֎Il lavoro, la sicurezza, la cittadinanza, tutti temi legati alla qualità della vita che, purtroppo, prigioniera di una società sempre più legata alle leggi economiche, sono passati in secondo piano con gravi ripercussioni sulla stabilità della società֎
I referendum che si celebreranno l’8 ed il 9 giugno sono cinque. Ai quattro quesiti sul lavoro si aggiunge infatti un quinto referendum sulla cittadinanza, altrettanto importante anche perché favorisce l’inclusione dei lavoratori immigrati nel mondo del lavoro ed in genere nella vita del Paese. È, questo, un tema complesso che riguarda l’integrazione di due concetti: sicurezza sul lavoro e cittadinanza, in un modello di sviluppo sostenibile.
Il lavoro, la sicurezza, la cittadinanza, tutti temi legati alla qualità della vita che, purtroppo, prigioniera di una società sempre più legata alle leggi economiche, sono passati in secondo piano con gravi ripercussioni sulla stabilità della società.
Nella selezione dei quesiti referendari si è dovuto fare i conti con alcuni problemi tecnici di non poco conto, a partire dal fatto che nel nostro ordinamento questo tipo di referendum popolare è solo abrogativo e non anche propositivo: può cioè consentire la cancellazione di norme, ma non la introduzione di disposizioni nuove.
La selezione e la stesura tecnica dei quesiti sul lavoro (il cui fattore unificante è quello di contrastare la precarietà e di rafforzare la sicurezza sul lavoro) è stata premiata, posto che essi sono stati tutti dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale, con altrettante decisioni che confermano non solo la coerenza tecnica dei singoli quesiti, ma anche la loro valenza sul piano delle conseguenze pratiche in caso di vittoria dei sì.
Con il primo quesito, quello che tocca il tema politicamente più sensibile, si chiede l’abolizione integrale del decreto legislativo n. 23 del 2015 (emanato in attuazione del cosiddetto «Jobs Act» del Governo Renzi), con il quale si privavano della copertura dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori i nuovi assunti, garantendo loro una tutela meramente economica, e non più reintegratoria, nella gran parte dei licenziamenti e soprattutto in quelli motivati da ragioni economiche. Sanare questo vulnus ingiustificato andrebbe indubbiamente nella direzione non solo della lotta alla precarietà ma anche in quella della ricomposizione del mondo del lavoro.
Alcune voci critiche sostengono che questo referendum sarebbe ormai inutile alla luce delle modifiche contenute nel «Decreto dignità» del Governo Conte, e soprattutto delle sentenze nel frattempo emanate dalla Consulta. Se ciò fosse vero che questi critici dovrebbero essere i primi a recarsi a votare per ottenere il ripristino dell’art. 18 anche per i nuovi assunti!
Il secondo quesito si rivolge in particolare ai numerosissimi lavoratori e lavoratrici delle piccole imprese, che godono soltanto di una modestissima tutela puramente indennitaria (da un minimo di tre a un massimo di sei mensilità), nel caso in cui il licenziamento venga dichiarato illegittimo dal giudice. Il quesito punta all’abrogazione del tetto massimo delle sei mensilità, lasciando così al giudice la possibilità di liquidare un risarcimento più congruo, anche in relazione alla dimensione economica del datore di lavoro.
Nel terzo quesito, si affronta più direttamente il tema della lotta alla precarietà, andando ad incidere sulla disciplina del contratto a termine, tipologia contrattuale mediante la quale ormai avviene la maggior parte delle assunzioni, anche nel caso in cui le esigenze di personale abbiano carattere strutturale. Per realizzare l’obiettivo di ricondurre il contratto a termine a reali esigenze di temporaneità, nel quesito si richiede la reintroduzione delle cosiddette «causali» (cioè esigenze di carattere necessariamente temporaneo regolate dalla contrattazione collettiva), e ciò sin dal primo contratto, mentre la disciplina attuale non pone vincoli nei primi 12 mesi.
Nel quarto quesito, infine, si affronta il delicatissimo tema degli appalti, con riguardo in particolare alla sicurezza dei lavoratori delle imprese appaltatrici. Come purtroppo si vede sempre più spesso nella continua catena di omicidi e vere e proprie stragi sul lavoro, la filiera di appalti e sub appalti senza controllo è uno dei principali fattori che consentono l’inosservanza delle norme in tema di prevenzione. Con la richiesta referendaria ci si propone di affermare la responsabilità, almeno patrimoniale, del committente per i danni non coperti dall’Inail (cosiddetto «danno differenziale»), anche nel caso in cui i danni stessi siano conseguenti a rischi specifici propri esclusivamente delle imprese appaltatrici. In tale materia sarebbe stato auspicabile un intervento più radicale. Purtroppo ciò non è stato possibile per ragioni tecniche legate al carattere meramente abrogativo dell’istituto referendario.
Per il quinto quesito, quello sulla cittadinanza, è stato necessario trovare, con un po’ di astuzia giuridica, una disposizione la cui eliminazione potesse avere un effetto espansivo della platea di chi aspira a diventare cittadino.
La legge 91/92 distingue nettamente i casi in cui la persona «è cittadina italiana» (ad es. la nascita da genitore italiano, il noto ius sanguinis) dai casi in cui la «cittadinanza può essere concessa»: nel primo caso sussiste un vero e proprio diritto a veder riconosciuta, dalla Pubblica Amministrazione e poi, se necessario, dal giudice, la propria condizione di cittadino; nel secondo chi la richiede deve superare un vaglio molto discrezionale relativo al grado di «integrazione» nella comunità nazionale, il cui esito, se negativo, difficilmente può essere censurato da un giudice.
Si è preso atto che l’art. 9, comma 1, lettera b) della legge 5 febbraio 1992, n. 91 prevede la facoltà di concedere la cittadinanza «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente sul territorio nazionale da almeno cinque anni successivamente alla adozione». Abrogando le parole «adottato da cittadino italiano» e quelle «successivamente alla adozione» (ed è questo che il referendum intende ottenere) si ottiene appunto, con un’operazione di ritaglio, una sorta di nuova norma in base alla quale la cittadinanza potrà essere concessa a tutti gli stranieri maggiorenni che abbiano soggiornato in Italia da almeno cinque anni e non più da dieci: allo straniero che risiede legalmente sul territorio nazionale da almeno 10 anni «può essere concessa» la cittadinanza.
Si è visto, altresì, che era poi necessario abrogare anche la norma che faceva espresso riferimento ai 10 anni ed è per questo che il quesito referendario è duplice e contiene anche il riferimento alla lettera f) del comma 1.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 7.2.2025 n. 11 ha affermato che il quesito è sufficientemente chiaro, che la vittoria dei «SI» non creerebbe alcun vuoto normativo e determinerebbe una modifica della disciplina vigente del tutto coerente con gli obiettivi che i promotori si proponevano.
Ha, altresì, ricordato che la concessione della cittadinanza decorsi cinque anni di residenza resterebbe comunque, all’esito del referendum, un «atto squisitamente discrezionale di alta amministrazione» e dunque l’acquisizione resterà soggetta, come oggi, alla valutazione del ministero dell’Interno sul grado di integrazione del richiedente (conoscenza della lingua, reddito adeguato, assenza di precedenti, ecc.).
Ci si augura che elettrici ed elettori non perdano la straordinaria opportunità offerta loro da questi cinque referendum in difesa del lavoro e della cittadinanza e si rechino in massa alle urne, invertendo così la pericolosa tendenza ad un sempre maggiore astensionismo che ha connotato le ultime consultazioni non soltanto referendarie.
Il quorum del 50% è un obiettivo ambizioso, ma può essere raggiunto con il convinto impegno e la necessaria determinazione di tutti coloro che hanno a cuore la tenuta del nostro sistema democratico.
Francesco Sannicandro