La crisi dell’auto, tutti i perché…

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֎La complessità del problema. Quando è iniziata la crisi. Le non risposte europee. La paura di scegliere nuove soluzioni֎

Le radici sono lontane. Vediamo di ordinare le idee per capire la portata del fenomeno, quali sono le sue radici lontane, e quali scenari ci possiamo aspettare nel prossimo futuro.

Innanzitutto, la portata del fenomeno, è triste dirlo, non dovrebbe sorprendere. Il settore dell’industria automobilistica risente sempre in misura maggiore, rispetto all’aggregato di tutto il manifatturiero, dei momenti di crisi, sprofondando di diversi punti percentuali che fanno venire i brividi ad azionisti, occupati, dealer e fornitori vari.

Le radici del problema sono note e si manifestano ciclicamente, e risiedono negli elevatissimi costi di sviluppo del prodotto e di un time-to-market poco performante, in genere per tutto il settore, fatto salvo alcuni casi eclatanti in Cina.

La punta dell’iceberg della crisi del settore automobilistico è quella che vediamo oggi sui media tutti i giorni: maxi-rallentamento delle vendite, mancanza di prodotto nuovo, scarsa offerta delle auto elettriche con tecnologia Battery Electric Vehicle (Bev) se non a prezzi molto cari, minaccia di invasione dei Bev cinesi in Europa, incertezza sulla transizione dell’intera gamma di prodotto verso la propulsione solo elettrica così come sostanzialmente richiesto dalla Ue entro il 2035.

La complessità

Come evidenziato in più occasioni, l’industria automobilistica (automotive) è assetato di capitali e quindi la struttura dei costi fissi risente in modo significativo dei rallentamenti, e delle accelerazioni, dei cicli dell’economia. Non bisogna dimenticare che l’automobile rimane un prodotto dannatamente complesso, risultato dell’assemblaggio di componenti che vengono da centinaia di produttori specializzati, in una catena di fornitura che ha bisogno di tempi lunghi per partire, per accelerare e, a causa delle sue inerzie, tempi lunghi per rallentare.

Lo stop di produzione in Asia di circuiti integrati per l’automotive ha frenato un intero settore che in molti casi ha dovuto mettere in cassa integrazione il personale causa il fermo delle fabbriche per la mancanza dei componenti. La gestione di questo «elastico» è l’incubo ampiamente noto ai manager dell’automotive: è un vero e proprio tormento perché pone i manager di fronte a dilemmi di gestione del business che hanno pesanti ripercussioni politiche ed etico-sociali.

Se, ad esempio, la domanda dai concessionari rallenta e non arrivano sufficienti ordini dal mercato, i manager del settore hanno due strategie possibili. Con la prima, si cerca di sopperire alla mancanza di ordini dal mercato con l’aumento degli «ordini centrali»: sono quelle configurazioni di vetture pronte per la commercializzazione che non hanno ancora un cliente.

Questa strategia da un lato protegge le fabbriche e la catena di fornitura, che lavorano, magari con qualche piccolo stop, assemblano e consegnano il prodotto. Dall’altro lato, gli «ordini centrali», ingolfano i piazzali e sono la disgrazia principale per i concessionari che si devono caricare di prodotto invenduto che prima o poi farà una brutta fine: piazzato sul mercato offrendo forti sconti.

Gli sconti sono una pericolosa droga (si pensi, ad esempio, alle vetture già immatricolate e commercializzate come km 0) perché sottraggono valore al prodotto, quindi marginalità per il rivenditore, e sono difficili da eliminare perché la domanda futura, se ancora debole, visiterà il salone solo se lo sconto viene confermato.

Con la seconda strategia si opta per un drastico stop alle fabbriche, il personale va a casa (licenziamenti e/o cassa integrazione), si attendono tempi migliori per ripartire oppure, più drammatico ancora, si sceglie di eseguire un importante taglio, riducendo la capacità produttiva esistente e futura. In questa seconda opzione, che sembra essere quella scelta dal gruppo Volkswagen, sono immediate le ricadute politiche e sociali che devasteranno il clima tra tutte le parti in causa: Oem (acronimo di «Original Equipment Manufacturer» ossia: produttore di apparecchiature originali) che realizza una parte o un componente utilizzato nei prodotti di un’altra società, sindacati dei lavoratori, autorità pubbliche locali e nazionali.

Tuttavia, in questo caso i rivenditori sono salvi (si fa per dire…) perché non devono superare le oggettive difficoltà per vendere un prodotto pre-configurato, non vedranno deteriorarsi i margini commerciali, ma ovviamente rimarranno all’asciutto in attesa di tempi migliori.
Per ragioni contingenti alla crisi sanitaria, questo secondo scenario è quello che è esattamente accaduto, provocando un allungamento dei tempi di consegna dei veicoli nuovi (mancavano i componenti), innalzamento dei valori dell’usato, fabbriche ferme o quasi, prosciugamento di tutte le politiche di sconto e profitti alle stelle per gli Oem. Quindi il Covid e il post-Covid sono stati anni ottimi per i profitti di Stellantis e degli altri produttori.

Ma come in una tempesta perfetta, a questi problemi, nella crisi automotive, se ne sono sovrapposti altri che hanno aggravato la situazione e amplificato gli effetti negativi.

Il Dieselgate

Molte opinioni pubblicate in questi anni concordano che tutto ebbe inizio con il Dieselgate del 2015 (noto anche come scandalo sulle emissioni che ha riguardato la scoperta della falsificazione delle emissioni di automobili munite di motore diesel del gruppo Volkswagen vendute negli Stati Uniti d’America e in Europa), che costò alla Volkswagen 33 mld di dollari in sanzioni, cause legali, riacquisto di auto incriminate. Il Dieselgate scoppiò nel momento dell’apoteosi del motore diesel che, grazie al common rail, era diventato un sistema di propulsione civilizzato, poco rumoroso, performante, parco nei consumi.

La componente dolosa dello scandalo, che consisteva nella manipolazione dei software di controllo delle emissioni per funzionare in modo benevolo in fase di omologazione delle auto diesel, possiamo dire che aggiunse… gasolio all’incendio, e tutto di un tratto fece perdere quella buona reputazione che il propulsore diesel si era conquistata.

Le conseguenze immediate furono per il gruppo Wolkswagen, ma anche altri produttori non ne uscirono indenni (Fca, Bmw, Audi). Alcune multe del Dieselgate furono comminate nel 2021, arresti di dirigenti di alto profilo (Audi) furono eseguiti nel 2018, la chiusura di alcune vicende processuali è datata al 2023. Il Dieselgate si è trascinato per un lustro importante, tenendo tutti sotto scacco.

Nel frattempo, la Commissione europea avanzava nel 2019 le prime proposte del piano cosiddetto «Green Deal» che il Parlamento europeo, nel 20 gennaio 2020, supportò favorevolmente, con la richiesta alla Commissione di avere obiettivi ancora più ambiziosi. E arriviamo in fine al famoso Fit-For-55, che in varie fasi viene discusso e presentato: una data cruciale fu quella del 14 luglio 2021, in cui il progetto prese forma in via definitiva, articolandosi in dodici direttive e regolamenti. Una di queste è la tanto contestata «norme sulle emissioni di CO2 per autovetture e furgoni» che stabilisce la misura drastica di riduzione del 100% delle emissioni allo scappamento entro il 2035. In pratica, si celebrò la fine del motore a combustione interna e la richiesta a tutti i produttori di vendere veicoli solamente full electric, a partire dal 2035.

Numerosi osservatori si sono domandati come mai la Ue scelse obiettivi ambiziosi, pur se legittimi, misurando la riduzione della CO2 delle sole emissioni, senza tenere in considerazione l’intero ciclo di vita della vettura, e senza considerare nemmeno le implicazioni industriali sulle catene del valore, visto che per i Bev si aggrava la dipendenza dai fornitori di batterie.

È opinione diffusa che quella misura fu il risultato di un compromesso politico, che permetteva di non aprire una questione estremamente complicata quale quella delle misure di CO2 su un intero ciclo di vita di un prodotto (qualsiasi), che al tempo stesso avrebbe tenuto a bada le critiche di approccio eccessivamente conservativo della Ue, e sgombrato il campo dalle illazioni di difesa di produttori incriminati nel recente scandalo del Dieselgate.

Mentre il Dieselgate dispiegava i suoi effetti, la Commissione Ue studiava compromessi su come aggregare più consenso sul Green Deal, la Cina non rimaneva affatto ferma a guardare, ma anzi, dal lontano 2010, quindi ben prima del Dieselgate, dispiegava un massiccio piano per la transizione alla mobilità elettrica con incentivi all’acquisto e potenti sussidi al sistema industriale.

Una delle questioni più controverse rimarrà quella del calcolo effettivo di quante risorse negli anni sono state profuse in questo piano: è sicuro che, se mai un giorno un computo preciso verrà fatto, si parlerà sicuramente di centinaia di miliardi di dollari complessivi. Solo gli incentivi all’acquisto sono stati nell’ordine dei 2,5 Mld di dollari all’anno, dato medio annuale su un arco temporale di 12 anni.

I produttori cinesi si organizzano, mettono a punto tutti i dettagli della catena di fornitura dei Bev (materie prime, batterie, motori elettrici, software, etc.), fanno incetta di risorse nei mercati mondiali e con successo, crescente, di pubblico e di critica, presentano i loro prodotti in occasione dell’Auto China, il salone biennale dell’auto a Pechino organizzato dalla Beijing International Automotive Exhibition a partire dal 1990. Pare che nell’ultima edizione, di aprile 2024, gli stand dei produttori occidentali siano stati snobbati dal pubblico che si è invece accalcato in quelli dei produttori locali.

Per semplificare una storia lunga, noi in Europa e in Usa, fatta eccezione per il caso Tesla, ci siamo mossi in grave ritardo, e dopo aver venduto i pochi mezzi elettrici, al netto delle importazioni di Tesla, agli early adopter (ossia i primi clienti ad adottare un nuovo prodotto o tecnologia prima che lo faccia la maggior parte delle persone), ci troviamo di fronte una montagna da scalare: come fare in fretta per proporre nuovi prodotti nei segmenti B, C e D, prima che arrivi l’export di veicoli Made in China ad occupare tutti gli spazi competitivi.

Scenari futuri

Quali sono i possibili scenari per uscire da questa impasse? È opportuno rivedere il vincolo del 2035? Quali sono gli effetti sui produttori? Esaminiamo le questioni principali.

La manovra tattica: allentare i vincoli sull’azzeramento delle emissioni.

Allentare i vincoli dell’azzeramento della CO2 alle emissioni entro il 2035, potrebbe essere una manovra tattica per dare un po’ di respiro ai produttori europei, ma avrebbe soprattutto un effetto benefico sul fronte delle resistenze dei consumatori.

Una rimodulazione della scadenza del 2035 non avrebbe, invece, impatti significativamente migliorativi per la condizione degli Oem, i quali hanno già fatto programmi a lungo termine per il rimpiazzo delle vecchie catene di fornitura legate ai veicoli termici, con le nuove specifiche per i Bev, e da questi piani non possono tornare indietro.
Il problema per gli Oem sarà quello di avere un prodotto valido in tempi brevi in cui i costi di acquisizione dei clienti (prevalentemente, costi commerciali) siano ragionevoli, anche perché la sfida prossima sarà quella di convincere i consumatori della prima maggioranza, notoriamente un osso più duro rispetto all’entusiasmo dei primi early adopter. Per gli Oem, questa situazione in cui devono convivere per lo stesso prodotto molteplici forme di propulsione (benzina, diesel, termico full hybrid o mild hybrid, Bev), rappresenta lo scenario peggiore, di elevata complessità gestionale con costi nettamente superiori ad uno scenario solo Bev o solo termico.

Come al solito, una buona politica industriale deve dare chiarezza di lungo periodo sia alla domanda che all’offerta: queste sono le condizioni di base per contenere l’incertezza del futuro e aiutare uno sviluppo armonico di tutte le parti in causa verso un mondo più sostenibile.

Va evidenziato che l’industria automobilistica (come quella di tutti i grandi comparti tecnologicamente più avanzati) è stata caratterizzata essenzialmente da tre fenomeni: centralizzazione di capitale, concentrazione industriale, diminuzione del saggio di profitto. Tradotto in termini più semplici: i gruppi automobilistici sono sempre meno (perché ci sono state numerosissime fusioni e acquisizioni), la loro dimensione è diventata estremamente grande, guadagnano sempre meno su ogni singola autovettura.

Come è ovvio il passaggio all’elettrico presenta non pochi problemi:
– le auto elettriche costano tanto e non sono alla portata di tutti, cosa che contrasta con il modello in piedi fino a oggi, quello della motorizzazione di massa;
– hanno ancora relativamente poca autonomia, dunque non hanno le stesse prestazioni dei motori endotermici;
-per costruire le batterie servono diverse materie prime non facilissime da reperire;
– c’è bisogno di creare infrastrutture per la ricarica delle auto.

Alcuni gruppi industriali si sono fatti trovare più preparati di altri a questa «rivoluzione», ma quasi tutti per diversi motivi si trovano ora in difficoltà. In particolare i produttori cinesi sono quelli che si sono fatti trovare più pronti grazie agli enormi aiuti di stato che hanno ricevuto negli anni passati. Anche gli Usa, seppur con notevole ritardo rispetto a quanto fatto da Pechino, hanno foraggiato le proprie aziende mentre in Europa la situazione è più difficile.

In Ue c’è la situazione più difficile perché gli aiuti di Stato sono formalmente vietati. In realtà anche nel vecchio continente il pubblico ha finanziato le aziende del comparto, approfittando soprattutto delle deroghe seguite alla pandemia, ma non è niente di paragonabile a quanto fatto da Stati Uniti e Cina, senza contare che a causa della rigidissima normativa antitrust non ci sono potute essere aggregazioni in grado di creare dei «campioni continentali» capaci di competere adeguatamente a livello internazionale.

Morale della favola, come scritto in precedenza, le auto elettriche sono difficili da vendere perché costano troppo e non sono pratiche perché manca la rete di «colonnine», quindi i consumatori non le comprano. L’unica possibilità per favorirne l’acquisto sono gli incentivi che però devono essere sostanziosi e questo crea problemi di finanza pubblica. Allo stesso tempo i consumatori sanno che il futuro è l’elettrico e quindi non comprano neanche le vetture a motore endotermico che potranno circolare sempre meno e così si determina la crisi del mercato.

Prima la pandemia, con le strozzature delle catene di fornitura e la penuria di chip, poi la guerra tra la Russia e l’Ucraina, con l’aumento del costo dell’energia, hanno fatto il resto.

Guerra commerciale e difficoltà anche cinese

Altro elemento centrale della crisi del comparto è la guerra commerciale attualmente in corso tra Cina, Ue e Usa, combattuta a colpi di dazi. Le aziende cinesi potenzialmente possono produrre auto elettriche e ibride relativamente a basso costo da poter vendere nel vecchio continente e negli Stati Uniti, ma sono bloccati dalle barriere doganali che i governi, in particolare nell’UE, motivano con il fatto che la loro capacità è stata resa possibile dagli enormi aiuti di stato ricevuti. La Cina ovviamente risponde con altri dazi che colpiscono in particolare le case europee, soprattutto quelle di alta gamma per le quali il mercato cinese è fondamentale.

Insomma al momento ci si trova in una situazione di stallo.

La Cina è in crisi perché ha una sovraccapacità. Hanno la tecnologia, le fabbriche che possono produrre, hanno le catene di fornitura, hanno la disponibilità delle materie prime ma non hanno accesso ai mercati europeo e americano e il loro mercato domestico non basta. Quindi non hanno a chi vendere, anche perché, in un momento storico di sostanziale stagnazione mondiale e salari fermi se non in decrescita reale, la bella favola del ricambio di automobili per tutti non si traduce in una reale domanda pagante. Al momento le 450 fabbriche di vetture elettriche presenti nel paese operano appena al 20% della loro capacità produttiva.

Per aggirare il problema delle barriere doganali i cinesi puntano a produrre direttamente in Europa, ma non è detto che gli europei lascino fare, oltre al fatto che ciò significa essenzialmente delocalizzare e questo crea un problema interno per Pechino in un momento in cui la disoccupazione, in particolare quella giovanile, comincia a farsi sentire.

I produttori europei sono ancor di più in crisi perché arrancano da tutti i punti di vista. Puntano a rendersi il più autonomi possibile, soprattutto per ciò che concerne la produzione di batterie, per dipendere sempre meno dalla Cina, ma ci vuole tempo. Le case europee hanno capito che non possono mirare alla diffusione di massa (la gran parte dei cittadini non può permettersi l’acquisto di un’auto elettrica o ibrida) e si orientano quindi alla gamma alta, quindi su minori volumi ma con margini di profitto maggiori. Gli incentivi sono una possibile soluzione per ravvivare il mercato, ma costano troppo, in particolare ora con il ritorno dei vincoli di bilancio del nuovo patto di stabilità.

Inoltre la situazione delle imprese europee è caratterizzata da una grande frammentazione interna al cosiddetto «mercato unico»: in realtà questi grandi capitali scontano il problema di operare in un contesto come quello europeo dove ogni singolo paese gioca la sua partita e non si riesce a mettere in campo strategie organiche capaci di coinvolgere l’intera Ue in un’ottica di efficientamento. I capitali che fanno capo alle diverse realtà nazionali in Europa sono uno contro l’altro e, a ogni crisi, la situazione peggiora.

In generale tutti i produttori mondiali sembrano orientarsi sull’ibrido più che sull’elettrico per le ragioni descritte in precedenza, determinando così una sorta di marcia indietro.

Tornando all’Italia, il comparto automotive gira in buona parte attorno a Stellantis, nata dalla fusione tra i gruppi Fiat Chrysler Automobiles e Psa. Poi c’è il settore della componentistica che lavora anche per altre case. La dinamica dell’automotive italiano ha accelerato dopo la crisi del 2008 con un aumento più che proporzionale della componentistica auto invece che delle automobili finite. In altre parole, da produttori di automobili gli italiani sono diventati sempre più produttori di pezzi di automobili altrui (tedesche e francesi soprattutto).

Stellantis ha i problemi di tutti gli altri produttori. Buona parte del gruppo ha storicamente lavorato sulla gamma «bassa» (per intenderci, le utilitarie), che è proprio il segmento che gli europei stanno abbandonando alla ricerca di maggiori profitti. Inoltre in generale le auto elettriche presentano molte meno componenti meccaniche e questo significa che si necessita di meno operai per produrle. Stellantis in Italia sopravvive dunque solo grazie agli ammortizzatori sociali e se ancora non chiude gli stabilimenti è solo perché cerca di estorcere quanti più soldi possibile al governo per la costruzione della gigafactory ossia di mega impianti di produzione di batterie per auto. Si tratta di fabbriche tecnologicamente avanzate e in grado di produrre ogni anno batterie per una capacità di accumulo totale di decine di Gigawattora, utilizzando fonti di energia rinnovabile.

Il settore della componentistica poi è in difficoltà ancora maggiore perché, come si diceva, è storicamente legato all’industria tedesca che sta attraversando una crisi fortissima.

La crisi dell’automotive potenzialmente potrebbe rappresentare l’occasione per dare una svolta definitiva in tema di mobilità, di riduzione delle emissioni e di politica industriale. Le stesse dinamiche di mercato a cui abbiamo accennato sopra indicano chiaramente la necessità di un cambio di paradigma complessivo. Il problema non è semplicemente costruire nuove auto: non è possibile infatti pensare a una sostituzione dell’intero parco auto passando da mezzi a motore endotermico a veicoli elettrici. Non è sostenibile e non abbiamo a disposizione l’energia elettrica necessaria per farlo.

Inoltre, sottolineiamo che le soluzioni di fusioni e acquisizioni continue (ossia la centralizzazione del capitale) sembrano una risposta immediata per razionalizzare (ossia pianificare?) la produzione del settore ma, nel lungo periodo, essendo fatte nell’interesse privato, invece di risolvere i problemi li aumentano. Questa razionalizzazione implica sì più tecnologia, ma anche più disoccupazione, come le recenti ondate di chiusure e licenziamenti, anche in Germania, confermano.

Non c’è quindi bisogno semplicemente di nuove auto ma di nuove idee. Il modello della motorizzazione di massa, del trasporto privato, non è sostenibile da nessun punto di vista, è pericoloso, inefficiente, inquinante e va abbandonato in favore di una massiccia implementazione del trasporto pubblico, di forme di mobilità dolce dove possibile, e dello sharing. L’adozione di modelli di trasporto e mobilità innovativi, uniti alle nuove tecnologie legate all’elettrico e all’intelligenza artificiale, possono già oggi consentirci di ridurre e ottimizzare gli spostamenti, renderli sicuri e ridurre drasticamente le emissioni.

Ovviamente un passaggio del genere può avvenire solo se guidato dal pubblico con politiche pensate nell’interesse generale e non dalle multinazionali dell’auto che invece hanno a cuore solo i propri profitti. Multinazionali che immaginano semplicemente di vendere auto non più a tutti ma solo a una parte di popolazione, quella composta da chi ha le risorse per acquistare le nuove auto e da chi sarà costretto a indebitarsi. Tutto questo mentre a fasce sempre più larghe di popolazione verrà negato il diritto alla mobilità.

Difendere le aziende automobilistiche pensando così di difendere l’occupazione è un’illusione. Quando si attraversano passaggi di questa portata, le industrie vanno riconvertite e servono imponenti ammortizzatori sociali. Allo stesso modo pensare di far fronte alla situazione opponendosi alla transizione, continuando a basare il trasporto sul motore endotermico e sul trasporto privato è da reazionari. Negare problemi come quello del cambiamento climatico, dell’inquinamento che nella sola Europa uccide, secondo le stime, circa 238.000 persone ogni anno è da idioti e incoscienti. E, soprattutto, non è nell’interesse delle classi popolari.

I problemi non vanno nascosti, non vanno omessi: vanno affrontati. Le soluzioni già esistono, serve la forza politica perché siano messe in pratica.

 

Francesco Sannicandro