Dall’Australia arrivano le batterie ad acqua

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(Adnkronos) – Tra effetti negativi sull’ambiente e pericolosità per l’uomo, tiene banco il dibattito sulla sostenibilità delle batterie al litio. In un articolo recentemente comparso sulle colonne della rivista di settore ‘Advanced Materials’, gli esperti della RMIT University, in Australia, propongono una soluzione rivoluzionaria: una batteria ad acqua. Le performance fatte registrare dal dispositivo, infatti, lasciano ben sperare, e il processo che conduce alla sua realizzazione è economico e rispettoso dell’ambiente. —sostenibilita/tendenzewebinfo@adnkronos.com (Web Info)

8 marzo, uomini che lottano per i diritti delle donne: chi sono i suffragetti

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(Adnkronos) – “Alzate le gonne, ragazze!”. È il 16 maggio 1911 e questa non è l’ennesima offesa alle donne, ma uno scherno rivolto agli uomini che accanto alle donne combattono, convinti che anche loro debbano votare e godere degli stessi diritti.  Quel giorno la storia conosce una delle pagine più belle della convivenza uomo-donna: la parata del Men’s League for Woman Suffrage (Lega degli Uomini per il Suffragio Femminile) a supporto delle suffragette americane. 10.000 spettatori si riversano nella Fifth Avenue per assistere alla seconda parata annuale del New York Suffrage Day. Tra i 3.000 e 5.000 manifestanti marciarono dalla 57esima Strada a un enorme raduno a Union Square. Protagoniste, ovviamente, le donne che alzano cartelli con slogan come “un voto per il suffragio è un voto per la giustizia” e “ti fidi di noi con i bambini, fidati di noi con il voto”.  Tra loro un singolo gruppo di 89 uomini (secondo le testimonianze) che marciano in file di quattro seguendo i passi delle donne e sotto la bandiera della Men’s League for Woman Suffrage. Tra gli slogan, uno molto chiaro: “La sottoveste non fa più le suffragette. Siamo suffragette, suffragette con i pantaloni”. La Men’s League for Woman Suffrage è stata un’organizzazione americana fondata all’inizio del XX secolo con l’obiettivo di sostenere il movimento per il suffragio femminile. Ispirata alla sua controparte britannica, la Men’s League for Women’s Suffrage inglese, l’organizzazione americana vide la luce grazie agli sforzi di figure di spicco come Oswald Garrison Villard, Anna Howard Shaw, Max Eastman, Stephen S. Wise e James Lees Laidlaw.  Furono in particolare le discussioni tra Oswald Garrison Villard, editore del New York Evening Post, e Anna Howard Shaw, presidente della National American Woman Suffrage Association (Nawsa) a far nascere questo movimento. Villard, infatti, era scettico nel guidare un’organizzazione del genere, ma la conversazione con Shaw stimolò in lui l’interesse per la creazione di una lega maschile a sostegno del suffragio femminile. Max Eastman, cresciuto in una famiglia suffragista, accettò di organizzare la Men’s League for Woman Suffrage all’inizio del 1909. Per una volta i ruoli di spicco riconosciuti agli uomini servivano a combattere la discriminazione di genere, non ad aggravarla. James Lees Laidlaw, un banchiere di spicco e marito della suffragista Harriet Burton Laidlaw, assunse la presidenza della lega. I membri della lega marciavano spesso alla fine delle parate suffragiste, simboleggiando il loro supporto alla causa. Laidlaw è l’unico uomo elencato sulla targa della League of Women Voters che commemora i leader statali del movimento suffragista, installata nel Capitol Building di New York a Albany.  Oltre a partecipare alle parate con annesse offese e tentativi di scherno da parte degli altri uomini, la Men’s League for Woman Suffrage si dedicò a organizzare raccolte fondi per sostenere la battaglia delle donne, tenere discorsi pubblici per sensibilizzare sul diritto di voto delle donne, e fare pressing (o, più precisamente, lobbying) presso i funzionari governativi. La lega creò una rete nazionale di uomini influenti che supportavano il movimento suffragista, tra cui personalità come il socialista Max Eastman, lo storico Charles Beard e il già citato finanziere James Lees Laidlaw. La Men’s League for Woman Suffrage degli Uomini per il Suffragio Femminile fu particolarmente attiva nel reclutare membri attraverso conferenze e incontri, spesso tenuti in contesti universitari, e lavorò a stretto contatto con la National American Woman Suffrage Association.  Non ci sono informazioni su quanti fossero i membri della lega al momento della fondazione, ma c’è un dato certo ed emblematico: entro il 1912, in appena 3 anni di attività, l’organizzazione contava circa 20.000 membri in tutto il Paese. La Men’s League for Woman Suffrage giocò un ruolo cruciale nel movimento per il suffragio femminile, dimostrando che il sostegno alla causa non era un interesse esclusivo delle donne. La partecipazione attiva degli uomini, sia in termini di sostegno morale che di azione diretta, contribuì a cambiare l’opinione pubblica e a promuovere l’approvazione del 19° emendamento, che garantì alle donne americane il diritto di voto negli Stati Uniti nel 1920. Negli Stati Uniti molti dei sostenitori più forti delle suffragiste erano proprio i loro mariti, padri, fratelli, zii e altri uomini che, influenzati dai valori democratici, hanno supportato costantemente la causa delle donne. Più di 50 campagne elettorali videro una grande partecipazione maschile, spesso oltre il 40%, votare a favore del suffragio femminile. In stati come New York e California, la maggioranza degli elettori maschi appoggiò il suffragio femminile. Nel 1920, dopo l’approvazione da parte del Congresso a maggioranza maschile e di 36 legislature statali, il 19° emendamento fu ratificato e celebrato come una vittoria condivisa. Una lezione per i giorni nostri, in cui si cerca di risolvere i problemi polarizzando le differenze, di qualsiasi tipo esse siano, incluse quelle di genere.  Il movimento degli uomini a sostegno delle donne, anche detti i “suffragetti” ha interessato molti Paesi, in maniera più o meno organizzata. Nel Regno Unito, uomini come i membri della famiglia Pankhurst hanno sostenuto il movimento delle suffragette. 
Emmeline Pankhurst, fondatrice della Women’s Social and Political Union, aveva marito e figli che partecipavano attivamente alla lotta per il suffragio femminile. In Francia, nonostante il riconoscimento del diritto di voto alle donne sia avvenuto solo nel 1945, vi furono uomini che supportarono la causa femminista durante la Rivoluzione francese e anche quando questa si era conclusa. In Svizzera, nonostante la resistenza iniziale, negli anni ‘60 le proposte di legge per il suffragio femminile superarono il voto maschile in nove
cantoni, grazie anche al supporto di uomini che riconoscevano l’importanza di estendere i diritti democratici alle donne. In Italia, la lotta per i diritti delle donne ha visto momenti significativi nel corso del XX secolo, con il suffragio femminile ottenuto nel 1945 e l’attivismo femminista che ha preso piede negli anni ‘60 e ‘70, portando a importanti riforme legislative a favore delle donne.  Non c’è prova di organizzazione analoghe al Men’s League for Woman Suffrage in Italia ma nel contesto più ampio del movimento femminista e della lotta per i diritti delle donne, uomini progressisti, intellettuali, politici e attivisti hanno spesso espresso il loro sostegno alle cause femminili. Questo supporto si è manifestato in diversi modi, dall’advocacy politica e legislativa, alla partecipazione a manifestazioni e campagne di sensibilizzazione, fino al sostegno intellettuale e culturale attraverso le arti e la letteratura. Molti uomini hanno usato la penna come arma per sostenere i diritti delle donne. Frederick Douglass, ad esempio, ha sostenuto la Declaration of Sentiments (“Dichiarazione dei Sentimenti”) presentata da Elizabeth Cady Stanton durante la Convenzione dei Diritti delle Donne a Seneca Falls nel 1848, una delle prime convenzioni dei diritti delle donne negli Usa. La dichiarazione di Stanton è ritenuta un passaggio chiave nel movimento per i diritti delle donne negli Stati Uniti. Per molti la Declaration of Sentiments è stata il punto di partenza del movimento femminista. Altri, come il noto abolizionista William Lloyd Garrison, hanno scritto a favore del movimento, contribuendo a diffondere le idee femministe e a sensibilizzare l’opinione pubblica. 
Garrison aveva sostenuto la parità dei diritti per le donne nel suo giornale “The Liberator” e partecipò alla Convenzione di Seneca Falls del 1848. Tuttavia, il suo coinvolgimento non fu privo di critiche. Mentre alcuni sottolineavano il suo supporto ai movimenti femministi, altri ritenevano che il suo atteggiamento paternalistico potesse mettere in ombra il contributo delle donne. Altri misero addirittura in dubbio il suo reale interesse verso i diritti delle donne, sostenendo che avesse tralasciato la lotta per la parità di genere per concentrare le sue forze sull’abolizione della schiavitù. La storia dell’umanità ha visto anche altri uomini spendersi per la parità dei diritti, quando questa sembrava, agli occhi della società, una pretesa assurda e priva di fondamento. Impossibile dimenticare Nelson Mandela: “Le donne sono i veri custodi della pace e della stabilità del mondo”, ma anche Kofi Annan, che ha sottolineato: “L’empowerment delle donne è la chiave per il progresso e la giustizia sociale”, facendo eco alle parole di Gandhi: “Le donne sono la forza motrice della società e la loro partecipazione è cruciale per il benessere di tutti”.  L’impegno di donne e uomini per abbattere le discriminazioni di genere ha avuto i suoi risultati nel corso della storia. Diversi studi mostrano che oggi il gender gap si è attenuato rispetto ai decenni e secoli precedenti, ma anche che c’è ancora molta strada da fare.  Il World Bank Report ha evidenziato che nessun Paese al mondo ha raggiunto la parità di genere, con le donne che vengono discriminate negli ambiti più disparati: al lavoro, dove il gender gap salariale segna ancora un solco profondo tra uomini e donne, in famiglia sotto forma di violenza fisiche e verbali e tramite una distribuzione dei compiti domestici squilibrata e anche sotto il profilo dell’imprenditoria e degli appalti pubblici.  Molti sono gli sforzi da fare, ma è anche necessario cambiare l’approccio: occorre smontare la logica che vede uomini e donne in un eterno conflitto. Uomini e donne devono lottare insieme, vivere insieme e aiutarsi a vicenda, parafrasando quanto detto all’Adnkronos da Elisa Di Francisca. I singoli uomini e i 20.000 membri della Men’s League for Woman Suffrage hanno la forza per diventare l’emblema di una nuova, congiunta, fase nella lotta alla discriminazione di genere senza farsi scoraggiare dalle ingiustizie ancora presenti, ma caricandoci sulle spalle la responsabilità e la giustizia del cambiamento. Perché, insegna Paola Cortellesi, "C'è ancora domani". —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Donne imprenditrici più giovani e più istruite, ma il divario di genere persiste

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(Adnkronos) – L'impresa è un terreno tradizionalmente dominato dagli uomini, ma in Italia la presenza femminile nell'imprenditoria sta gradualmente guadagnando terreno. Con oltre 4 milioni e 800 mila imprenditori operanti nel 2021, le donne rappresentano il 30,0% di questa forza lavorativa, segnando un aumento rispetto al 2015, quando erano il 29,1%, secondo quanto rilevato dall’Istat in occasione della Giornata internazionale della Donna. Nonostante questo incremento, le imprenditrici affrontano ancora sfide significative nel panorama imprenditoriale italiano. Una delle caratteristiche più sorprendenti è l'età media più bassa delle imprenditrici rispetto ai loro colleghi maschi. Con 49 anni contro i 52 degli uomini, le donne imprenditrici sono più giovani, grazie soprattutto alla presenza più consistente di donne under 35, che rappresentano il 37,1% di questa categoria.  Sebbene questa presenza giovane contribuisca ad attenuare lo squilibrio di genere, non riesce a cancellarlo del tutto. Tuttavia, mentre nella classe di età superiore ai 50 anni le donne rappresentano il 26,5% degli imprenditori, questo squilibrio si riduce leggermente nella fascia d'età centrale (33%) e in modo più significativo tra i più giovani, dove la quota femminile raggiunge addirittura il 37,1%. Un dato incoraggiante è l'aumento della presenza femminile in tutte le classi di età rispetto al 2015, con un incremento particolarmente significativo tra le under 35 (+1,7 punti) e tra le 35-49enni (+2 punti). Inoltre, le differenze nella distribuzione territoriale delle sedi aziendali sono minime, con la presenza femminile che varia dal 28,6% tra gli imprenditori che guidano imprese del Mezzogiorno al 31,6% nelle regioni del Centro. Questa omogeneità territoriale suggerisce che l'imprenditoria femminile è diffusa in tutto il Paese, senza distinzioni geografiche significative. Nel panorama dell'imprenditoria italiana, emergono chiaramente le tendenze e le disparità di genere nei diversi settori economici. I Servizi dominano come habitat principale delle imprenditrici, rappresentando il 90,7% di questa categoria, mentre la presenza femminile nel comparto industriale è minima, con solo il 6,4% delle imprenditrici operanti in questo settore e marginale nelle Costruzioni, confermando così una forte caratterizzazione maschile. Analizzando i dati rispetto al 2015, si nota un trend non uniforme tra i vari settori. Mentre le imprenditrici nei Servizi registrano una crescita significativa, con un aumento di circa 76.027 unità, si osserva una diminuzione di quelle impegnate nell'Industria e un leggero calo nel settore delle Costruzioni. Entrando nel dettaglio, le imprenditrici sono più propense a guidare imprese nelle Attività professionali, scientifiche e tecniche, nella Sanità e assistenza sociale, nei Servizi di alloggio e ristorazione e in Altri servizi alla persona rispetto ai loro colleghi maschi. Tuttavia, anche in questi settori, i divari di genere restano significativi, con le donne che rappresentano poco più di un terzo degli imprenditori nei Servizi. Un altro dato interessante riguarda la struttura aziendale e l'assunzione di dipendenti. Mentre un numero considerevole di imprenditrici gestisce attività senza dipendenti, si osserva che le donne più anziane e con più esperienza sono più propense a guidare imprese con un numero maggiore di dipendenti. Tuttavia, lo squilibrio di genere rimane evidente, specialmente nelle imprese con un numero medio di dipendenti, dove le donne rappresentano solo una piccola percentuale del totale degli imprenditori. La caratterizzazione di genere si estende anche al personale dipendente, con una percentuale significativamente più alta di dipendenti donne nelle imprese guidate da donne rispetto a quelle guidate da uomini, sia nei Servizi che nell'Industria.  Nel tessuto imprenditoriale italiano, l'istruzione svolge un ruolo cruciale, soprattutto per le donne che sfidano il tradizionale status quo. Analizzando il profilo educativo delle imprenditrici, emerge un dato significativo: le donne tendono ad avere un livello di istruzione più elevato rispetto agli uomini. Statistiche recenti rivelano che il 34,5% delle imprenditrici ha conseguito un titolo di studio terziario, in netto contrasto con il 23,4% degli uomini. Questo divario si accentua ulteriormente nei settori a più alto contenuto di conoscenza, come testimoniano i dati relativi ai liberi professionisti, dove il 76,4% delle donne ha un titolo di studio elevato, rispetto al 68,2% dei colleghi maschi. Tuttavia, nonostante i progressi, il gap di genere persiste, soprattutto tra i lavoratori autonomi, dove il 43,5% delle donne ha conseguito un titolo terziario, contro il 23,4% degli uomini. Questa disparità è evidente anche nelle diverse fasce d'età: mentre le imprenditrici più giovani mostrano un divario di genere più ampio, con una percentuale di laureate superiore, la differenza si riduce leggermente nelle classi di età più mature. Esaminando i vari settori economici, emerge chiaramente il ruolo dell'istruzione nel determinare il successo delle imprenditrici. Nei settori dell'Istruzione e delle Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, le donne hanno una percentuale significativamente più alta di laureate rispetto agli uomini, superando anche le due cifre di differenza percentuale. Nonostante i progressi, il percorso verso una piena parità di genere nell'imprenditoria italiana è ancora lungo. Le imprenditrici continuano ad affrontare sfide come la discriminazione di genere, l'accesso al finanziamento e le aspettative sociali preconcette. Tuttavia, con un numero sempre crescente di donne che abbracciano l'imprenditorialità e con il supporto di politiche e iniziative mirate, c'è speranza che l'impresa al femminile continuerà a prosperare e contribuire allo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Trentino Alto Adige e Marche regine della transizione ecologica

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(Adnkronos) – Trentino Alto Adige, Marche e, distanziate, Lombardia, Veneto e Toscana: sono queste, in ordine di classifica, le Regioni italiane con le migliori prestazioni di sostenibilità ambientale. Sette regioni, Trentino Alto Adige, Marche, Lombardia, Veneto, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, presentano un indice di circolarità superiore alla media nazionale. Con l’unica eccezione del Lazio, sono tutte regioni del Nord. In fondo alla classifica tutte Regioni meridionali: ultima la Puglia, preceduta da Sicilia, Sardegna, Basilicata, Campania e Calabria. E' quanto emerge dal Rapporto presentato a Fano in occasione di Circonomia, il Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica promosso tra gli altri da Eprcomuniczione e Kyoto Club. Il Rapporto, curato da Duccio Bianchi fondatore dell’Istituto di ricerche Ambiente Italia (il più antico eco-istituto italiano), propone un ranking che mette in classifica le regioni italiane sulla base di un set di 25 diversi indicatori green.  Dunque le Regioni meridionali presentano un indice di sostenibilità ambientale sensibilmente più basso rispetto alle Regioni del Nord e anche del Centro – rivela l'analisi – Ciò evidenzia che livelli più bassi di pressione sulle risorse naturali in termini di consumo di materia e di energia, come sono nel Sud per effetto di un’economia più debole e dunque di minori consumi di materie prime, non rappresentano un vantaggio in termini ambientali. L’indice di sostenibilità, infatti, dipende da fattori di pressione ma anche da fattori di efficienza e di risposta, che al contrario dei primi tendenzialmente crescono al crescere delle performance di sviluppo economico: lo sviluppo economico di per sé non è 'insostenibile', tutt’altro.  La macro-regione del Centro è l’unica che fa meglio della media nazionale in tutte e tre le categorie degli indicatori (impatto, efficienza, risposta). Le Marche, che pure sono una delle regioni più manifatturiere d’Italia e dunque con la presenza più rilevante di attività economiche che producendo beni fisici consumano più risorse e più energia rispetto alle attività economiche 'terziarie', svettano in testa alla classifica, superate solo dal Trentino Alto Adige che vanta un’antica e consolidata 'primazia' in fatto di attenzione all’ambiente. Il risultato delle Marche è migliore di quello medio dell’Italia in 20 indicatori su 25. Subito alle spalle delle Marche, la classifica green stilata da Circonomia vede Lombardia e Veneto, regioni anch’esse con un elevato tasso manifatturiero del Pil: ciò rafforza la conclusione che sistemi economici a forte impronta manifatturiera, se caratterizzati da standard elevati di efficienza non sono necessariamente 'divoratori' di energia e di materia.  Presentando il Rapporto Circonomia, il direttore del Festival Roberto Della Seta ha commentato: “Dalla nostra ricerca esce un’immagine dell’Italia della transizione ecologica a chiaroscuri, con Regioni all’avanguardia della conversione green e altre che arrancano. Serve uno scatto in avanti che coinvolga tutti i territori, solo così potremo essere al centro del green deal e che non solo è indispensabile per fronteggiare la crisi climatica ma è una grande occasione di innovazione tecnologica e competitività economica. Come mostrano tanti esempi concreti, ‘convertire’ all’ecologia produzioni e consumi non è soltanto necessario per l’ambiente: è anche utilissimo a rendere più moderna e competitiva l’economia, a creare lavoro, a migliorare la vita quotidiana delle persone”.   L’indice sintetico di 'circolarità' calcolato per ogni Regione italiana e per le quattro macro-regioni (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole) si basa su 25 indicatori che identificano i principali caratteri distintivi dell’economia circolare e della transizione ecologica. Valle d’Aosta e Molise non figurano nel ranking in quanto, per le dimensioni ridotte, presentano dati non comparabili con quelli delle altre Regioni, ma sono invece compresi nelle rispettive macro-aggregazioni (rispettivamente per il Nord-Ovest per la Valle d’Aosta e il Sud per il Molise).  
Gli indicatori sono suddivisi in tre categorie: impatto sull’uso delle risorse (6 indicatori che misurano l’impatto ambientale diretto, considerato come impatto pro-capite, delle attività economiche e civili su ambiente e clima); efficienza d’uso delle risorse (6 indicatori che misurano l’efficienza e la produttività di uso delle risorse, generalmente considerata rispetto al Prodotto Interno Lordo a parità di potere d’acquisto); azioni di risposta e mitigazione (13 indicatori che misurano la capacità di risposta, sia pubblica che privata, alla crisi energetica e climatica attraverso azioni di riduzione o mitigazione degli impatti). I dati raccolti sono i più aggiornati disponibili: per 15 indicatori sono riferiti al 2022, per 8 indicatori al 2021, per 2 indicatori al 2020.  —sostenibilita/tendenzewebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Ciro, il database delle regioni sul clima

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֎Sulla pagina interattiva di Ciro è possibile cliccare sugli otto temi in tabella e scoprire quali sono le regioni italiane sotto o sopra la media nazionale in quel determinato argomento, allo stesso modo si può cliccare sulla propria regione per saperne di più֎

Parità di genere ancora lontana nelle società quotate in borsa

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(Adnkronos) – Sembra che molti parlino di parità di genere soltanto in concomitanza dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Al contrario, il tema così importante e delicato delle differenze di diritti e trattamento tra uomo e donna nei diversi ambiti di lavoro dovrebbe essere al centro dell’agenda quotidiana di istituzioni pubbliche e private, aziende e opinion maker specie perché ad oggi risulta tutt’altro che risolto.  A tale proposito si pensi che tra le 40 aziende italiane quotate in Borsa solo una donna occupa il ruolo di CEO. E se si pensa che per gli anni precedenti nessuna donna occupava tale ruolo, si fa in fretta a comprendere che la parità di genere è assai lontana dall’essere raggiunta. Lo rivela un recente rapporto di Heidrick & Struggles incentrato sull’età, l’esperienza professionale, l’etnia, il genere e l’istruzione per diventare CEO di un’azienda quotata. Se le imprese italiane quotate in Borsa sono così indietro rispetto alla parità di genere nelle posizioni apicali, le cose non vanno meglio in diversi Paesi europei. La Germania, ad esempio, ha una quota minima pari al 3% di donne che ricoprono il ruolo di amministratore delegato. Stessa percentuale registrata per la Spagna. Dati migliori nel Nord Europa: in Svezia tale percentuale raggiunge il 14%, in Danimarca e Norvegia il 13%, in Finlandia il 12%. Percentuali sempre piuttosto basse, ma superiori a diversi grandi Paesi del Vecchio Continente, tra cui segnaliamo anche la Francia (8%) e il Regno Unito (10%).  Un altro dato particolarmente significativo riguarda l’età media in cui un Ceo inizia a ricoprire tale ruolo. L’Italia a livello mondiale è in questo senso al tutt’altro che onorevole terzo posto assoluto con un’età media all’insediamento dei Ceo piuttosto elevata, pari a 51,8 anni, dietro solo a Stati Uniti (53,7 anni) e Arabia Saudita (52,1). Analizzando l’età dei Ceo attualmente in carica, nelle aziende italiane la media è ancora più elevata, ovvero 59,7 anni, seconda solo agli USA (60,6 anni).  Anche per quanto riguarda il livello di istruzione dei Ceo, le aziende del nostro Paese non si distinguono per una grande preparazione della classe dirigente. Anzi, secondo la ricerca sopra citata, l’Italia è penultima con il 58% dei Ceo che ha conseguito una laurea triennale o equivalente, mentre soltanto il 42% è in possesso di una laurea superiore, di un master o di un dottorato. —sostenibilita/csrwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

L’UE vieta i prodotti realizzati con il lavoro forzato

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(Adnkronos) – Il Parlamento e il Consiglio dell'Unione Europea hanno raggiunto un accordo storico per vietare i prodotti realizzati con il lavoro forzato dal mercato dell'UE. Questo provvedimento segna un passo significativo verso la protezione dei diritti umani nelle catene di approvvigionamento globali. Le nuove misure stabiliscono un quadro normativo per far rispettare questo divieto attraverso indagini, nuove soluzioni informatiche e cooperazione con altre autorità e paesi. Secondo il testo concordato, le autorità nazionali o, se coinvolti paesi terzi, la Commissione europea, indagheranno sul presunto utilizzo di lavoro forzato nelle catene di approvvigionamento delle aziende. Se l'indagine conclude che è stato impiegato il lavoro forzato, le autorità possono richiedere il ritiro dai mercati dell'UE e dai mercati online dei beni rilevanti, oltre alla loro confisca ai confini.  I beni dovranno poi essere donati, riciclati o distrutti. I beni di importanza strategica o critica per l'Unione potrebbero essere trattenuti fino a quando l'azienda elimina il lavoro forzato dalle sue catene di approvvigionamento.  Le aziende che non si conformano possono essere multate. Tuttavia, se eliminano il lavoro forzato dalle loro catene di approvvigionamento, i prodotti vietati possono essere nuovamente ammessi sul mercato. Su insistenza del Parlamento, la Commissione stilerà̀ un elenco di settori economici specifici in aree geografiche specifiche in cui esiste il lavoro forzato imposto dallo Stato. Questo diventerà quindi un criterio per valutare la necessità di aprire un'indagine.  La Commissione può inoltre identificare prodotti o gruppi di prodotti per i quali importatori ed esportatori dovranno fornire ulteriori dettagli alle dogane dell'UE, come informazioni sul produttore e sui fornitori di tali prodotti. Sarà istituito un nuovo Portale Unico per il Lavoro Forzato per aiutare a far rispettare le nuove regole. Questo include linee guida, informazioni sui divieti, un database di aree e settori a rischio, nonché prove accessibili al pubblico e un portale per gli informatori. Una ‘Rete dell'Unione contro i prodotti del lavoro forzato’ aiuterà a migliorare la cooperazione tra le autorità.  Le regole prevedono anche la cooperazione con paesi terzi, ad esempio nel contesto dei dialoghi esistenti o dell'attuazione degli accordi commerciali. Ciò può includere lo scambio di informazioni su aree o prodotti a rischio e la condivisione delle migliori pratiche, in particolare con paesi con legislazione simile. La Commissione, agendo come autorità competente principale, potrà anche effettuare controlli e ispezioni nei paesi terzi, se l'azienda interessata e il governo del paese terzo vi acconsentono. Il Parlamento europeo e il Consiglio dovranno ora entrambi dare il loro via libera definitivo all'accordo provvisorio. Il regolamento sarà quindi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ed entrerà in vigore il giorno successivo. I paesi dell'UE avranno, quindi, 3 anni per iniziare ad applicare le nuove regole. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fasano (Banca Etica): “Una rivoluzione dal basso può cambiare il mondo bancario e finanziario”

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(Adnkronos) – Sostenibilità o progresso economico? Un contrasto cui sembra impossibile rinunciare ma che forse, in realtà, non ha senso di esistere: progresso sostenibile non è un ossimoro, ma una realtà concreta se si guardano gli esempi virtuosi. “Gli stessi cittadini, in Europa e nel resto del mondo, sono sempre più attenti all’impatto sociale e ambientale delle proprie scelte”, spiega all’Adnkronos Anna Fasano, presidente di Banca Etica che oggi presenta, nella sede del CNEL, la ricerca AICCON (Centro Studi promosso dall'Università di Bologna) per i 25 anni di attività dell’istituto. L’indagine “Azionisti del bene comune. 25 anni per la pace l’ambiente e l’inclusione” mostra con chiarezza gli scenari presenti e futuri della finanza valoriale ed è stata realizzata su un campione di 3795 clienti. Un dato balza subito all’attenzione: tra chi ottiene il credito da Banca Etica, quasi 1 su 4 (23%) aveva ricevuto il rifiuto da un altro istituto di credito. La percentuale sale fino al 41,7% nel caso di organizzazioni non socie di Banca Etica. I risultati raggiunti dal gruppo segnano un importante solco nel ridurre l’esclusione creditizia e fa ben sperare per gli sviluppi futuri: “I risultati di Banca Etica sono il successo di tutta l’economia sociale”, aggiunge la presidente dell’istituto Anna Fasano. 
Che rapporto hanno gli italiani con la finanza etica?
 “Il rapporto tra gli italiani e la finanza nasce secoli fa ed è legato al tema del credito, al dare fiducia e sostegno ai progetti delle persone. Nel tempo – spiega Fasano – si è creato un distacco tra il mondo bancario-finanziario e la percezione di quanto la finanza possa dare non tanto allo sviluppo della nostra società, quanto alla possibilità di incidere sulle scelte della finanza oggi e nel futuro. Da qui alcuni dati sulla fiducia nel mondo banche e finanza e sull’
educazione finanziaria
, che in Italia è molto carente rispetto al resto d'Europa, come confermato da diverse ricerche”.  
Quali scelte istituzionali possono incentivare la diffusione e il consolidamento della finanza etica?
 “Senz’altro scelte istituzionali che appartengono all'Italia e all'Europa potrebbero permettere lo sviluppo di tutto il comparto della finanza etica e della finanza value based”, risponde la presidente Fasano che spiega il significato del termine: “Finanza value based, o valoriale, significa mettere al centro dei vari rating utilizzati negli indicatori il valore che produce l'impatto sociale e ambientale generato grazie al credito e agli investimenti. Strumenti tipici del mondo bancario e finanziario che danno la possibilità di incidere sulla realtà e che maggiormente contribuiscono al benessere del pianeta e delle persone, rendendo l'accesso al credito più semplice”.  Un approccio che non è nemico della redditività: “questi strumenti possono rendere anche il lavoro stesso delle banche più profittevole – spiega Anna Fasano – perché ci sono una serie di accantonamenti, di patrimoni e di asset su cui si può costruire”.  
Quale strategia adotta Banca Etica per permettere l'accesso al credito anche a chi ha subito il rifiuto da un altro istituto?
 “Banca Etica da sempre misura la capacità del richiedente non solo attraverso un’istruttoria economico-finanziaria ma anche attraverso un’istruttoria socio-ambientale. Questo vuol dire far emergere anche quelle caratteristiche che i soggetti più fragili potrebbero non presentare spontaneamente quando si rivolgono ad un istituto bancario”.  È questa la fase in cui la finanza valoriale genera un risultato win-win: “Dare credito a progetti e organizzazioni, persone che hanno un impatto sociale, ambientale importante vuol dire anche costruire degli strumenti di garanzia a supporto di situazioni che potrebbero sembrare fragili, borderline, ma che invece hanno grandi potenzialità”. 
In che modo Banca Etica misura l’impatto sociale degli investimenti in finanza valoriale?
 “Banca Etica da sempre è attenta alle conseguenze non economiche delle azioni economiche. Negli ultimi anni l’istituto ha sviluppato una capacità e questo non è avvenuto solo tramite la rendicontazione. Da una parte – spiega la presidente Anna Fasano – c’è il ruolo dell’analisi e della rendicontazione degli indicatori Esg, dall’altra c’è la scelta di fissare a monte degli obiettivi di impatto. In questo modo gli indicatori servono a dare degli obiettivi concreti anche alla stessa realtà, organizzazione o soggetto che richiede un finanziamento o vuole fare un investimento.  [In foto: Anna Fasano, presidente di Banca Etica]

Quali tendenze emergenti vedete nella finanza valoriale e nelle richieste degli investitori?
 “I dati diffusi dai vari studi di ricerca ci dicono che le persone sono sempre più attenti ai prodotti e ai servizi Esg”, dice Fasano che però lancia un monito: “negli ultimi mesi è calata l’attenzione su questi aspetti, perché il tema ambientale è passato in seconda battuta rispetto agli ultimi anni. Faccio un esempio su tutti: il tema delle armi, che per noi è un settore controverso che rende l’impatto sociale negativo, invece, per l’Europa assume sempre più rilevanza e va al centro della tassonomia sociale”, avverte Fasano. “Quindi – chiosa la presidente dell’istituto – gli investitori vorrebbero alimentare un mondo migliore attraverso i propri risparmi però gli indicatori e anche i vari soggetti finanziari, in questo momento, stanno tirando un po’ il freno a mano di fronte a una situazione geopolitica incerta come quella che stiamo vivendo oggi”. Anna Fasano illustra orizzonti costruttivi per il futuro: “Nel mondo e anche in Italia i cittadini si stanno ponendo la domanda giusta: ‘Come posso contribuire con i miei soldi a sviluppare una società e un'economia attenta al pianeta e alle persone?’ Qui – spiega la presidente di Banca Etica – comincia la ricerca delle dei risparmiatori e delle risparmiatrici nell’individuare banche che rispondano alla loro volontà e alle loro esigenze. Da qui – sostiene convintamente Anna Fasano – inizia un cambiamento, una trasformazione che potrà avere anche un impatto su tutta la finanza. Anche questo è il ruolo di Banca Etica: far sì che anche il mondo bancario e finanziario possa cambiare con una rivoluzione dal basso, una rivoluzione che parte dalle persone”. Giunta oggi al 25mo anniversario dalla fondazione (1999), la storia dell’istituto nasce a Padova e oggi conta 48 mila persone e organizzazioni socie con un capitale sociale di oltre 92 milioni di euro a fine 2023. La Banca offre uno spaccato sulla crescita, in Italia, della finanza valoriale che registra una crescita media annua nell’ultimo decennio del +7,5% contro lo 0,4% del sistema bancario in generale. Un progresso su cui l’istituto ha avuto un ruolo importante con oltre un miliardo e 200 milioni di crediti attualmente in corso. La conferma arriva dall’indagine realizzata da AICCON: 7 persone su 10 ritengono che Banca Etica sia stata realmente capace di contaminare in senso positivo l’intero sistema socio-economico.  Particolarmente rilevanti i dati sulla sostenibilità del settore e dell’istituto nella ricerca presentata oggi al CNEL: nel periodo 2007-2023, in Italia, la finanza etica ha registrato una crescita di capitale sociale che complessivamente supera il 300%. Un successo dovuto anche al nuovo player dell’istituto nel panorama bancario italiano, ma che resta soddisfacente anche considerando le linee guida europee in materia di solidità bancaria, Basilea III e il regolamento europeo sui requisiti patrimoniali, Capital Requirements Regulation (Crr). Secondo questa analisi Banca Etica registra livelli di solidità patrimoniale in linea con il sistema bancario tradizionale e spesso migliori. Non solo: le sofferenze per Banca Etica sono stabilmente molto al di sotto rispetto alla media del sistema bancario. Nel 2023 le sofferenze nette per Banca Etica si sono attestate sullo 0,23%, ben al di sotto della media del sistema bancario italiano (1,05%).  Sì: sostenibilità e progresso economico possono convivere. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Milano, è stato l’inverno più caldo degli ultimi 127 anni

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(Adnkronos) – Si è appena concluso l’inverno meteorologico che a Milano è stato il più caldo degli ultimi 127 anni. La temperatura media della stagione, compresa tra il 1° dicembre 2023 e il 29 febbraio 2024, è stata infatti di 8.0 °C, valore massimo registrato in città per il periodo, a pari merito solo con il 2020, e superiore di ben 2.8 °C rispetto al Clino 1991-2020 (CLimatological NOrmal, il periodo di riferimento utilizzato dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale). Secondo le rilevazioni della Fondazione Omd – Osservatorio Meteorologico Milano Duomo Ets e in particolare della stazione meteorologica di Milano centro (situata presso la sede centrale dell’Università degli Studi di Milano), tutti i tre i mesi che compongono l’inverno 2024 sono stati più caldi del normale.  Particolarmente significativo è stato però il contributo di dicembre e febbraio che, con una temperatura media rispettivamente di 7.7 °C e 10.6 °C, sono risultati i più caldi di sempre: dicembre ha superato il suo corrispettivo Clino di 2.8 °C, febbraio addirittura di 4.3 °C. La temperatura massima più elevata (19.1 °C) è stata registrata il 23 dicembre a cui si aggiungono quattro giorni consecutivi, dal 22 al 25 dicembre, in cui sono stati superati i 15 °C.  A febbraio, addirittura, solo in due episodi la massima è scesa sotto i 10 °C (il 26 e il 27). La massima più bassa, invece, si è verificata il 17 gennaio (4.7 °C): nel corso di quest’ultimo inverno non ci sono quindi state giornate di ghiaccio, cioè con massima negativa. I giorni di gelo, ovvero con temperatura minima negativa, sono stati solo tre (il 17 dicembre e il 14 e 22 gennaio) contro un valore medio atteso per la stagione invernale di 16.5 giornate; la minima assoluta, -0.5 °C, si è registrata sia il 17 dicembre sia il 14 gennaio. Per quanto riguarda le precipitazioni, l’inverno 2024 è stato caratterizzato da quantitativi di pioggia superiori alla media Clino di oltre 70 mm soprattutto grazie al contributo di febbraio. Gennaio e, in particolar modo, dicembre si sono invece conclusi al di sotto della media pluviometrica. Come accade con sempre maggiore frequenza, le piogge si sono concentrate in singoli episodi molto intensi: degli oltre 175 mm caduti a febbraio, infatti, ben 130 si riferiscono a quattro singole giornate concentrate nell’ultima decade del mese (il 22, 23, 26 e 27 febbraio). Tra gennaio e febbraio ci sono stati addirittura 20 giorni consecutivi senza precipitazioni, a causa del persistere di una robusta alta pressione. Nel corso dell’inverno 2024 non sono stati registrati episodi nevosi.  In genere la ventilazione non è stata particolarmente sostenuta, con quasi l’80% dei casi di vento medio inferiore a 1.5 m/s. Non sono tuttavia mancati episodi di vento forte, associati perlopiù ad eventi di Föhn; la raffica maggiore pari a 53.3 km/h è stata registrata il 2 dicembre.  —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Rifiuti, per carta e cartone più riciclo aggiungerebbe materiale per 1 miliardo di euro al 2030

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(Adnkronos) – Un aumento dei tassi di riciclo del packaging in carta e cartone nell’Unione Europea, anche solo del 9%, potrebbe aggiungere 5 milioni di tonnellate di materiale per un controvalore fino a 1 miliardo di euro ai flussi di riciclo entro il 2030. E’ quanto stima una ricerca condotta da DS Smith, azienda attiva in soluzioni di packaging innovative e sostenibili quotata nel listino Ftse100. I tassi di riciclo di carta e cartone sono in contrazione da cinque anni a questa parte, con una media Ue dell’81% nel 2022. Lo studio condotto da DS Smith dà indicazioni per aiutare a portare questa percentuale al 90%, dando un forte impulso all’economia circolare, con uno dei materiali più riciclati in Europa. Il piano d’azione tiene conto del fatto che la crescita dell’e-commerce contribuisce a un aumento dei consumi di packaging, con nuovi dati che stimano 39 milioni di tonnellate di carta e cartone utilizzate ogni anno dai Paesi dell’Ue entro il 2030.  Lo studio condotto da DS Smith, ‘Wasted Paper: A Pathway To Better Recycling’, rivela inoltre che i tassi di riciclo potrebbero essere maggiori fra le persone più giovani. Infatti, meno di due terzi (62%) degli europei fra i 18 e i 24 anni riciclano la maggior parte della carta e cartone che utilizzano, paragonati all’88% degli over 65. Questo dato potrebbe riflettere una mancanza di comprensione e fiducia nel riciclo, considerato che solo il 62% della Gen Z è convinto che i rifiuti che producono vengano smaltiti correttamente dalle organizzazioni preposte, paragonata al 72% degli over 65. A titolo di paragone, la percentuale di italiani fra 18 e 24 anni che ricicla almeno l’80% della carta e cartone che utilizza è di oltre il 66%, dei quali il 54,6% è convinto che i rifiuti siano smaltiti correttamente dalle autorità e il 31% non ha un’opinione in merito.  L’Italia è in controtendenza, con un tasso di riciclo di crescita media dello 0,4% annuo e proiettato a raggiungere il 90% entro il 2030, svettando tra tutti i Paesi analizzati nella ricerca; rimane tuttavia del lavoro da svolgere, con una proiezione di 3,9 milioni di tonnellate di materiale non riciclato, pari a un valore di 720 milioni di euro da qui al 2030. In generale, i tassi e la domanda di riciclo differiscono tra le nazioni europee, con la Germania che produce tanto materiale di imballaggio in carta e cartone quanto i 24 Paesi che producono meno rifiuti messi insieme. Questo Paese ha comunque un tasso di riciclo superiore alla media, pari all’84%, migliore di altri grandi produttori come Francia (82%), Regno Unito (74%) e Spagna (72%).  Per accrescere i tassi di riciclo, DS Smith si appella ai legislatori europei e nazionali, e alle amministrazioni locali per lavorare di concerto all’implementazione delle seguenti quattro raccomandazioni: “Ove non sia già previsto, legiferare per rendere obbligatoria la differenziazione a livello domestico e nelle strade; introdurre sistemi di riciclo coerenti a livello nazionale; standardizzare le etichette con indicazioni di riciclo e accrescere le iniziative di educazione dei consumatori; creare un impianto legislativo chiaro con l’obiettivo di sostenere gli investimenti delle aziende nel riciclo”.  Per John Melia, Strategy Development and Innovation Director della Divisione Recycling di DS Smith, “carta e cartone sono i materiali di packaging più riciclati in Europa e uno dei materiali che meglio si prestano alla circolarità. Tuttavia, mentre quattro oggetti di carta e cartone sono già riciclati, rimane un enorme spazio di miglioramento, con la possibilità di creare valore economico e migliaia di posti di lavoro, conservando al contempo le preziose risorse del pianeta. Se i legislatori, le autorità locali, le aziende e i consumatori collaboreranno, siamo convinti di poter fare in modo che nessun packaging diventi un rifiuto”. “Nel contesto della ricerca condotta, l’Italia si dimostra particolarmente virtuosa con un tasso di riciclo che parte da una proiezione superiore all’80% nel 2023, a fronte di quasi 5 milioni di tonnellate prodotte, e una proiezione tendenziale che ci dovrebbe vedere raggiungere il 90% nel 2030, ottenendo il migliore risultato tra i Paesi che hanno partecipato al sondaggio. Questo risultato testimonia l’efficacia delle normative e la sensibilità dei cittadini verso i temi della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare. Per DS Smith questo è uno stimolo ad invitare legislatori, industria e cittadini a fare ancora di più per ridurre al minimo le quantità di carta e cartone che rimarranno non riciclati, nel 2030”, aggiunge Paolo Marini, Managing Director di DS Smith Packaging Italia.  DS Smith Packaging è costantemente al lavoro per ridurre l’impatto ambientale del packaging che produce, applicando criteri di circolarità alla progettazione. In particolare, ha recentemente creato un modello di design circolare basato su cinque principi: proteggere adeguatamente il proprio prodotto; ottimizzare dimensioni e peso del pack; pensare all’efficienza lungo la catena di fornitura; riciclare e riutilizzare materiali; continuare a lavorare sulla ricerca. La ricerca ‘Wasted Paper: A Pathway To Better Recycling’ è stata commissionata da DS Smith e condotta da White Space Strategy sulla base di dati raccolti attraverso interviste a 50 esperti (politici, Ong, società di gestione dei rifiuti, autorità locali e altre parti interessate) e sondaggi sui consumatori con 2.000 adulti in tutto il Regno Unito. A livello locale sono state condotte ricerche in Croazia, Francia, Italia, Romania, Portogallo, Germania, Spagna, Regno Unito. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

“Il riciclo della plastica è una truffa”, la denuncia del Center for Climate Integrity

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(Adnkronos) – E se il riciclo della plastica fosse uno specchietto per le allodole? Questa è la tesi dell’associazione statunitense Center for Climate Integrity, secondo cui questa pratica, fondamentale nell’ambito della transizione, sarebbe una “frode”.  L’indagine si riferisce agli Usa e molti osservatori sono critici sulle conclusioni del Center for Climate Integrity.  “Alla base della crisi dei rifiuti di plastica – afferma Cci – c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”. In effetti, negli Stati Uniti il tasso di riciclaggio della plastica era appena il 5%-6% nel 2021.  Secondo Icc, il problema è stato nascosto inducendo in errore i consumatori. La confusione deriverebbe da diversi fattori, in primis i simboli di riciclo utilizzati sui prodotti in plastica. La Society of the Plastics Industry (Spi) ha introdotto i Codici di Identificazione delle Resine nel 1988, i famosi numeri all’interno di un triangolo e con le frecce, un simbolo ampiamente riconosciuto come indicativo della riciclabilità. Tuttavia, questi simboli hanno fuorviato i consumatori, facendo credere che i contenitori in plastica siano composti di materiale riciclato o che siano riciclabili, il che non è sempre vero. Il sistema Ric era stato concepito per semplificare la separazione delle fonti etichettando i contenitori con la loro composizione materiale. Tuttavia, la tendenza a realizzare contenitori con diversi materiali ha reso poco pratiche queste indicazioni. Cci denuncia che la National Recycling Coalition, la no profit statunitense che si occupa di riciclo, ha cercato di affrontare la mancanza di chiarezza nei codici ma ha scoperto che la Society of the Plastics Industry non era interessata a intervenire.
Ma per gli autori del report l’inganno dei consumatori va ben oltre le etichette. Vi sarebbe, infatti, una incomprensione di fondo: a differenza di quanto comunicato, la maggior parte delle plastiche è difficile da riciclare a causa della loro struttura molecolare, che si degrada durante la fabbricazione iniziale, l’invecchiamento e qualsiasi processo di recupero. Una degradazione che porta la plastica riciclata a costare di più nonostante la minore qualità rispetto alla resini vergini. Tutto ciò si traduce in una mancanza d’interesse da parte dei produttori nell’acquisto di resine riciclate, il che giustificherebbe il bassissimo tasso di riciclo in Usa. Nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha concluso che “sembra che attualmente solo due tipi possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il Pet e l’Hdpe”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie. “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, afferma il report. Per gli autori, “le pubblicità del settore, sponsorizzate da singole aziende petrolchimiche o da gruppi di facciata, hanno normalizzato l’idea che la plastica possa essere riciclata tra i consumatori e i politici. Molti di questi annunci confondono in modo fuorviante il successo iniziale e limitato del riciclaggio di Pet e Hdpe con il riciclaggio della plastica in generale”. La confusione dei consumatori sul riciclo della plastica sarebbe stata alimentata dalla promozione dell’incenerimento e della discarica come soluzioni iniziali dall’industria, seguite dal tentativo di spostare l’attenzione sul riciclo come risposta alle preoccupazioni del pubblico e alla pressione regolamentare. Volendo ordinare le cause che, secondo l’associazione, rendono inefficace il sistema di riciclaggio della plastica: – Inganno dei consumatori; – difficoltà nel riciclare le plastiche per: la loro struttura molecolare, l’utilizzo di più materiali insieme, della mancanza di un mercato per le plastiche riciclate; – il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine; – la degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e l’aggiunta di additivi che ne limitano la riciclabilità. Che il riciclo di plastica sia più complesso di quanto sembri era stato già dimostrato da Lego. Nel giugno 2021 l’azienda danese, leader mondiale nella produzione di giocattoli, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini colorati usando la plastica delle bottiglie. Da quel momento, Lego ha investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca puntando sul Pet (polietilentereftalato) riciclato anche noto come Rpet (Recycled Pet). Fino alla triste constatazione: non esiste “un materiale magico” che dia le prestazioni sperate, come ha dichiarato Christiansen al Financial Times. Il Pet avrebbe dovuto sostituire l’attuale materiale utilizzato per la produzione dei mattoncini, ovvero l’Abs (acrilonitrile butadiene stirene), che è a base di petrolio. Dopo anni di studi, Lego ha rinunciato a usare la plastica riciclata perché Il Pet riciclato si è dimostrato meno efficace dell’Abs sia sotto il profilo della performance tecnica, sia (a sorpresa) sotto il profilo delle emissioni. “È come cercare di fare una bici di legno anziché di acciaio”, ha dichiarato il capo del dipartimento che si occupa di sostenibilità ambientale Tim Brooks.  Non solo: è anche emerso che il Pet riciclato avesse una resistenza peggiore di quello “originale” comportando seri rischi di economia circolare, in contrasto con l’Sdg 12 dell’Agenda delle Nazioni Unite che incentiva la lunga vita e il riutilizzo dei beni per ridurre i rifiuti.  A fare chiarezza sulla diffusione del riciclo di plastica è intervenuta l’Ocse con un report del 2022. Da una parte si attesta che negli ultimi 30 anni il consumo di plastica è quadruplicato, dall’altra che la produzione di plastiche riciclate, dette anche secondarie, è più che quadruplicato. Nonostante il riciclo sia aumentato a un ritmo più veloce della nuova produzione, nel 2019 rappresentava appena il 6% della produzione totale di plastica.  Restringendo l’indagine, dal 2000 al 2019 la produzione di plastica è più che raddoppiata ma solo il 9% viene riciclato con successo, registra l’Ocse che denuncia: “Mentre l’aumento della popolazione e dei redditi determina una crescita inarrestabile della quantità di plastica utilizzata e gettata via, le politiche per frenare la sua dispersione nell’ambiente sono insufficienti”. Secondo un recente studio del Jrc (Joint Research Centre) della Commissione europea, in Ue viene riciclato meno di un quinto della plastica , il 16,6% di tutta la plastica utilizzata nel territorio comunitario. Un altro dato del rapporto indica con chiarezza dove intervenire per invertire un trend disallineato con il piano e l’impegno green dell’Unione: il 70% del totale dei rifiuti in plastica inviati al riciclo proviene dal settore degli imballaggi. Una concentrazione che ha portato l’Unione a intervenire in maniera specifica con il regolamento imballaggi, ampiamente criticato dalla politica italiana. A incidere negativamente sul tasso di riciclo europeo è l’esportazione dei rifiuti all’estero, dove non si ha alcuna garanzia sul destino della plastica: “Una così piccola percentuale di riciclaggio di plastica in Europa implica grosse perdite sia per l’economia che per l’ambiente. – spiega lo stesso Parlamento Ue in un dossier – Si stima che il 95% del valore dei materiali per imballaggio di plastica si perda nell’economia dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve”.  In Europa il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica è la termovalorizzazione, seguita solo al secondo posto dal riciclaggio. Il 25% circa dei rifiuti in plastica generati viene smaltito in discarica, mentre metà della plastica raccolta per il riciclaggio viene esportata al di fuori dei confini europei.  È ancora il Parlamento europeo a spiegare perché l’Ue esporti plastica all’estero: mancanza di strutture, di tecnologia e di risorse finanziarie adeguate a trattare localmente i rifiuti. Una situazione che, nel 2020, ha portato le esportazioni di rifiuti europei verso Paesi terzi a quota 32,7 milioni di tonnellate. La maggior parte dei rifiuti è costituita da rottami di metalli ferrosi e non ferrosi, nonché da rifiuti di carta, plastica, tessili e vetro e va principalmente in Turchia, India ed Egitto. In passato una fetta significativa dei rifiuti di plastica esportati veniva spedita in Cina, ma è probabile che il blocco all’importazione dei rifiuti di plastica imposto dal governo di Xi Jinping contribuisca a un ulteriore diminuzione delle esportazioni. Il che non è detto che sia un bene: in assenza di strutture e investimenti ad hoc, il rischio è che aumentino l’incenerimento e la messa in discarica dei rifiuti di plastica in Europa, come spiega il Parlamento europeo. —sostenibilita/rifiutiwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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Tempo di lettura: 2 minuti ֎Esposizione acuta e cronica a particelle polistirene fattore rischio tumore colon. Una ricerca del Cnr dimostra «che le micro e le nanoparticelle di polistirene assorbite dalle cellule del colon umano […]

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Bonus assunzioni per donne vittime di violenza, quanto vale e come funziona

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(Adnkronos) – La recente legge di Bilancio 2024 ha portato una luce di speranza per le donne vittime di violenza in Italia. Un provvedimento che non solo mira a dare loro una nuova opportunità lavorativa ma si impegna anche a fornire un sostegno concreto per favorire la loro autonomia economica. Si tratta di un bonus per le assunzioni di donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del Reddito di libertà che rappresenta un passo avanti significativo nella lotta contro la violenza di genere, offrendo alle donne la possibilità di riguadagnare indipendenza e dignità. La legge prevede un esonero totale dei contributi previdenziali per i datori di lavoro privati che decidono di assumere donne vittime di violenza, nel quadro del programma Reddito di Libertà, nel periodo triennale 2024-2026. Questo significa che le aziende che si impegnano ad offrire lavoro a queste donne saranno esentate dal versare i contributi previdenziali, fino a un massimo di 8.000 euro. “L’articolo 1, comma 191, della legge 30 dicembre 2023, n. 213 (legge di Bilancio 2024), ha stabilito che, in favore dei datori di lavoro privati che, nel triennio 2024-2026, assumono donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del c.d. Reddito di libertà, al fine di favorirne il percorso di uscita dalla violenza attraverso il loro inserimento nel mercato del lavoro, è riconosciuto l'esonero dal versamento dei contributi previdenziali, con esclusione dei premi e contributi all'INAIL, nella misura del 100 per cento, nel limite massimo di importo di 8.000 euro annui riparametrato e applicato su base mensile. In sede di prima applicazione, la previsione di cui al precedente periodo si applica anche a favore delle donne vittime di violenza che hanno usufruito del Reddito di libertà nell'anno 2023”.  La circolare emanata dall'INPS fornisce ulteriori dettagli e istruzioni operative su come accedere a questo beneficio. È importante notare che il bonus è destinato esclusivamente alle donne disoccupate, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti e che siano beneficiarie del Reddito di Libertà. Questo non solo offre loro una possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, ma rappresenta anche un supporto concreto nel processo di uscita dalla violenza. La durata e la misura del bonus variano a seconda del tipo di contratto di lavoro. Per le assunzioni a tempo indeterminato, l'esonero dei contributi dura per 24 mesi, mentre per i contratti a tempo determinato è limitato a 12 mesi. Se, poi, il contratto è trasformato a tempo indeterminato l'esonero si prolunga fino al diciottesimo mese dalla data dell'assunzione con il contratto di cui al primo periodo. È un incentivo prezioso per le aziende che intendono offrire stabilità lavorativa a queste donne, incoraggiandole ad assumere con contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, ci sono alcune condizioni da rispettare per accedere a questo bonus. Ad esempio, l'assunzione non deve violare il diritto di precedenza di altri lavoratori, e non è applicabile in caso di sospensioni dal lavoro dovute a crisi aziendali o riorganizzazioni. È importante che le aziende agiscano in modo etico e responsabile nell'utilizzo di questo incentivo. Inoltre, il massimale dell'agevolazione è fissato a 666,66 euro al mese, con una riduzione proporzionale per i rapporti di lavoro a tempo parziale, che garantisce una distribuzione equa delle risorse e assicura che il bonus sia accessibile a un numero più ampio di donne vittime di violenza. —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

La maternità è sempre un discrimine in Italia

Tempo di lettura: 3 minuti ֎Il tasso di occupazione femminile si attesta al 55%, fanalino di coda nell’Ue dove lavora il 69,3% delle donne. I lavoratori italiani, secondo Eurostat, hanno un salario annuo medio più […]

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Donne e lavoro: sì, ma quale? Ecco i settori a prevalenza femminile

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(Adnkronos) – Parlare di inclusione significa anche considerare la parità di genere nel mondo del lavoro e la parità salariare come due problematiche da affrontare a livello internazionale. Ci sono settori in cui le donne sono quasi totalmente assenti, Paesi in cui le disparità sono più evidenti che in altri territori e “mestieri” nei quali, invece, la componente femminile la fa da padrona.  A restituire una panoramica sul tema sono i dati Eurostat risalenti al terzo trimestre del 2023 che hanno mostrato che la maggioranza degli occupati di età compresa tra i 15 e i 64 anni erano uomini (53,3% media Ue) rispetto al 46,5% delle donne. Nonostante questa disparità, ci sono settori nei quali le donne sembrano primeggiare, ma che potrebbe rivelarsi solo uno spazio alimentato da uno stereotipo generalizzato. Ma vediamo nel dettaglio di quali settori parliamo.    In alcuni dei principali gruppi professionali classificati dall'International Standard Classification of Occupations (ISCO), le donne rappresentavano la quota maggiore: il 65,8% degli impiegati di supporto erano donne, il 63,5% degli addetti ai servizi e alle vendite, il 54,3% dei professionisti, ad esempio scienziati, insegnanti e il 53,0% di coloro che svolgevano professioni elementari erano donne.  Tra i tecnici e i professionisti associati le donne erano equamente rappresentate quanto gli uomini (50,0%).  Al contrario, le donne erano raramente impiegate come artigiane e mestieri affini (11,1%) e come operatrici e assemblatrici di impianti e macchine (17,9%). E tra i manager solo il 34,7% erano donne.   Ma c’è un settore che più di tutti vede le donne primeggiare. Osservando la classificazione ISCO più dettagliata, le donne nell’UE costituiscono la stragrande maggioranza delle persone impiegate in professioni specifiche, tra cui assistenti all’infanzia e assistenti insegnanti (92,6% del totale degli occupati in questa professione nel terzo trimestre del 2023), segretarie (89,3%), insegnanti della scuola primaria e della prima infanzia (88,2%), professionisti infermieristici e ostetrici (87,5%) e colf e aiutanti domestici, alberghieri e d'ufficio (86,5%). Le donne rappresentavano solo una piccola minoranza tra i lavoratori del settore edilizio e affini (1,4% del totale delle persone occupate in questa professione nel terzo trimestre del 2023), tra i lavoratori impiegati nei meccanici e riparatori di macchinari (2,9%), tra gli installatori e riparatori di apparecchiature elettriche (3,1%), lattonieri, carpentieri, scorniciatori, saldatori e operai affini (3,7%) e autisti di autocarri pesanti e autobus (3,8%). —sostenibilita/csrwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Ecocidio, cos’è il crimine ambientale “punibile fino a 10 anni di reclusione”

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(Adnkronos) –
Ecocidio è il reato punibile fino a 10 anni di reclusione. L’ha stabilito la nuova direttiva, concordata con il Consiglio il 16 novembre 2023 e approvata nelle scorse settimane con 499 voti favorevoli, 100 contrari e 23 astensioni. Tra i nuovi reati figurano il commercio illegale di legname, l'esaurimento delle risorse idriche, le gravi violazioni della legislazione dell'UE in materia di sostanze chimiche, e l'inquinamento provocato dalle navi.  Una specifica, voluta dai deputati, ha inserito nel testo i “reati qualificati”. Sono quei reati che portano alla distruzione di un ecosistema, paragonabili a incendi boschivi su vasta scala e inquinamento diffuso di acqua, aria e suolo.  Ma cos’è un ecocidio? Scopriamolo insieme. Il termine “ecocidio” non è una scoperta recente, ma il suo uso nel linguaggio comune fa le prime apparizioni negli anni Settanta, quando comparve per la prima volta nella Conferenza sulla guerra e la responsabilità nazionale a Washington. Venne coniato nel 1970 dal biologo statunitense Arthur Galston per descrivere i danni causati dal cosiddetto “agente arancio”, un defoliante che l’esercito Usa sparse in enormi quantità sulle foreste tropicali durante la guerra del Vietnam. Nel ‘73 Richard Falk, docente di Diritto internazionale fornì la prima analisi legale di questo termine: la distruzione consapevolmente perpetrata di un ambiente naturale.  Da quel momento in poi molti accademici e studiosi di diritto hanno sostenuto la criminalizzazione dell’ecocidio: cioè, far sì che venisse riconosciuto come un crimine internazionale a livello giuridico. Distruggere la vita di un ecosistema ambientale equivale a danneggiare anche la salute di persone coinvolte e/o che vivevano in quel sistema danneggiato.  “Farebbe la differenza tra un piante abitabile e uno non abitabile”, aveva affermato il giornalista George Monbiot al The Guardian in merito all’instaurazione dell’ecocidio come crimine internazionale. E non sono mancate le critiche in merito alla sua stessa esistenza, considerata da una parte anche della stampa italiana come l“ultima follia europea”.  Divenendo un tema divisivo per l’opinione pubblica, il reato di ‘ecocidio’ si è fatto strada, sino a raggiungere le stanze dei decisori politici europei e appropriandosi di un posto tra i reati punibili fino a 10 anni. Chi commetterà reati ambientali, fa sapere il Parlamento europeo, sarà punibile con la reclusione, a seconda della durata, della gravità e della reversibilità del danno. Che si tratti di persone fisiche e rappresentanti d’impresa, i reati qualificati saranno punibili con un massimo di otto anni. Per chi causerà la morte di una persona si rischierà fino a 10 anni e per tutti gli altri reati cinque anni.  Il danno causato dovrà essere risarcito e sarà necessario ripristinare l’ambiente danneggiato. Per le imprese, l’importo dipenderà dalla natura del reato e sarà pari ad una percentuale del fatturato annuo (3 o 5%) o, in alternativa, pari a 24 o 40 milioni di euro. Gli Stati membri potranno decidere se perseguire i reati commessi al di fuori del loro territorio. Una figura emersa durante i negoziati, ma già ben nota a livello internazionale, è quella del whisteblower. Si tratta dell’informatore, il “segnalatore” che denuncia reati ambientali e che sarà sostenuto e riceverà assistenza nei contesti dei procedimenti penali. Può essere interno ad un’azienda della quale scopre gli illeciti o esterno e indirettamente collegato ad essa.  Ulteriori misure a supporto consisteranno nella formazione tramite corsi specializzati per forze dell'ordine, giudici e pubblici ministeri. Redigere strategie nazionali e organizzare campagne di sensibilizzazione contro la criminalità ambientale saranno le prossime mosse. I dati sui reati ambientali raccolti dai governi dell'UE dovrebbero inoltre consentire di affrontare meglio la questione e aiutare la Commissione ad aggiornarne regolarmente l'elenco. "È giunto il momento che la lotta alla criminalità transfrontaliera assuma una dimensione europea, con sanzioni armonizzate e dissuasive che impediscano nuovi reati ambientali – ha dichiarato il relatore per il Parlamento europeo Antonius Manders (PPE, NL) -. Con questo accordo, chi inquina paga. Ma non solo: è anche un enorme passo avanti nella giusta direzione. Qualsiasi dirigente d'impresa responsabile di provocare inquinamento, infatti, potrà essere chiamato a rispondere delle sue azioni, al pari dell'impresa. Con l'introduzione del dovere di diligenza, poi, non ci sarà modo di nascondersi dietro a permessi o espedienti legislativi". La criminalità ambientale si classifica al quarto posto tra le attività criminali nel mondo. Rappresenta una fonte di guadagno per le organizzazioni criminali ed viene dopo il traffico di droga, quello di armi, e la tratta di essere umani. Con la direttiva approvata in Pe, i deputati hanno dato una risposta chiara alle proposte dei cittadini nelle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

I cambiamenti climatici influenzano le disuguaglianze di genere, come e quanto?

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(Adnkronos) – I cambiamenti climatici non sono solo un fenomeno astratto che influisce sulle temperature globali e sui livelli del mare, sono un terremoto sociale che scuote le fondamenta delle comunità più vulnerabili, tra cui le donne rurali, le fasce povere della popolazione e gli anziani. Questi gruppi, già marginalizzati dalla società, subiscono un impatto sproporzionato dalle condizioni meteorologiche estreme e dalle variazioni climatiche, come sottolinea un nuovo rapporto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO). Il rapporto, intitolato 'Unjust Climate' (Il Clima Ingiusto), rivela una realtà agghiacciante: ogni anno, nei paesi a basso e medio reddito, le famiglie a guida femminile nelle zone rurali subiscono perdite finanziarie nettamente maggiori rispetto ai nuclei familiari con uomini capofamiglia. Questa disparità è evidente, con le famiglie guidate dalle donne che perdono mediamente l'8% in più del reddito a causa dello stress termico e il 3% in più a causa delle inondazioni rispetto ai loro omologhi maschili. In termini monetari, questo si traduce in una perdita pro capite di 83 dollari per lo stress termico e di 35 dollari per le inondazioni, rappresentando un totale di 37 miliardi e 16 miliardi di dollari rispettivamente in tutti i paesi a basso e medio reddito. E se le temperature medie dovessero aumentare anche solo di 1°C, queste donne subirebbero una perdita del reddito totale del 34% superiore rispetto agli uomini. Ma le conseguenze non si fermano qui. Lo studio indica che le barriere socio-economiche, come l'accesso limitato alle risorse e ai servizi, aggravano ulteriormente la vulnerabilità delle popolazioni rurali. Le donne si trovano spesso a fare i conti con norme e politiche discriminatorie che sovraccaricano loro di responsabilità domestiche e di cura, limitano i loro diritti alla terra e ostacolano il loro accesso a informazioni, risorse finanziarie e tecnologie cruciali. Gli anziani, d'altra parte, si trovano spesso senza opportunità di lavoro al di fuori dell'ambito agricolo, rendendo i loro redditi ancora più vulnerabili agli eventi climatici estremi. E quando queste condizioni meteorologiche avversate si manifestano, le famiglie rurali impoverite sono costrette a strategie di sopravvivenza inadeguate, come la vendita del bestiame e la riduzione dei flussi di reddito, che non fanno che acuire la loro vulnerabilità a lungo termine. Ma cosa stanno facendo i governi per affrontare questa crisi? Il rapporto rivela un quadro preoccupante: solo una piccola percentuale delle azioni per il clima proposte menziona specificamente le donne, gli anziani o le comunità rurali. Eppure, l'urgenza di rispondere a queste sfide è più grande che mai. Analogamente, una parte esigua dei finanziamenti per il clima tracciati nel 2017-2018 è stata destinata alle misure di adattamento ai cambiamenti climatici, con una percentuale ancora inferiore destinata all'agricoltura, alla silvicoltura e ad altri investimenti legati all'agricoltura, mentre solo una frazione minima ha raggiunto i piccoli produttori. Le politiche agricole attuali non affrontano adeguatamente le sfide della parità di genere e dell'emancipazione femminile, specialmente in relazione ai cambiamenti climatici. Un'analisi delle politiche agricole in 68 paesi a basso e medio reddito ha rivelato che la maggior parte di esse non considera il legame tra condizione femminile e cambiamenti climatici. Il rapporto esorta quindi a investire in politiche e programmi che comprendano la complessità delle vulnerabilità climatiche delle popolazioni rurali e affrontino le loro specifiche difficoltà, inclusi l'accesso limitato alle risorse produttive. Raccomanda inoltre di creare sinergie tra programmi di protezione sociale e servizi di consulenza per incoraggiare l'adattamento e compensare gli agricoltori per le perdite subite. Sono necessarie anche metodologie trasformative di genere che sfidino direttamente le norme discriminatorie e permettano alle donne di partecipare attivamente alle decisioni economiche che influenzano la loro vita. Queste azioni possono contribuire a ridurre le forme di discriminazione radicate che spesso limitano il coinvolgimento delle donne nelle decisioni economiche. L'analisi sottolinea la necessità di interventi mirati che consentano alle varie popolazioni rurali di adattarsi ai cambiamenti climatici. Questo richiede un impegno politico e finanziario più significativo a livello globale e nazionale, con un'enfasi particolare sull'inclusione e sulla resilienza nelle politiche climatiche. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

L’Aquila, quella scuola è a rischio

Tempo di lettura: 5 minuti Tolti gli isolatori sismici per migliori infissi ֎Accorato appello di Alessandro Martelli. Per la sicurezza dei bambini che la frequenteranno, si reinstallino gli isolatori sismici nella nuova scuola per l’infanzia […]

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La parità di genere fa crescere un Paese

Tempo di lettura: 5 minuti ֎Nel campo dell’istruzione, dove le donne superano gli uomini da anni, la mancanza di donne nelle discipline Stem (Scienza Tecnologia Ingegneria Matematica) è diventata critica. Oggi in Europa solo il […]

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Quanto inquina produrre la neve artificiale?

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(Adnkronos) – Sciare è bello, ma la neve cade sempre meno copiosa sul territorio italiano a causa del surriscaldamento climatico. Tanto che da anni si provvede a produrre e sparare neve artificiale per far sì che gli impianti sciistici continuino a popolarsi, che il turismo continui a girare. Questa tecnologia è diventata di vitale importanza per l’economia di alcune zone di Italia, che dipendono dal successo della stagione invernale e, più in particolare, sciistica. La produzione di neve artificiale si rese necessaria in primis per le competizioni agonistiche. La prima edizione dei giochi olimpici invernali nella quale fu inevitabile ricorrere a sistemi di innevamento artificiale fu quella che si svolse a Lake Placid nel 1980. Inizialmente, la neve artificiale era considerata una soluzione “di emergenza”, ma negli anni a seguire è diventata sempre più comune nelle località turistiche. Si arriva allora alla fatidica domanda: quanto costa la neve artificiale alle strutture sciistiche e all’ambiente? Tanto, in entrambi i sensi. Sotto il profilo ambientale, i consumi sono essenzialmente di due tipi: energia elettrica e acqua. Sul primo punto bisogna evidenziare che solo raramente si ricorre a fonti di energia rinnovabile, e quindi c’è un grande dispendio economico, ma soprattutto ambientale, visto l’utilizzo di fonti fossili. La stessa National Geographic parla di una “enorme impronta di carbonio” lasciata nell’atmosfera da questi impianti. Computo ambientale negativo anche sotto il profilo idrico, dal momento che l’acqua viene prelevata dalle fonti locali con un enorme impatto negativo sulla disponibilità di acqua potabile e sulla vita acquatica nelle zone circostanti. Un problema che, chiaramente, non riguarda solo l’Italia. Secondo le stime del centro di ricerca Cipra per innevare un ettaro di piste occorre 1 milione di litri di acqua, per i circa 25000 ettari delle piste alpine in un anno si prelevano 95 milioni di metri cubi d’acqua, pari al consumo di una città di oltre un milione di abitanti.  Sotto il profilo dell’energia elettrica, occorrono circa 3.5 kWh per metro cubo di neve, una stima per la Francia indica che ogni anno, per produrre neve artificiale, si produce energia come per 130.000 famiglie di 4 persone. Il tutto al netto dei danni provocati all’ambiente e all’ecosistema dalla costruzione degli impianti, soprattutto perché la neve artificiale resta in alcuni tratti di montagna anche a primavera inoltrata, quando, per natura, non dovrebbe esserci. Sotto il profilo dei costi per le strutture, un metro cubo di neve costa 3-4 euro, un costo che sale quando si inneva in condizione termiche al limite. Innevare completamente una pista da discesa libera in assenza di neve naturale può arrivare a costare 250.000 euro. Alcuni ricercatori dell’Università di Basilea, in Svizzera, stanno svolgendo ricerche sull’innevamento tecnico e sui consumi idrici correlati sino al 2100. Il titolo della notizia pubblicata sul sito dell’Università in relazione al paper è abbastanza eloquente: “Sciare durante le vacanze di Natale non è più garantito, nemmeno con gli sparaneve”. L’anno scorso, per la prima volta, la temperatura media globale ha superato i +2°C rispetto al periodo preindustriale e, nonostante l’impegno più o meno di facciata di enti e aziende, negli anni a venire non si prevede un miglioramento. Anzi, dalle simulazioni delle condizioni meteorologiche dei prossimi anni, secondo i ricercatori emerge un dato: sarà sempre più difficile garantire stagioni sciistiche lunghe come quelle di oggi. Prima di vedere le condizioni che consentono di produrre neve in questo modo, diamo uno sguardo al processo, molto sofisticato, che porta alla produzione della neve artificiale. Appositi “cannoni” vaporizzano l’acqua in minuscole goccioline. Queste vengono immesse in aria attraverso ugelli e portate a distanza con grosse ventole o pressurizzando l’acqua. Esistono due sistemi per produrre neve artificiale: a bassa pressione (cannoni), o ad alta pressione (lance posizionate in alte aste). Dietro, ci sono tubazioni che richiedono scavi, macchinari, sale di controllo e spesso appositi bacini idrici artificiali. Ben circa 150 sono stati realizzati nelle Alpi. Infatti, anche la neve artificiale ha bisogno di determinate condizioni metereologiche: queste tecnologie, infatti, non usano sistemi di refrigerazione e se le temperature esterne non sono abbastanza basse (sotto lo zero) producono solo acqua. La temperatura ideale va dai -2°C ai -4°C. Fondamentale anche il tasso di umidità, che deve essere molto basso. Se l’aria è particolarmente secca, gli impianti riescono a creare neve artificiale anche con temperature leggermente sopra lo zero. Il vento è un fattore di disturbo, perché può danneggiare i cristalli di ghiaccio che compongono i fiocchi di neve, facendoli disaggregare. Malgrado i miglioramenti tecnologici, la neve artificiale resta diversa dalla neve naturale e risulta più dura e densa. Il che è un risultato positivo per l’impianti sciistici, dato che la neve artificiale rende le piste più compatte e più veloci. Esiste anche il cosiddetto “innevamento programmato”: quando l’impianto rileva le condizioni atmosferiche opportune si avvia in automatico e spara acqua che viene trasformata in neve. Dallo studio elvetico emerge che negli anni a venire sarà necessario una quantità sempre maggiore di acqua per avere un manto nevoso idoneo all’attività sciistica.  Non sempre, però, l’innevamento artificiale viene fatto per assenza di neve naturale. A volte la neve artificiale viene utilizzata anche in presenza di abbondante neve naturale per rispondere al crescente interesse verso l’attività sciistica. Il che, chiaramente, aumento l’impatto ambientale di questa tecnica. Le risorse necessarie per produrre neve artificiale creano danni anche sotto il profilo sociale, altro aspetto cruciale dell’ambito Esg.  La principale autrice dello studio elvetico, la dott.ssa Maria Vorkauf, ha spiegato che, nel corso di pochi decenni, le riserve idriche sempre più scarse potranno causare situazioni di conflitto legate alla gestione dell’acqua, che in montagna viene utilizzata anche per gli impianti idroelettrici. Non a caso, da anni la neve artificiale è oggetto di critiche da parte di organizzazioni ambientaliste e di contenziosi sociali per l’uso delle risorse idriche. I consumi infatti sono veramente elevati, comportando costi che spesso sono sostenuti da contributi pubblici. I problemi connessi all’impatto ambientale degli impianti sono noti e da tempo si cerca di capire come minimizzarli attraverso tecnologie, materiali e buone pratiche che consentano di ridurre l’impatto ambientale (energia elettrica, acqua, danni sull’ecosistema). Per questo si sta cercando il modo per: – alimentare le strutture utilizzando
fonti rinnovabili
; – riutilizzare e riciclare le acque impiegate dagli sparaneve  Un esempio in tal senso viene dagli ultimi giochi olimpici invernali, quelli di Pechino 2022 a cui il Cio (Comitato olimpico internazionale) chiedeva di garantire la neutralità delle emissioni.  Per raggiungere quest’obiettivo l’organizzazione delle Olimpiadi ha utilizzato le fonti rinnovabili per alimentare tutti gli impianti e, per ridurre l’impatto ambientale legato all’innevamento artificiale, ha introdotto sofisticati sistemi di refrigerazione a CO2 naturale, alimentati da energia pulita, con l’obiettivo di ridurre notevolmente le emissioni di carbonio connesse ai processi di raffreddamento dell’acqua.  Come ultimo punto della strategia, gli organizzatori di Pechino 2022 hanno anche previsto un sistema per recuperare l’acqua disciolta dalla neve artificiale convogliandola in serbatoi locali.  Spunti da non perdere di vista se si vuole che la transizione ecologica sia effettiva e conciliabile con le attività turistiche ed economiche. Un approccio del genere può evitare che le promesse green, almeno quelle, non si sciolgano come neve al sole. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)