Fare e disfare la realtà: la sanità

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Vi è l’urgente bisogno di un intervento finanziario strutturale che aumenti la percentuale delle finanze pubbliche destinata alla sanità ed eviti l’illogica proposta che fa ora il governo di aumentare la spesa per la «difesa» propagandata come necessità per la futura aggressione che la Russia farebbe contro paesi europei, tra cui l’Italia.
Una illazione senza alcuna base, ma che il complesso militare-industriale italiano spinge perché già vede ancora più lauti guadagni. Da cittadini pensanti diciamo: no a questo spostamento verso le armi; sì all’aumento necessario per assicurare un Ssn che assicuri ai cittadini il diritto alla salute.
Il paradosso del Pnrr è che l’Italia ha accumulato altro debito per costruire nuove strutture sanitarie e installare nuovi impianti e macchinari… a medici invariati.
La carenza di specialisti, ad esempio, è dovuta al demenziale metodo, tutto italiano, della formazione specialistica: in tutta la Ue i medici si specializzano lavorando in ospedale, come del resto succedeva prima del 1990 anche da noi. Il numero degli specializzandi è rimasto costante anche se si sapeva (si doveva sapere) che ci sarebbe stata un’impennata di pensionamenti.
Altro, ma più importante aspetto è che la riforma del 1978 è stata fatta in tempi in cui la medicina era ancora priva delle tecnologie apparse dopo qualche anno (ecografia, Tac, Rmn ecc.) che hanno rivoluzionato l’organizzazione del lavoro medico, ma di cui i governi non si sono accorti.

 

Francesco Sannicandro

Le professioni della sostenibilità, quali sono e come cambiano

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(Adnkronos) – Negli ultimi anni, la sostenibilità non è rimasta soltanto un concetto astratto, ma è diventata un pilastro fondamentale delle pratiche aziendali, trasformandosi da mero optional a vantaggio competitivo. Questo nuovo paradigma richiede una comunicazione efficace per diffondere i valori della responsabilità sociale d’impresa e creare un impatto tangibile. Grazie alla ricerca condotta dal Centro di ricerca per la comunicazione strategica (Cecoms) dell’Università Iulm, pubblicata dall’International Corporate Communication Hub, emergono scenari chiari sulle professioni del futuro legate alla sostenibilità e alla comunicazione.

La comunicazione, vera e propria arte di connessione, si erge come il ponte vitale tra le imprese e coloro che ne sono interessati, gli stakeholders. Non solo contribuisce a definire e divulgare gli imperativi della sostenibilità aziendale, ma plasma anche l’opinione pubblica sull’azienda stessa. Attraverso un’analisi puntuale, condotta su circa 1.000 offerte di lavoro pubblicate su LinkedIn nell’arco di un anno, dal settembre 2022 al settembre 2023, è stata scalfita la superficie del mercato lavorativo, selezionando offerte mirate con termini chiave legati alla sostenibilità.

Questo studio ha gettato luce su un vasto spettro di 36 settori industriali, rivelando che le aziende sono in fervida ricerca di figure professionali legate alla sostenibilità come manager ambientali, csr manager, esperti di reporting e vendite nel settore delle tecnologie eco-sostenibili. Ma non finisce qui: nel campo della comunicazione, la domanda si concentra su ruoli come i comunicatori per gli stakeholders, gli esperti ESG, i pianificatori strategici e gli analisti di reportistica. I risultati di questa ricerca non solo disvelano le competenze più richieste, ma fungono anche da fondamento per sviluppare strategie formative su misura.

Questi dati sono inoltre il pilastro su cui costruire linee guida per la gestione delle risorse umane all’interno delle aziende, garantendo la creazione di programmi di sviluppo delle competenze aderenti alle esigenze emergenti del mercato del lavoro in ambito sostenibilità. Le testimonianze di esperti del settore, intervenuti alla presentazione della ricerca, confermano l’importanza crescente della sostenibilità nel contesto aziendale. Pierangelo Fabiano, segretario generale Icch, sottolinea come la sostenibilità sia diventata un asset essenziale per tutte le aziende, influenzando sia le professioni legate direttamente alla sostenibilità che quelle della comunicazione: «La ricerca mette in luce quanto le aziende siano sempre più interessate ad aggiungere al proprio core business nuove professioni legate alla sostenibilità e quelle impegnate nella comunicazione della sostenibilità. Due dimensioni che oggi si intrecciano e si completano e non si possono scindere tra loro».

Simone Bemporad, Generali group chief communications and public affairs officer, sottolinea l’importanza cruciale delle metriche ESG (Environmental, Social, Governance) nel contesto della sostenibilità aziendale sulle quali le società sono chiamate ad agire. Inoltre, Bemporad evidenzia il fatto che le professioni legate alla sostenibilità coinvolgono ormai tutti i settori lavorativi, richiedendo una trasformazione dei ruoli e delle competenze per adattarsi a questa nuova realtà. E conclude: «Il grande cambiamento da attuare è quello, prima di definire un servizio o un prodotto, di domandarci: come andiamo a valutare il suo impatto sulla sfera E, quella S e poi G?».

Patrizia Rutigliano, strategist in ESG e corporate affairs per Poste Italiane e membro indipendente del consiglio di amministrazione di Acea, evidenzia l’evoluzione della sostenibilità da una mera questione di costi a una fonte di generazione di ricavi. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di vent’anni, è stato influenzato da significative evoluzioni normative a livello globale, come il Green Deal e l’Inflation Reduction Act. Rutigliano prospetta una trasformazione manageriale senza precedenti nell’ambito dell’energy transition e della digital decade. «In fin dei conti — conclude — per riuscire ad avere una reportistica compliant con tutto quello che ci viene richiesto, dobbiamo cambiare completamente il nostro modo di lavorare. Questa, credo, sia la più grande rivoluzione che probabilmente affronteremo in questi anni».

Nel panorama delle professioni legate alla sostenibilità «spiccano i manager ambientali, ingegneri che efficienteranno i processi produttivi e il Csr manager, che si occupa di raccontare l’impegno etico delle aziende, del loro impatto, di come stanno impegnando ad avere un impatto positivo sulla società» precisa Elanor Colleoni, ricercatrice presso l’Università IULM, evidenziando, inoltre, una crescente domanda di lavoro in questo settore e l’emergere di profili chiave come i consulenti aziendali esterni.

Allo stesso modo, Gloria Zavatta, membro del Consiglio di Amministrazione di Amat e presidente della Fondazione Cesvi, sottolinea l’importanza di una strategia interna alla Fondazione, basata su un approccio improntato alla sostenibilità in tutte le sue attività, interazioni e relazioni con le comunità locali coinvolte nei progetti: «Cesvi supporta la volontà dell’impresa di agire in varie parti del mondo e cerca di realizzare queste progettualità in sintonia con gli obiettivi stessi delle imprese». In un mondo sempre più orientato verso la sostenibilità, la trasformazione dei ruoli e delle competenze diventa una necessità imprescindibile per rimanere competitivi e per garantire un futuro sostenibile per le generazioni a venire. —sostenibilita/csrwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: Dossieropoli

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All’interno di un’antica tradizione mi sembra si inserisca il bizzarro caso di questi giorni. Si tratta davvero di una singolare «Dossieropoli», in cui tutti i protagonisti, per prima cosa, si affrettano a precisare di non avere mai parlato di «dossieraggi». Solo per stare alle incomprensibili notizie di oggi, la stampa dà conto da un lato della decisione di Giorgia Meloni di bloccare la proposta di una commissione d’inchiesta (appena avanzata dai suoi ministri della Giustizia e della Difesa, cioè quello stesso Guido Crosetto che dei non-dossier sarebbe la prima vittima, e dalla cui denuncia sembrerebbe essere partito tutto), dall’altro di un inatteso comunicato del procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, il quale annuncia di avere «attivato le proprie funzioni di sorveglianza», sottolineando che «l’attività di vigilanza sui rapporti con gli organi di informazione dei procuratori del distretto» gli impone di «verificare il corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione di innocenza».
Nel frattempo, come tutti i giornali riportano in qualche pagina interna, molto in fondo, la sentenza sul famigerato caso Consip che aveva fatto tremare il governo guidato da Matteo Renzi, con le indagini sul padre Tiziano e sul braccio destro Luca Lotti, si conclude con solo due condanne, non agli indagati, ma agli indagatori. Cioè agli ufficiali accusati di avere rivelato ripetutamente ad alcuni giornalisti atti coperti da segreto investigativo (che peraltro sarebbe l’aspetto di gran lunga meno grave di quanto emerso nel modo di gestire le indagini e soprattutto le intercettazioni, i cui verbali erano stati significativamente manipolati).
Se arrivati a questo punto sentite di esservi persi, e avete solo la sgradevole impressione di essere le vittime collaterali di una interminabile guerra per bande tra diverse correnti della politica, del giornalismo, della magistratura e dei servizi, direi che avete colto il punto essenziale. Ma nemmeno questa, purtroppo, è una novità.

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: fonti e informazione

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Il diritto alla riservatezza delle persone che forniscono informazioni ai cronisti è previsto dalla deontologia del giornalista, ma lo prevede la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), come estensione dell’articolo 10 della convenzione europea. Quest’articolo assicura la libertà di espressione, compresa quella di stampa. Con una sentenza del 2020, la Cedu ha rafforzato questa libertà, includendo la protezione del giornalista in ogni fase della sua attività e tuteli l’esercizio della sua funzione di guardiano del potere.
Tra questi strumenti c’è anche la tutela della segretezza delle fonti, che svelano fatti al giornalista con la garanzia dell’anonimato.
Nessuno può obbligare un giornalista a rivelare la fonte della sua notizia, anche nel caso possa essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato. Senza la protezione della segretezza delle fonti, sarebbero loro per prime a non comunicare più notizie di interesse generale: la conseguenza è che l’opinione pubblica sarebbe privata del diritto a ricevere informazioni utili all’esercizio delle proprie scelte politiche.
Il caso da cui nasce l’inchiesta di Perugia mette a dura prova la libertà di stampa. C’è un ministro che non denuncia per diffamazione dei cronisti, ma chiede a dei magistrati di indagare sulle loro fonti perché le informazioni che hanno rivelato (vere, verificate e non smentibili) potrebbero essere state fornite accedendo a dei dati riservati.
Va detto che anche la federazione dei giornalisti europei ha «richiamato» il governo italiano «a rispettare la rule of law e gli standard legali europei per la protezione delle fonti giornalistiche».

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: Gaza

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Il presidente americano ha dedicato alla guerra contro Hamas la chiusura del discorso sullo stato dell’Unione, dichiarandosi il miglior amico che lo stato ebraico abbia mai avuto, ma anche preoccupato per le condizioni dei civili palestinesi. Per loro presto un porto temporaneo sulla costa di Gaza per consentire la consegna di aiuti umanitari su larga scala. L’urgenza secondo la Casa Bianca è data dal fatto che l’attuale mancanza di cibo e farmaci sta mettendo in pericolo 2,3 milioni di palestinesi sul territorio. Il programma di consegna via mare dovrebbe essere realizzato in alcune settimane, ma sono in molti a chiedersi se questo sistema consentirà aiuti sufficienti a tamponare la fame e il rischio epidemico e soprattutto se la popolazione allo stremo potrà resistere mentre si realizza questa struttura.

Da parte degli attivisti e degli esperti umanitari si plaude alla decisione considerata un passo nella giusta direzione, ma intravedono un segnale di debolezza da parte degli Stati Uniti. La maggioranza delle Ong impegnate nel conflitto ha espresso infatti tramite comunicati stampa l’opinione che sarebbe stato preferibile aiutare Gaza facendo pressioni molto più forti sul governo di Benjamin Netanyahu affinché aprisse altri varchi al confine per consentire al trasporto su gomma di aumentare la capacità di affrontare l’emergenza umanitaria.

 

Francesco Sannicandro

“Il riciclo della plastica è una truffa”, la denuncia del Center for Climate Integrity

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(Adnkronos) – E se il riciclo della plastica fosse uno specchietto per le allodole? Questa è la tesi dell’associazione statunitense Center for Climate Integrity, secondo cui questa pratica, fondamentale nell’ambito della transizione, sarebbe una “frode”.  L’indagine si riferisce agli Usa e molti osservatori sono critici sulle conclusioni del Center for Climate Integrity.  “Alla base della crisi dei rifiuti di plastica – afferma Cci – c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”. In effetti, negli Stati Uniti il tasso di riciclaggio della plastica era appena il 5%-6% nel 2021.  Secondo Icc, il problema è stato nascosto inducendo in errore i consumatori. La confusione deriverebbe da diversi fattori, in primis i simboli di riciclo utilizzati sui prodotti in plastica. La Society of the Plastics Industry (Spi) ha introdotto i Codici di Identificazione delle Resine nel 1988, i famosi numeri all’interno di un triangolo e con le frecce, un simbolo ampiamente riconosciuto come indicativo della riciclabilità. Tuttavia, questi simboli hanno fuorviato i consumatori, facendo credere che i contenitori in plastica siano composti di materiale riciclato o che siano riciclabili, il che non è sempre vero. Il sistema Ric era stato concepito per semplificare la separazione delle fonti etichettando i contenitori con la loro composizione materiale. Tuttavia, la tendenza a realizzare contenitori con diversi materiali ha reso poco pratiche queste indicazioni. Cci denuncia che la National Recycling Coalition, la no profit statunitense che si occupa di riciclo, ha cercato di affrontare la mancanza di chiarezza nei codici ma ha scoperto che la Society of the Plastics Industry non era interessata a intervenire.
Ma per gli autori del report l’inganno dei consumatori va ben oltre le etichette. Vi sarebbe, infatti, una incomprensione di fondo: a differenza di quanto comunicato, la maggior parte delle plastiche è difficile da riciclare a causa della loro struttura molecolare, che si degrada durante la fabbricazione iniziale, l’invecchiamento e qualsiasi processo di recupero. Una degradazione che porta la plastica riciclata a costare di più nonostante la minore qualità rispetto alla resini vergini. Tutto ciò si traduce in una mancanza d’interesse da parte dei produttori nell’acquisto di resine riciclate, il che giustificherebbe il bassissimo tasso di riciclo in Usa. Nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha concluso che “sembra che attualmente solo due tipi possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il Pet e l’Hdpe”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie. “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, afferma il report. Per gli autori, “le pubblicità del settore, sponsorizzate da singole aziende petrolchimiche o da gruppi di facciata, hanno normalizzato l’idea che la plastica possa essere riciclata tra i consumatori e i politici. Molti di questi annunci confondono in modo fuorviante il successo iniziale e limitato del riciclaggio di Pet e Hdpe con il riciclaggio della plastica in generale”. La confusione dei consumatori sul riciclo della plastica sarebbe stata alimentata dalla promozione dell’incenerimento e della discarica come soluzioni iniziali dall’industria, seguite dal tentativo di spostare l’attenzione sul riciclo come risposta alle preoccupazioni del pubblico e alla pressione regolamentare. Volendo ordinare le cause che, secondo l’associazione, rendono inefficace il sistema di riciclaggio della plastica: – Inganno dei consumatori; – difficoltà nel riciclare le plastiche per: la loro struttura molecolare, l’utilizzo di più materiali insieme, della mancanza di un mercato per le plastiche riciclate; – il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine; – la degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e l’aggiunta di additivi che ne limitano la riciclabilità. Che il riciclo di plastica sia più complesso di quanto sembri era stato già dimostrato da Lego. Nel giugno 2021 l’azienda danese, leader mondiale nella produzione di giocattoli, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini colorati usando la plastica delle bottiglie. Da quel momento, Lego ha investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca puntando sul Pet (polietilentereftalato) riciclato anche noto come Rpet (Recycled Pet). Fino alla triste constatazione: non esiste “un materiale magico” che dia le prestazioni sperate, come ha dichiarato Christiansen al Financial Times. Il Pet avrebbe dovuto sostituire l’attuale materiale utilizzato per la produzione dei mattoncini, ovvero l’Abs (acrilonitrile butadiene stirene), che è a base di petrolio. Dopo anni di studi, Lego ha rinunciato a usare la plastica riciclata perché Il Pet riciclato si è dimostrato meno efficace dell’Abs sia sotto il profilo della performance tecnica, sia (a sorpresa) sotto il profilo delle emissioni. “È come cercare di fare una bici di legno anziché di acciaio”, ha dichiarato il capo del dipartimento che si occupa di sostenibilità ambientale Tim Brooks.  Non solo: è anche emerso che il Pet riciclato avesse una resistenza peggiore di quello “originale” comportando seri rischi di economia circolare, in contrasto con l’Sdg 12 dell’Agenda delle Nazioni Unite che incentiva la lunga vita e il riutilizzo dei beni per ridurre i rifiuti.  A fare chiarezza sulla diffusione del riciclo di plastica è intervenuta l’Ocse con un report del 2022. Da una parte si attesta che negli ultimi 30 anni il consumo di plastica è quadruplicato, dall’altra che la produzione di plastiche riciclate, dette anche secondarie, è più che quadruplicato. Nonostante il riciclo sia aumentato a un ritmo più veloce della nuova produzione, nel 2019 rappresentava appena il 6% della produzione totale di plastica.  Restringendo l’indagine, dal 2000 al 2019 la produzione di plastica è più che raddoppiata ma solo il 9% viene riciclato con successo, registra l’Ocse che denuncia: “Mentre l’aumento della popolazione e dei redditi determina una crescita inarrestabile della quantità di plastica utilizzata e gettata via, le politiche per frenare la sua dispersione nell’ambiente sono insufficienti”. Secondo un recente studio del Jrc (Joint Research Centre) della Commissione europea, in Ue viene riciclato meno di un quinto della plastica , il 16,6% di tutta la plastica utilizzata nel territorio comunitario. Un altro dato del rapporto indica con chiarezza dove intervenire per invertire un trend disallineato con il piano e l’impegno green dell’Unione: il 70% del totale dei rifiuti in plastica inviati al riciclo proviene dal settore degli imballaggi. Una concentrazione che ha portato l’Unione a intervenire in maniera specifica con il regolamento imballaggi, ampiamente criticato dalla politica italiana. A incidere negativamente sul tasso di riciclo europeo è l’esportazione dei rifiuti all’estero, dove non si ha alcuna garanzia sul destino della plastica: “Una così piccola percentuale di riciclaggio di plastica in Europa implica grosse perdite sia per l’economia che per l’ambiente. – spiega lo stesso Parlamento Ue in un dossier – Si stima che il 95% del valore dei materiali per imballaggio di plastica si perda nell’economia dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve”.  In Europa il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica è la termovalorizzazione, seguita solo al secondo posto dal riciclaggio. Il 25% circa dei rifiuti in plastica generati viene smaltito in discarica, mentre metà della plastica raccolta per il riciclaggio viene esportata al di fuori dei confini europei.  È ancora il Parlamento europeo a spiegare perché l’Ue esporti plastica all’estero: mancanza di strutture, di tecnologia e di risorse finanziarie adeguate a trattare localmente i rifiuti. Una situazione che, nel 2020, ha portato le esportazioni di rifiuti europei verso Paesi terzi a quota 32,7 milioni di tonnellate. La maggior parte dei rifiuti è costituita da rottami di metalli ferrosi e non ferrosi, nonché da rifiuti di carta, plastica, tessili e vetro e va principalmente in Turchia, India ed Egitto. In passato una fetta significativa dei rifiuti di plastica esportati veniva spedita in Cina, ma è probabile che il blocco all’importazione dei rifiuti di plastica imposto dal governo di Xi Jinping contribuisca a un ulteriore diminuzione delle esportazioni. Il che non è detto che sia un bene: in assenza di strutture e investimenti ad hoc, il rischio è che aumentino l’incenerimento e la messa in discarica dei rifiuti di plastica in Europa, come spiega il Parlamento europeo. —sostenibilita/rifiutiwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

La parità di genere fa crescere un Paese

Tempo di lettura: 5 minuti ֎Nel campo dell’istruzione, dove le donne superano gli uomini da anni, la mancanza di donne nelle discipline Stem (Scienza Tecnologia Ingegneria Matematica) è diventata critica. Oggi in Europa solo il […]

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La Norvegia ha dato l’ok a smaltire i rifiuti minerari nei fiordi

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(Adnkronos) – Persino la Norvegia, a lungo baluardo della sostenibilità ambientale, mostra il fianco a ciò che sostenibile non è. Dopo una controversia legale durata 15 anni, infatti, il tribunale ha autorizzato la società Nordic Mining a smaltire 170 milioni di tonnellate di rifiuti minerari nel fiordo di Førde, nel sud-ovest norvegese. Questa decisione ha suscitato molte critiche e preoccupazioni per l’impatto che potrebbe avere sulla biodiversità e sulla qualità dell’acqua del fiordo. Da baluardo a triste esempio dato che la Norvegia è anche il primo Paese al mondo ad autorizzare l’estrazione dei minerali dai fondali marini, una pratica considerata altamente dannosa per l’ambiente. Sull’altro piatto della bilancia proprio la transizione energetica, dato che l’estrazione serve ad ottenere litio, scandio e cobalto, minerali preziosi per diffondere l’energia elettrica, a discapito dei carbon fossili. Un equilibrio, dunque, molto difficile da trovare, dato che l’estrazione mineraria potrebbe comportare la distruzione di gran parte dei fondali su cui viene fatta. Tornando allo smaltimento dei rifiuti delle estrazioni nei fiordi, questa ipotesi era stata fortemente contrastata dalle due organizzazioni ambientaliste Naturvernforbund e Natur og Ungdom. Al termine della causa, che hanno perso, i due enti sono stati condannate a pagare spese legali per un totale di circa 130mila euro. Ci sarebbe anche la possibilità di ricorrere in appello, ma sia Naturvernforbund che Natur og Ungdom affermano di avere pochi soldi per continuare la causa, specie dopo la condanna a questa ingente spesa legale. Oltre la Norvegia ci sono solo altri due paesi che concedono ancora nuove licenze per lo smaltimento dei rifiuti in mare: sono la Papua Nuova Guinea e la Turchia.
La società Nordic Mining estrarrà granato, un minerale utilizzato come abrasivo, e rutilo, un minerale composto da biossido di titanio, utilizzato in vernici, cosmetici e impianti medici. George Huse, dell’Istituto norvegese di ricerca marina, ha sottolineato che il fiordo di Førde è un importante sito di riproduzione per il merluzzo, oltre che una rotta di migrazione per i salmoni attraverso quattro fiumi. Secondo lo scienziato, c’è il rischio che microparticelle finiscano disperse su una più ampia superficie di mare. Che la pratica di scaricare i rifiuti minerari non sia sostenibile, ma dannosa per l’ambiente non viene nascosto dagli esponenti politici. Un portavoce del governo norvegese ha dichiarato che esiste la consapevolezza che si tratta di una pratica dannosa per l’ambiente, ma che “al momento non esistono alternative per lo stoccaggio di tali rifiuti”. I rappresentanti politici norvegesi hanno espresso opinioni diverse sulle emissioni delle estrazioni dei minerali nel fiordo. Alcuni hanno sostenuto il progetto della società mineraria Nordic Mining, una zona di grande valore naturalistico e patrimonio dell’Unesco. Altri hanno criticato la decisione del governo di approvare il progetto, sostenendo che violi la Costituzione norvegese, che garantisce il diritto a un ambiente sano, e l’accordo di Parigi sul clima, che richiede la riduzione delle emissioni inquinanti.  La decisione di consentire lo scarico dei rifiuti minerari nei fiordi appare in contrasto con la vocazione ecologica della Norvegia, che rischia di compromettere il suo patrimonio naturale e la sua reputazione internazionale nel campo. La Norvegia, infatti, è un Paese che ha fatto della sostenibilità ambientale uno dei suoi punti di forza: – è leader mondiale per ricchezza pro capite e al secondo posto per capacità di gestire la propria ricchezza in modo sostenibile; – ha ottenuto la certificazione di “destinazione turistica sostenibile” per diverse località, che offrono ai visitatori esperienze a basso impatto ambientale e a favore delle comunità locali; – ha anche sviluppato progetti innovativi per il monitoraggio e la protezione dell’ambiente, come il progetto SENSIBILE, che prevede l’uso di sensori biodegradabili per il controllo dei parametri ambientali negli edifici. Alcuni norvegesi, contrari all’ipotesi di far scaricare i rifiuti minerari nei fiordi,hanno proposto di limitare la circolazione navale nei fiordi solo alle navi elettriche, per ridurre l’impatto ambientale del trasporto dei minerali. Il dibattito è ancora aperto e coinvolge vari settori della società norvegese. In tal senso va Sea Zero, una nave ecologica a consumi ridotti e zero emissioni lanciato dalla compagnia di navigazione norvegese Hurtigruten. Il progetto, annunciato la scorsa estate, prevede un’alimentazione elettrica tramite pacchi di batterie da 60 MW/ora ricaricabili durante le soste nei porti. La caratteristica principale sono le tre vele retrattili con pannelli solari integrati, ricoperti da 1.500 metri quadri di celle fotovoltaiche. Con 500 posti disponibili, Hurtigruten annuncia che Sea Zero sarà pronta a salpare nel 2030.  Sea Zero si intreccia con un altro filone stimolante: come l’Intelligenza Artificiale può aiutare il progresso sostenibile. Le manovre del natante, infatti, saranno coadiuvate da un assistente virtuale animato da intelligenza artificiale. “L’IA può raccogliere un’enorme quantità di dati per apprendere qual è il modo più efficiente e sicuro per andare e tornare dal porto. Sarà un utile aiuto per i navigatori e può migliorare il modo in cui le navi attraccano in caso di maltempo e ridurre il numero di cancellazioni”, spiega l’azienda in una nota stampa. Un altro aspetto costruttivo di questo esempio norvegese è intendere la sostenibilità non solo come transizione energetica, ma anche come approccio mentale e produttivo. Per questo Sea Zero verrà dotata di lubrificazione ad aria sotto la chiglia e il rivestimento dello scafo sarà in materiali ultramoderni con pulizia proattiva, per ridurre la resistenza in acqua. Tutti elementi che consentiranno di “usare meno energia, che è un punto chiave del progetto”, come ha spiegato afferma il project manager Trond Johnsen dell’istituto di ricerca Sintef, sezione ‘Ocean’.  In un Paese isolare come la Norvegia, la sostenibilità passa soprattutto dalla salute del mare. Sullo stato delle acque, incide pesantemente l’attività delle navi da crociera che ogni giorno inquinano 20 volte di più di tutte le auto che ogni anno circolano sulle strade dell’Unione (dati Transport&Environment).  Per questo, l’ok allo scarico di rifiuti minerari nei fiordi ha sollevato dubbi e polemiche.  —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Coldiretti: “Da invasione specie aliene danni per 1 mld di euro a campi e vivai”

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(Adnkronos) – L’invasione di insetti e organismi alieni portati nelle campagne, nei boschi e nei vivai italiani dai cambiamenti climatici e dalla globalizzazione degli scambi, favoriti dagli scarsi controlli alle frontiere Ue, ha causato danni per oltre un miliardo con gravissimi effetti sul piano ambientale, paesaggistico ed economico. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti diffusa a Myplant&Garden in occasione dell’incontro promosso assieme ad Assofloro. “Con il cambiamento climatico sotto accusa è il sistema di controllo dell’Unione Europea con frontiere colabrodo – denuncia il presidente dell’associazione, Ettore Prandini – che ha lasciato passare materiale vegetale infetto e parassiti vari. Una politica europea troppo permissiva che consente l’ingresso di prodotti agroalimentari e florovivaistici nell’Ue senza che siano applicate le cautele e le quarantene che devono invece superare i prodotti nazionali quando vengono esportati con estenuanti negoziati e dossier che durano anni”, conclude Prandini. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Stentano ancora gas serra, rifiuti speciali e consumo di suolo

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֎Bene le rinnovabili la raccolta differenziata e i controlli. Obiettivi ambientali europei e trend nazionali elaborati dal Sistema nazionale per la protezione ambientale. Il Rapporto Ambiente Snpa֎

Gli indicatori in sintesi

In Ue 20 milioni di bambini a rischio povertà

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Il nuovo Rapporto dell’Unicef

֎Si tratta di un aumento di quasi 1 milione di bambini dal 2019. Il rapporto rileva che più di 11 milioni di bambini e giovani nell’Ue soffrono di problematiche legate alla salute mentale. Gli adolescenti hanno maggiori probabilità di essere esposti a problematiche legate alla salute mentale, che colpiscono un quinto dei giovani tra i 15 e i 19 anni. Quasi 1 bambino su 20 è esposto a livelli elevati di inquinamento da pesticidi. 1 bambino su 8, a partire dai 12 anni, riceve regolarmente richieste online indesiderate a sfondo sessuale֎

La natura torna alla ribalta, l’ONU premia sette iniziative virtuose

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(Adnkronos) – Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) hanno riconosciuto sette progetti in Africa, America Latina, Mediterraneo e Asia sudorientale come esempi eccellenti di ripristino degli ecosistemi.  Questi progetti, ora designati come “World Restoration Flagships”, sono considerati modelli virtuosi nel contrastare il degrado ambientale, ricevendo il supporto tecnico e finanziario delle Nazioni Unite. I premi sono parte delle azioni del decennio delle Nazioni Unite per il ripristino degli ecosistemi, il cui obiettivo è quello di ripristinare un miliardo di ettari di territori degradati, una superficie più grande della Cina, e i progetti premiati contribuiranno significativamente a questo sforzo. Le sette iniziative selezionate contribuiranno al recupero di quasi 40 milioni di ettari di territorio e alla creazione di circa 500.000 posti di lavoro. Questi progetti includono: L’Iniziativa di ripristino delle foreste mediterranee, che coinvolge Libano, Marocco, Tunisia e Turchia, consiste in un nuovo approccio alla protezione e al recupero di questi habitat naturali ed ecosistemi vulnerabili e, dal 2017, ha consentito di ripristinare, nella regione, circa due milioni di ettari di foreste, con l’obiettivo di recuperare otto milioni di ettari e più entro il 2030. L’iniziativa “Living Indus” è stata approvata dal Parlamento pakistano sulla scia delle devastanti inondazioni del 2022, ascrivibili ai cambiamenti climatici. L’obiettivo è ripristinare 25 milioni di ettari di bacino fluviale entro il 2030, un’area pari al 30 percento della superficie del Pakistan, tramite 25 interventi ad alto impatto per responsabili politici, operatori e società civile. Si tratta di un modello di riforestazione comunitario in espansione che, negli ultimi vent’anni, ha dimostrato di essere una soluzione economicamente sostenibile, articolata in una serie di progetti di resilienza climatica volti a ripristinare e far crescere un totale di 30 milioni di alberi entro il 2030, lungo una fascia vegetativa di quasi 800 000 ettari in Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela. Scopo ultimo dell’iniziativa è proteggere e ripristinare una superficie forestale di un milione di ettari.  Nello Sri Lanka, le foreste di mangrovie sono ecosistemi costieri di immenso pregio, che prosperano al confine tra terra e mare, fungendo da importante ponte tra la biodiversità marina e terrestre. La sussistenza delle comunità costiere dello Sri Lanka dipende, in larga misura, dagli ecosistemi marini e costieri. Tuttavia, i cambiamenti climatici e le attività antropiche stanno minacciando questo ecosistema unico nel suo genere. Entro il 2030, è in programma il recupero di circa 10 000 ettari, il che si tradurrà in benefici per 5 000 famiglie e nella creazione di oltre 4 000 nuovi posti di lavoro. L’Iniziativa si occupa di ripristinare le foreste nei corridoi ecologici critici del Terai Arc Landscape (un complesso ecosistemico distribuito su 5,10 milioni di ettari di territorio transfrontaliero, a cavallo tra India e Nepal) attraverso la collaborazione con le comunità locali, che prestano servizi di cittadini scienziati, unità antibracconaggio comunitarie, guardie forestali e gruppi di mobilitazione sociale. Il ripristino di 66 800 ettari di foreste nepalesi, unitamente ad altre misure collaterali, ha concorso a migliorare la sussistenza di circa 500 000 famiglie in Nepal. Al tempo stesso, ha sostenuto la popolazione di tigri in una fascia di territorio condivisa tra India e Nepal, portandola a 1 174 esemplari, pari a più del doppio del numero di esemplari minimo raggiunto nel 2001, anno in cui è stato avviato il programma.  L’Iniziativa “Regreening Africa” si avvale di tecniche agroforestali collaudate, adattate, negli ultimi vent’anni, alle esigenze degli agricoltori che operano in vari contesti socioecologici, per ripristinare oltre 350 000 ettari di territorio in Etiopia, Ghana, Kenya, Mali, Niger, Ruanda, Senegal e Somalia. Si prevede che, entro il 2030, saranno ripristinati altri cinque milioni di ettari. Il “Forest Garden Program” comprende al proprio interno svariati progetti di “foreste giardino” in Camerun, Repubblica centrafricana, Ciad, Gambia, Kenya, Mali, Senegal, Uganda e Tanzania. L’iniziativa si prefigge lo scopo di passare dagli attuali 41 000 ettari di terreni ripristinati ai 229 000 ettari, entro il 2030, sostenendo molte altre persone, grazie alla creazione di 230 000 posti di lavoro. In un momento in cui la crisi climatica, la perdita di biodiversità e l’inquinamento minacciano il nostro pianeta, queste iniziative dimostrano che è possibile conciliare lo sviluppo economico con la tutela dell’ambiente. Il supporto dell’ONU e il riconoscimento di queste iniziative possono ispirare ulteriori sforzi per il ripristino degli ecosistemi in tutto il mondo. “La FAO è lieta di premiare queste sette meritevoli iniziative, a dimostrazione del fatto che è possibile offrire modelli virtuosi di ripristino degli ecosistemi su larga scala, affrontando, al tempo stesso, gli effetti della crisi climatica e della perdita di biodiversità- ha dichiarato il direttore generale della FAO, QU Dongyu-. Il ripristino degli ecosistemi terrestri e acquatici è una tappa fondamentale della trasformazione dei sistemi agroalimentari mondiali in sistemi più efficienti, inclusivi, resilienti e sostenibili. Si tratta di una soluzione lungimirante, che rientra nelle misure di lotta alla povertà, alla fame e alla malnutrizione, in un momento storico contrassegnato dalla crescita demografica e dal crescente bisogno di cibo e beni e servizi ecosistemici”.  “Per troppo tempo l’obiettivo della crescita economica è stato privilegiato a scapito dell’ambiente. Quello a cui assistiamo oggi, invece, è un impegno globale diffuso per riportare la natura alla ribalta,” ha affermato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP. “Queste iniziative sono la testimonianza che è possibile riconciliarsi con la natura, portare le comunità locali al centro delle attività di recupero e creare comunque nuovi posti di lavoro. In un mondo afflitto dalla triplice crisi planetaria dei cambiamenti climatici, della perdita di natura e biodiversità, e dell’inquinamento e dei rifiuti, ora è giunto il momento di mostrare tutta la nostra determinazione e accelerare le iniziative di ripristino”. —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Stessi strumenti per sismologia e fenomeni meteo-marini

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Tempo di lettura: 3 minuti ֎I violenti moti ondosi generati dai Medicanes e dalle tempeste comuni generano segnali sismici utili per lo studio e il monitoraggio dei fenomeni meteo-marini estremi֎

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Due milioni di persone (60% bambini) chiedono aiuto

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Le inondazioni in Congo

֎Le acque alluvionali hanno distrutto o danneggiato quasi 100.000 abitazioni, 1.325 scuole e 267 strutture sanitarie. Nel 2023 registrati più di 52.400 casi di colera e 462 decessi, che ne fanno una delle più grandi epidemie al mondo֎

Parigi triplica il prezzo della sosta per i Suv: fino a 18 euro all’ora

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(Adnkronos) – Parigi dichiara guerra ai Suv, tra i veicoli più inquinanti e ingombranti e pericolosi per la viabilità cittadina. Come stabilito con un referendum, da settembre parcheggiare un’auto di grandi dimensioni nella capitale francese costerà 18 euro all’ora in centro (dal 1° all’11° arrondissement) e 12 euro all’ora nel resto della città. Una sosta di sei ore con un Suv potrà arrivare a costare 225 euro, rispetto ai 75 euro delle altre auto. La posizione del governo locale è chiara: il Suv non è un mezzo di trasporto congruo per la città; chi non vorrà adattarsi alle esigenze climatiche e urbanistiche dovrà pagare questa sua scelta a suon di soste salate. “Qui non ci sono sentieri sterrati, né strade di montagna… I Suv sono assolutamente inutili a Parigi. Per di più sono pericolosi, ingombranti e utilizzano troppe risorse”, dice il vicesindaco David Belliard che è anche responsabile dei trasporti e aggiunge: “Il nostro obiettivo è inviare un messaggio molto forte alle case automobilistiche: non dovrebbero produrre questo tipo di auto, dovrebbero essere completamente vietate”. Uno scossone per le aziende dell'automotive, soprattutto se si considera che Europa (anche in Italia) i Suv rappresentano ormai oltre il 50% delle nuove immatricolazioni. Ad approvare la misura sono stati gli stessi cittadini parigini con il 54,55% dei voti favorevoli al referendum consultivo promosso dalla sindaca Anne Hidalgo per rendere Parigi più verde e accogliente per ciclisti e pedoni, anche in vista dei Giochi Olimpici di quest’anno. C’è da sottolineare, però, una bassissima affluenza alle urne: solo il 5,68% degli aventi diritto è andato a votare. Il risultato è comunque vincolante perché nei referendum municipali francesi non c’è un quorum costitutivo da rispettare. L’inquinamento prodotto dai Suv non è l’unica causa di questa misura, che mira anche a “punire” l’eccessivo spazio occupato da questi veicoli, che rende più difficile la viabilità per gli altri automobilisti e, in particolare, per chi va in bici. Si sottolinea, inoltre, come la prestanza motoristica e fisica dei Suv aumenti esponenzialmente il rischio di incidenti gravi, soprattutto in un contesto come quello urbano, poco scorrevole e molto imprevedibile. La scelta parigina ha fatto subito il giro del web e molti si stanno chiedendo quali Suv pagheranno di più la sosta a Parigi. Innanzitutto, bisogna evidenziare che il rincaro non riguarderà i residenti e una serie di categorie come i professionisti che parcheggiano nelle loro zone autorizzate, i tassisti che sostano nei posteggi dedicati, gli artigiani, le persone che lavorano nel settore sanitario e quelle con disabilità. Stanti questi requisiti territoriali e speciali, la tariffa differenziata si applicherà a tutte le auto con un peso superiore a 1,6 tonnellate, anche elettriche se pesano più di 2 tonnellate. Da quest’ultimo passaggio si evince come il provvedimento non miri solo a contrastare l’inquinamento ma anche l’occupazione degli spazi per le strade della città. Strade dove già da tempo è stato approvata la Zona 30, il limite di 30km/h per cui ha optato anche Bologna e che in Italia sta generando molte polemiche. In quasi tutto il territorio della capitale francese questo limite è stato introdotto già ad agosto 2021. Secondo le stime del vicesindaco Belliard, circa il 10% dei veicoli a Parigi sarà colpito dalle tariffe di parcheggio più elevate, che potrebbero fruttare alla città fino a 35 milioni di euro ogni anno. Stime più alte da parte di AAA Data, azienda specializzata in analisi dei dati del settore automobilistico, secondo cui le automobili che dovranno pagare una tassa più elevata nella capitale francese saranno circa 130mila, il 15% del totale. La misura approvata con il referendum di domenica 4 febbraio si inserisce in una strategia più ampia di sostenibilità ambientale, che prevede anche la riduzione del traffico, la creazione di piste ciclabili, la pedonalizzazione di alcune aree e la promozione dei mezzi pubblici. Da quando ne è diventata prima cittadina (2014), Anne Hidalgo è intervenuta con decisione per rendere Parigi una città più vivibile e meno inquinata, seguendo l’esempio di altre metropoli europee come Londra, Amsterdam e Stoccolma, che ha vietato le auto a motore termico nel centro della città già dal 2025. Sotto Anne Hidalgo, Parigi ha aumentato la pressione sugli automobilisti, facendo lievitare i costi dei parcheggi, vietando gradualmente i veicoli diesel e togliendo spazio alle macchine in favore della rete di piste ciclabili nella congestionata capitale.  Finora la sindaco Hidalgo ha creato 1.000 km di piste ciclabili, di cui 1/3 (350km) protette. Una politica coerente con le esigenze dell’ambiente e l’indirizzo europeo, dove la Commissione ha recentemente presentato la Dichiarazione europea sull’uso della bicicletta.  Hidalgo ha anche creato un’ampia zona a basse emissioni, in espansione, per escludere le auto più vecchie. 
I risultati? Eloquenti:
 – C’è stato un aumento del 71% nell’uso delle biciclette tra la fine delle restrizioni Covid e la fine dell’anno scorso, ha annunciato il municipio. Come testimoniano le colonnine che contano i passaggi delle vetture, durante le ore di punta mattutine e serali, sulle principali arterie parigine ora le biciclette sono quasi il doppio delle automobili. L’uso della bicicletta rispetto agli anni ’90 è aumentato di circa il 1.000%! – Il traffico automobilistico nella capitale è diminuito di circa il 45% dall’inizio degli anni ’90, mentre l’uso dei trasporti pubblici è aumentato del 30%.  L’operato di Anne Hidalgo dimostra con i fatti che il cambiamento è possibile, anche nelle grandi città.  “I parigini hanno fatto una scelta chiara… altre città seguiranno”, ha dichiarato fiduciosa la sindaca. In effetti, anche a Lione e a Grenoble le autorità hanno annunciato tariffe di parcheggio più elevate in base al peso del veicolo a partire dall’anno prossimo. “Si tratta – spiega Hidalgo – anche di una misura di giustizia sociale”, dato che le fasce più deboli della popolazione, spesso abitano nei pressi delle strade più trafficate. Come spesso accade, quindi, la sostenibilità ambientale abbraccia e sostiene quella sociale.  Ovviamente, la misura non piace a tutti. Alcuni la ritengono giusta e necessaria per migliorare la qualità dell’aria e della vita, altri la considerano ingiusta e discriminatoria, e accusano la prima cittadina di voler penalizzare ideologicamente i più ricchi. Il gruppo di pressione “40 milioni di automobilisti” ha lanciato una petizione per opporsi alla misura e ha promesso battaglia legale Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, ha commentato che “se la Francia non vuole i Suv, va bene. Venderò loro berline e manderò i Suv agli altri mercati”.  L’impressione è che l’avversione per queste misure potrà ben poco. A partire dalla primavera di quest’anno è in arrivo una zona a traffico limitato che, con alcune eccezioni, vieterà tutto il traffico auto nella maggior parte dei distretti centrali della città. Che piaccia o no. —sostenibilita/mobilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Nuova vita a scarti e rifiuti, nasce Cap Evolution

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(Adnkronos) – Nasce Cap Evolution, la nuova realtà di Gruppo Cap che opera nei settori del Waste, Wastewater ed Energy. La nuova azienda, guidata dal presidente Nicola Tufo e dal direttore generale Michele Falcone, per il 2024 prevede ricavi pari a 77 milioni di euro, di cui 1,3 milioni derivanti dal trattamento di rifiuti liquidi e 3,8 milioni di euro da energia e biogas.  “Crediamo che oggi sia sempre più imperativo gestire le risorse in modo circolare e virtuoso, prestando grande attenzione all’impatto che ogni attività ha sul territorio e sulla società – spiega Alessandro Russo, amministratore delegato di Gruppo Cap – Operiamo in un settore, quello dell’idrico, che tocca anche altri ambiti, come quello degli scarti dell’industria alimentare, che ci ha portato, nel corso del tempo, ad avvicinarci a quello dei rifiuti, attraverso un processo virtuoso basato sui principi dell’economia circolare. Da tempo abbiamo iniziato a differenziare sempre di più la nostra attività, cominciando a produrre biometano sfruttando la grande capacità energetica dei fanghi di depurazione, considerandoli quindi materia prima e non più scarto. Oggi arriviamo a Cap Evolution, che intende dare nuova vita a scarti e rifiuti per ottenere materie prime seconde, biogas, biometano ed elettricità”.
Cap Evolution gestisce i 40 impianti di depurazione del Gruppo, vere e proprie bioraffinerie che, oltre a occuparsi del trattamento delle acque reflue, in molti casi possono essere utilizzati per la valorizzazione degli scarti. Dai fanghi, in particolare, si possono ottenere anche materiali come fertilizzanti, bioplastiche, cellulosa, minerali e biometano. Inoltre, in tre poli impiantistici, a Canegrate, Robecco sul Naviglio e San Giuliano, sono stati avviati processi dedicati alla gestione e al recupero dei rifiuti alimentari liquidi, con un piano che prevede di passare dalle attuali circa 30mila tonnellate a 200mila tonnellate autorizzate nel 2028 e l’avviamento al trattamento dei rifiuti liquidi all’impianto di Rozzano di oltre 107mila tonnellate.  Ogni anno, negli impianti gestiti da Cap Evolution vengono trattati 350 milioni di metri cubi di acque reflue, di cui più di un terzo (34%) viene riutilizzato, e oltre 80mila tonnellate all’anno di fanghi di depurazione, dei quali circa 40mila vengono reimpiegati in agricoltura, altri 14mila come fertilizzanti e 30mila vengono termovalorizzati per produrre energia. L’obiettivo è quello di arrivare a termovalorizzare fino a 65mila tonnellate e trasformarne 20mila in fertilizzanti.
Cap Evolution gestisce anche gli impianti fotovoltaici che forniscono agli asset di Gruppo Cap energia da fonti rinnovabili. Grazie alla produzione derivante da fotovoltaico (ma anche agrivoltaico) e a una maggiore integrazione con Neutalia, l’impianto di termovalorizzazione di Busto Arsizio partecipato da Cap, il piano industriale di Cap Evolution prevede di arrivare a sostenere il 50% dei consumi del Gruppo entro il 2030, con una forte accelerazione nel prossimo quinquennio, per passare dall’attuale 3% al 35% nel 2025, al 40% nel 2026 e appunto al 50% nel 2030. L’energia prodotta potrà essere condivisa anche con le comunità locali.  In questo senso, Cap Evolution promuove la creazione delle Cer, le comunità energetiche rinnovabili, uno degli elementi centrali del green deal della Regione Lombardia. Oggi sono già 13 i Comuni coinvolti nella realizzazione delle Comunità Energetiche nell’area metropolitana, che produrranno oltre 9 milioni di Kwh annui per un investimento di 10 milioni di euro. Avendo aderito alle manifestazioni di interesse rivolte alla Regione da parte di altri 23 Comuni, la prospettiva è quella di supportare 36 Comuni in totale. È previsto anche un investimento di 50 milioni di euro per lo sviluppo di impianti fotovoltaici e agrivoltaici che consentano di arrivare a produrre 70Gwh di energia. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Cresce in Italia la finanza a impatto

Tempo di lettura: 5 minuti 9,3 miliardi di euro a fine 2022 (+33%) ֎Salute, educazione, tecnologia, agricoltura e ambiente i settori di maggior interesse. Lo studio coinvolge 39 operatori del mercato finanziario, il 72% di […]

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Auto elettriche, scatta l’allarme: Cina pronta a superare l’Occidente anche nel riciclo di batterie

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(Adnkronos) – Da quando la transizione energetica è diventata una priorità delle politiche occidentali, gli scettici hanno mostrato preoccupazione per il ruolo della Cina, molto avanti nel settore della produzione di batterie e auto elettriche. Ora, però, il sorpasso del Dragone potrebbe arrivare anche sotto un altro profilo: quello del riciclo delle batterie per veicoli elettrici, da sempre un nervo scoperto della transizione. Quanto riporta Bloomberg citando un rapporto di Circular Energy Storage, spaventa anche chi, in Usa e in Ue, è favorevole all’elettrico. Infatti, secondo le previsioni di Circular Energy Storage, la Cina avrà quasi quattro volte più batterie da riciclare entro il 2030 rispetto al 2021.
Una progressione che accentrerebbe nel paese di Xi Jinping la filiera delle auto elettriche, dalla produzione dei veicoli e delle batterie, allo smaltimento delle stesse, chiudendo un cerchio sempre più spostato verso Oriente. Parlando dell’industria cinese del riciclo delle batterie, Bloomberg descrive un’atmosfera “un po’ selvaggia”, dove alcuni individui pubblicano annunci sui social media per trovare batterie riciclabili come parte, sostiene la rivista finanziaria, di un vasto mercato grigio. Mentre in Occidente è ancora acceso il dibattito sull’elettrico, e il settore delle auto elettriche è crollato pesantemente a dicembre, trascinato dal collasso tedesco, il Drago asiatico ha già raggiunto elevati standard nazionali per lo smontaggio delle celle delle batterie e il trasporto dei componenti delle batterie. Di particolare rilievo la regola secondo cui le batterie devono essere trasportate in camion dotati di allarmi antincendio e spedite in contenitori ignifughi e resistenti al calore. Tuttavia, le linee guida e i regolamenti emessi da Pechino sono difficili da far rispettare e spesso vengono aggirati perché aumentano il costo dei materiali riciclati. Dunque, anche in Cina le regole stanno trovando delle resistenze nei fatti, seppure più nascoste e meno urlate di quelle occidentali per i noti limiti alla libertà presenti nel paese. Le regole di riciclo delle batterie elettriche in Cina sono state stabilite dal governo cinese nel 2018, per affrontare il problema delle batterie esauste dei veicoli elettrici.  Secondo le regole di Pechino, le batterie riciclate devono restituire il 98% del contenuto originale di cobalto e nichel e l’85% di litio. Una misura che trova una matrice economica prima che ambientale dato che la Cina importa
più del 90% del suo cobalto e nichel e più della metà del suo litio. Altre regole predisposte dal governo sono: – i produttori di batterie devono fornire informazioni tecniche sullo smontaggio e il riciclo dei loro prodotti, e offrire formazione ai costruttori di automobili; – i costruttori di automobili devono essere responsabili della costruzione di una rete di riciclo delle batterie, e utilizzare i servizi post-vendita per recuperare le batterie; – le batterie devono essere trasportate in camion dotati di allarmi antincendio e spedite in contenitori ignifughi e resistenti al calore. Pechino incoraggia inoltre la cooperazione tra i produttori di batterie e le case automobilistiche, e la partecipazione dei capitali sociali. Mentre in Occidente si sta provando a sostenere l’elettrico con incentivi e normative che ne agevolano l’acquisto, la Cina ha optato per una strategia più di ampio respiro, che, prima di arrivare al riciclo, parte dall’approvvigionamento di materie prime. Per questo motivo, il paese di Xi Jinping ha investito molto in Africa, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, che
detiene il 60% delle riserve mondiali di cobalto, e in altri paesi ricchi di litio, grafite e terre rare. Alcuni osservatori hanno definito questa strategia come una forma di “colonizzazione economica”, in quanto la Cina esercita una forte influenza politica e finanziaria sui paesi africani, spesso a scapito dei diritti umani, dell’ambiente e della sovranità nazionale, ma è indubbio che non si tratti di un unicum a livello globale. Anche la transizione finisce per diventare strumento geopolitico, con l’asse Cina-Russia quanto mai attivo nel settore dell’automotive.  Infatti, la produzione automobilistica cinese ha stabilito un record nel 2023, soprattutto grazie all’aumento delle esportazioni di veicoli elettrici e alle spedizioni in Russia che hanno colmato il vuoto creato dall’uscita dei produttori occidentali. Lo scorso anno le case automobilistiche cinesi hanno prodotto 30,16 milioni di veicoli contro i 27,02 milioni del 2022, secondo i dati della China Association of Automobile Manufacturers (Caam), superando i record del 2017. A trainare il Dragone sono state soprattutto le esportazioni che sono aumentate addirittura del 58%, raggiungendo i 5 milioni di autovetture esportate. Numeri che hanno sancito il sorpasso sul Giappone, storico leader di settore, fermo a 4,3 milioni di auto esportate nel corso del 2023. Un sorpasso che, come si è visto, parte da lontano e può travolgere il mercato: “Stiamo parlando dell’alba di un nuovo dominio”, afferma senza fronzoli Bruno Mafrici, senior advisor di Milano esperto in mercati internazionali e innovazione aziendale che spiega: “Non è un caso che la Cina stia avanzando nel settore delle auto elettriche. Gli investimenti strategici in ricerca e sviluppo, cominciati con parecchi anni di anticipo rispetto alle case europee, uniti a una pianificazione governativa lungimirante, hanno permesso alla Cina di ottenere un vantaggio competitivo. Questo – continua – si riflette nella loro predominanza nel settore delle batterie, un componente cruciale per il successo delle auto elettriche”. In Italia, il fenomeno delle auto elettriche cinesi è particolarmente evidente. Le importazioni di auto dalla Cina hanno registrato un aumento di quasi quattro volte nel 2023 rispetto al 2022.  Se la Cina dovesse conquistare la leadership anche nel riciclo delle batterie, il mercato occidentale ne risentirebbe pesantemente, diventando co-protagonista praticamente lungo tutta la catena delle auto elettriche.  Come è noto, l’Ue ha deciso lo stop all’immatricolazione di auto a motore termico a partire dal 2035. La sfida è organizzare il settore in modo da arrivare preparati all’appuntamento. Occorrerà, però, che tutte le parti sociali (istituzioni, aziende e consumatori) remino nella stessa direzione, accettando l’ineluttabilità del cambiamento. Solo a quel punto, il modello cinese potrà rappresentare un valido esempio. Sempre se non sarà troppo tardi. —sostenibilita/mobilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Bce e cambiamento climatico, Christine Lagarde: “Ecco come sosterremo la transizione verde dell’economia”

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(Adnkronos) – Il cambiamento climatico necessità di misure concrete e con un focus mirato. A sostenerlo è la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde che ha spiegato nel dettaglio quali saranno le future mosse adottate.  Con un piano strategico, la Bce intende difendere i cambiamenti finanziari ed economici imposti dall’aumento delle temperature e dalle politiche associate al fenomeno e a ciò che ne consegue. Vediamo nel dettaglio come è strutturato il piano. Quando si parla di transizione verde si fa riferimento a tutte le strategie messe in campo per rendere più sostenibile per l’ambiente ogni aspetto che riguarda l’uomo. Anche quello economico-finanziario. La Banca Centrale Europea, in tal senso, ha riaffermato l’impegno verso le azioni climatiche in corso e come adattarsi ai nuovi fenomeni difendendo le finanze dei cittadini.  La Banca Centrale Europea ha deciso di ampliare il proprio lavoro sul cambiamento climatico, identificando tre aree di interesse che guideranno le sue attività nel 2024 e nel 2025: “Un clima più caldo e il degrado del capitale naturale stanno imponendo un cambiamento nella nostra economia e nel nostro sistema finanziario. Dobbiamo comprendere e tenere il passo con questo cambiamento per continuare a svolgere il nostro mandato – ha affermato la presidente della Bce Christine Lagarde -. Ampliando e intensificando i nostri sforzi possiamo comprendere meglio le implicazioni di questi cambiamenti e, così facendo, contribuire a sostenere la stabilità e sostenere la transizione verde dell’economia e del sistema finanziario”. A tal fine sono state concordate le seguenti misure concrete. Sulla transizione verso un’economia green, la Bce ha dichiarato di voler intensificare il suo lavoro sugli effetti dei finanziamenti per la transizione, sulle esigenze di investimenti rivolti al mondo green e su come i piani di transizione incidano sugli aspetti dell’economia e del lavoro. I risultati informeranno anche il quadro di modellizzazione della Bce. Quest’ultima, infatti, intende anche approfondire eventuali e necessarie modifiche ai suoi strumenti e “portafogli” di politica monetaria.  Per quanto riguarda l’impatto fisico dei cambiamenti climatici, la Bce intende approfondire quale sia l’impatto che eventi metereologici estremi, come quelli che si sono verificati proprio in Italia con alluvioni in Emilia-Romagna e Toscana, hanno sull’inflazione e sul sistema finanziario. La Bce ha inoltre dichiarato di voler valutare il potenziale impatto dell’adattamento ai cambiamenti climatici del settore finanziario compresi gli spazi di investimento e di protezione assicurativa.  Per quanto riguarda il degrado degli ecosistemi, la Bce continuerà sulla stessa linea. Analizzerà, cioè, il legame tra sistema finanziario e perdita della flora e della fauna e di interi habitat naturali. Sulle operazioni legate strettamente alla propria attività, l’impegno pronunciato dalla Bce è anche quello legato al suo ottavo programma di gestione ambientale per sostenere il raggiungimento dei suoi obiettivi di riduzione del carbonio per il 2030. Insieme all’intero Eurosistema, il suo lavoro includerà principi di progettazione ecocompatibile per le future serie di banconote in euro e incorporare considerazioni sull’impronta ambientale nella progettazione di un euro digitale che è attualmente in fase di preparazione. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Italian Exhibition Group certificata sulla parità di genere

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(Adnkronos) –
Italian Exhibition Group Spa (Ieg) è la prima società fieristica italiana a ottenere la Certificazione sulla Parità di Genere UNI/PdR 125:2022 per la piena corrispondenza delle politiche aziendali finalizzate all’equità lavorativa e all’inclusione di tutte le collaboratrici e i collaboratori attivi all’interno dell’azienda. La certificazione riguarda le sedi fieristico-congressuali di Rimini e Vicenza della Spa, oltre agli uffici operativi di Milano e Arezzo. Il punteggio ottenuto da Ieg è 89,75 su un range previsto fra 60 e 100, secondo i certificatori fra i più alti riconosciuti.  Il processo di certificazione, terminato con l’audit di Bureau Veritas Italia, è stato coordinato per Ieg dal team Hr, guidato dalla sua direttrice Silvia Fabbri, insieme all’Hr specialist Katia Calesini e ha visto la collaborazione dell’Hse coordinator di Ieg Mattia Gasparini per gli aspetti concernenti l’integrazione con le altre certificazioni già acquisite da Italian Exhibition Group.   “Con un pizzico di orgoglio – commenta il presidente di Ieg Spa, Maurizio Ermeti – rivendico un riconoscimento che non è semplicemente il premio ad un percorso compiuto sull’onda di una cultura aziendale che finalmente si afferma nel mondo delle imprese, ma l’affermazione di una identità societaria che da sempre s’è caratterizzata con un requisito sostanziato da premialità e riconoscimento dei talenti, ovunque essi siano”.  Per il presidente di Bureau Veritas Italia, Diego D’Amato, “grazie alla Uni/PdR 125:2022, le aziende hanno a disposizione uno strumento formidabile per agire il cambiamento sul fronte della parità di genere, diffondendo una cultura inclusiva e misurando il proprio impegno al miglioramento. Siamo orgogliosi di contribuire, con i nostri audit di certificazione, ad una maggior consapevolezza sui temi del gender gap, valorizzando l’impegno di aziende che, come Ieg, possono essere prese ad esempio nel proprio mercato di riferimento”.  Ieg ha presentato all’ente certificatore Bureau Veritas Italia una fotografia aziendale composta dal 70% di presenza femminile. Le donne con ruoli dirigenziali o di responsabilità di area sono il 50% e quelle con deleghe sui budget di spesa sono il 51% del totale.  —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)