(Adnkronos) – "Oggi il costo del farmaco è ridotto, ma fornire insieme alla terapia una serie di servizi che dovrebbero essere fruibili per il paziente è un aspetto estremamente importante. Per gestire il sistema di infusione, oltre alla formazione del paziente, ci deve essere l'aiuto di personale infermieristico", ma questo "non è sempre garantito dalle aziende che producono i farmaci". Così Carmine Dario Vizza, professore di Cardiologia all'Università di Roma 'La Sapienza' e direttore della Cardiologia presso l'Azienda ospedaliero-universitaria Policlinico Umberto I, intervenendo alla conferenza stampa 'Ipertensione arteriosa polmonare: terapie su misura e home delivery cambiano le prospettive di cura', promossa oggi a Roma da Aop Health, nella sede del Palazzo dell'Informazione. "Per la Iap, la comunità scientifica è riuscita a produrre delle evidenze scientifiche che sono solide. Avere 10 farmaci a disposizione per malattia rara è un fatto eccezionale – spiega Vizza – Ma 20-25 anni fa nessuno voleva interessarsi a questa malattia rara. Una ventina di anni fa, Stefano (Ghio, presidente di Italian pulmonary hypertension network, ndr) e io, lui a Pavia, io a Roma, abbiamo iniziato usando farmaci 'off label', quindi fuori indicazione. Avevamo solo il prostanoide, che è infusionale. Pur cambiando la storia naturale del paziente, era difficile da far accettare. Inoltre, era anche instabile: rimaneva stabile per non più di 20-25 ore. Poi è arrivato il treprostinil che ha una stabilità maggiore. Recentemente è stato dimostrato che può allungare la stabilità per più di 14 giorni: continuare la terapia per un periodo molto lungo è senz'altro un aspetto importante e rilevante". La ricerca "è importantissima – sottolinea l'esperto – Con la terapia, da un punto di vista sintomatologico il paziente migliora molto. La stragrande maggioranza dei pazienti sono a un rischio intermedio, che significa avere una mortalità intorno al 10% dopo un anno. Oggi molti di questi pazienti riusciamo a farli passare a un rischio basso, che significa avere una mortalità inferiore al 100% dopo un anno. Ma soprattutto migliora la capacità di fare uno sforzo fisico. Dimostrare che abbiamo un miglioramento della sopravvivenza in una malattia rara è estremamente difficile. Però vediamo il trend di quello che ci dicono i registri nel corso del tempo – illustra Vizza – Da quando abbiamo iniziato a dare i farmaci, quindi con una mediana sopravvivenza a 2 anni e mezzo, a quello che facciamo adesso, con una terapia aggressiva, dove noi mettiamo un farmaco dopo l'altro, rapidamente arriviamo alla mediana sopravvivenza che è sui 7 anni". E "probabilmente adesso che cominciamo a utilizzare terapie ancora più aggressive abbiamo ulteriori vantaggi. Abbiamo dei pazienti che sono in trattamento con 20 anni, 25 anni, che stanno bene. Sono una minoranza, il 5%, il 10%, però 20 anni fa era una cosa assolutamente impossibile da pensare", conclude. —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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