva di quelle libere riflessioni personali, necessarie per creare relazioni senza nessun’altra intenzione che non sia la ricerca di una condizione umana, non finalizzata a perseguire un utile.

Riflettere

Non è possibile riportare, in un manuale, gli argomenti empirici di un impegno per la creazione di relazioni, perché la relazione non è un prodotto è un’esperienza continua e incoercibile che preserva l’uomo dalle sottomissioni e arricchisce invece la qualità della sua vita sociale.

Le relazioni si vivono, se si raccontano diventano romanzi.

Possiamo, dunque, ripensare il tema delle relazioni, iniziando con una riflessione sulle riflessioni che animano le qualità del nostro «essere in relazione» con ogni cosa, sia tangibile, sia che trascenda le forme materiali.

Se è vero che tutti sentiamo, come istintiva, la propensione alla riflessione, non sempre ne intuiamo la necessità e le diamo spazio. Vengono così a mancare i momenti per decidere come e quando iniziare un percorso mentale che possa dare sostanza ai nostri propositi e agli auspicabili momenti di verifica dei risultati rispetto alle attese. Oggi, l’esercizio della riflessione sembra impedito da quella veloce successione delle «cose da fare» con la quale il modernismo e le tecnologie ci hanno «sollevato» dalla responsabilità della gestione del nostro tempo. Il nostro tempo, infatti, è già saturato da impegni che sembrano avere la funzione di farci sentire vitali solo se dimostriamo la dinamicità produttiva del «fare» e il successo dell’«aver fatto». Un impegno che è un ostacolo fisico all’uso autonomo del nostro tempo e che inibisce la riflessione prima ancora che ne possiamo sentire il piacere o anche solo la volontà. I tempi e i luoghi, anche solo per concepire il senso e il valore del poter riflettere su ogni cosa (in particolare nelle situazioni di crisi che sono punti cruciali per possibili cambiamenti), sono sequestrati da urgenze che impegnano le nostre abilità mentali in ridondanti e meccanici diversivi di fatali incombenze burocratiche e, oggi, anche in interminabili e ostacolati inseguimenti di complicate e precarie semplificazioni on-line.

Questo nostro mondo, sempre più privato di momenti di riflessione, è tormentato dal «fare» per non perdere il posto nelle giostre delle competizioni. Una privazione che non permette anche solo di andare oltre quell’artificiosa linea di confine oltre la quale la riflessione viene fatta interpretare come inammissibile lentezza del vivere e conseguente causa dell’allontanamento da un mitico sviluppo e di un deprimente isolamento. Viviamo tempi che non offrono quei momenti di silenzio essenziali per entrare nel profondo del nostro essere, almeno per riconoscere e valorizzare le nostre più profonde aspirazioni personali. Ormai non abbiamo più il tempo anche solo per pensare di avere diritto a cercare e dare un nostro senso alle cose, perché siamo completamente sottomessi a obblighi precariamente, preordinati da scriteriati accordi e conflitti fra poteri globali. Accordi che definiscono ruoli e rituali passivi di consumo e che dispensano piccoli ma confortanti privilegi a chi accetta il proprio «libero» adeguamento ai sistemi e ai meccanismi dei mercati e dei poteri che li sostengono.

Siamo rinchiusi in stazioni uniche di conservazione di un artificioso e solo formalmente efficiente, «meccanismo dell’esistente». Un meccanismo che viene proposto come espressione del vivere umano al quale possiamo «liberamente» adattarci ma solo per seguire i preordinati binari del suo «fare le cose». Se sentiamo il fischio, di un treno in partenza, siamo «liberi» di provare le ansie e le paure di perdere possibili e uniche opportunità di sopravvivenza, ma anche di successi esclusivi. Così, alla ricerca disperata di un destino favorevole, ci affanniamo a salire sul primo vagone che incontriamo, senza chiederci dove sia diretto e verso quale vita ci stiamo lasciando trasportare. Un vero pericolo, al quale esponiamo anche i nostri fondamentali bisogni vitali primari, perché offriamo un nostro consenso disinformato e incondizionato, alle decisioni degli arroganti macchinisti e manovratori di quei treni. Di fatto ci affidiamo, sprovvedutamente, a potenti alieni che sono espressione di intelligenze artificialmente e disumanamente orientate dall’ossessione del «fare». Ma noi non siamo «come pietre rotolanti» vittime di un destino. Possiamo, invece, condividere umane consapevolezze e responsabilità di possibili alternative e vanificare, così, le imperiose sottomissioni delle nostre libertà e personali identità.

Dovremmo fermarci per cominciare a interrogarci sulla reciproca fiducia sulla quale si fonda la nostra natura sociale, sui beni comuni, doni da condividere (prima che siano trasformati in rifiuti di consumi senza senso). Dovremmo interrogarci sulle conseguenze della distruzione di risorse naturali, sprecate per muovere i pesantissimi treni del «fare le cose senza senso» verso ignote e temibili destinazioni. Dovremmo interrogarci sulla mancanza di senso nella produzione di beni che non rispondono e anzi contrastano le domande per soddisfare i bisogni vitali essenziali che non sono solo materiali. Dovremmo interrogarci sul nostro consenso passivo offerto a un ottuso sistema di pensieri unici, che si oppongono, per loro incapacità, alla costruzione di relazioni fra risorse di diversità e collaborazioni sinergiche essenziali per dare tenuta agli equilibri naturali e qualità vitali alla condizione umana.

Purtroppo, oggi, la sola meccanica e pur improbabile distribuzione razionale delle risorse naturali (nei limiti della loro concreta disponibilità) non sarebbe comunque sufficiente per dare qualità al vivere umano. È, infatti, anche necessaria una libera espressione di intelligenza umana, che possa creare sinergie e visioni condivise della condizione umana, per una nostra attiva e responsabile sintonia con lo sviluppo della qualità dei fenomeni vitali di questo nostro mondo.

La riflessione permette di comprendere il senso profondo del nostro inestinguibile e irriducibile «aver fiducia» anche verso ciò che viene del tutto negato. È possibile, allora, che, avendo anche i tempi di un dovuto, pur minimo, silenzio a disposizione (come può avvenire sempre in società umane non afflitte dalle convulsioni ideologiche e monopolistiche di uno sviluppo tecno-finanziario), si possa esercitare una spontanea riflessione. È necessaria una più consapevole valutazione, di quegli eventi e delle loro prospettive, che sono segni di un divenire e di una nostra inalienabile e non delegabile responsabilità da esercitare nel momento delle scelte. Un modo per non vivere sotto il peso dei timori e per essere, invece, presenti a se stessi nei momenti delle incertezze sulle scelte da fare. Una condizione che, anche se le tendenze sociali e culturali di moda dovessero indirizzare altrove, permetterebbe di scoprire quel senso di responsabilità che evita a tutti di finire intruppati nella «non cultura» del senso comune delle cose o di sentirsi paralizzati dalla paura di fare scelte sbagliate o di rimanere tristemente impotenti, fino all’indifferenza, di fronte alle piccole e grandi cose, gestite dalla prepotenza di chi le vuole volgere solo a proprio vantaggio. Un senso di responsabilità che crea valore umano e buon futuro per tutti. Un modo per promuovere intenzioni e pratiche di vita per la costruzione di un bene condiviso, libero dai vincoli del «senso comune» e da quelle scelte, senza qualità, dettate da egoismi istintivi. Un modo per scoprire e apprezzare quella cultura che anima le attività di solidarietà e collaborazione, senza fare i tristi calcoli su precari vantaggi e ignobili convenienze, e che porta a riconoscere e curare i beni della Terra, senza sprechi, per renderli disponibili, nella ragionevole misura offerta, per tutti e per sempre.

 

Walter Napoli, Chimico tossicologo e analista ambientale