Far interagire le «diversità»

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Se ci fermiamo a riflettere sulle nostre capacità di produrre e far interagire le «diversità» e, poi, di determinare cambiamenti, nei molti contesti operativi delle realtà umane (nelle attività artistiche, economiche, scientifiche; nella cura e sviluppo delle tradizioni e delle culture; nei modi di pensare e di comunicare…), c’è da rimanere sorpresi per quanta positività creativa e vitale possiamo mettere in gioco nelle nostre attività fisiche e mentali.
L’uomo, pur se non sempre nel breve periodo, mostra grandi capacità di agire come attore consapevole delle proprie potenzialità di immaginare, progettare e realizzare nuove opere, di cambiare mentalità e comportamenti. A fronte di tanta positiva «diversità» di espressione umana (condizione necessaria per una condivisione delle visioni del mondo, delle intenzioni e delle valutazioni che portano a fare consapevoli scelte di progresso sociale) è legittimo interrogarsi sul «perché», tanta intelligenza, poi, venga meno quando dalla finanza, dalla cultura, dalle attività relazionali, gli stessi individui o le loro stesse comunità, passano a «praticare» la gestione delle risorse e dei consumi.
In una realtà come quella attuale (nella quale l’economia di scala, le mode, le rendite di posizione, i meccanismi di produzione, la commercializzazione e il consumo, sono i fattori che indirizzano il mercato dei beni e dei servizi) i percorsi sembrano essere solo quelli già tracciati dal razionalismo ideologico dell’economia del mercato dei consumi e dall’inarrestabile e devastante prassi della produzione del maggior profitto di parte, se non proprio individuale. Ci troviamo così tutti costretti ad adattarci ad un mondo infertile (paralizzato dalla mancanza di scelte alternative) e a uniformarci acriticamente alla inevitabilità dei dati di fatto, che certamente non hanno la «diversità» delle nostre personali e più profonde aspirazioni.

Cambiano i modelli di auto, ma il sistema di trasporto rimane ancorato indissolubilmente alla logica della uniformità dei consumi, piuttosto che alla diversità degli incontri.
Cambiano i gusti culturali, ma i sistemi che li producono e li esprimono rimangono immutati nelle loro strutture e confinati in ruoli e spazi fisici sempre identici a se stessi: attori e spettatori che (replicando, anche in questo caso, il binomio produttore/consumatore) recitano sempre lo stesso copione in programmi audio o video, tutti unicamente collassati sulle esigenze dell’«audience», in programmi, cioè, con molte inutili chiacchiere sull’esistente e con sciatte, prevedibili e, forse, anche preconfezionate risposte.
Abbiamo, ancora, troppe pagine dedicate ad una letteratura ispirata da sole accattivanti suggestioni o, peggio, da volontà preordinate a impedire «visioni alternative» e a proporre solo formalità «diverse» di racconto: pagine nelle quali la «diversità» delle situazioni e dei pensieri, non di rado, è anche usata come «arma» per radicalizzare distanze e contrapposizioni. Abbiamo troppe pagine scritte per alimentare paure irrazionali e impulsive verso la «diversità» e per ridurre tutto alle sterili «certezze dicotomiche», deviate e devianti, del «bene» e del «male», del consenso/dissenso, se non proprio per attivare le ragioni dell’odio e dello scontro; pagine in cui si vantano infondati e rovinosi riferimenti autoreferenziali, «verità assolute» ed improbabili difese di «civiltà» di ambigua superiorità.
Anche i palchi


e le platee dei teatri (luogo di incontro fisico diretto fra attori e spettatori) sono a volte condizionati dalle suggestioni sceniche da consumare, piuttosto che dalla «diversità» delle riflessioni e dei confronti sul senso del comunicare e sulla pregnanza dei temi presentati.
Cambiano i meccanismi e il galateo delle relazioni sociali, ma i momenti emblematici del vivere rimangono un «lavoro» sempre «uguale» a se stesso, che mercifica l’uomo, quando anche non ne distrugge la dignità fino a mettere drammaticamente fine alla sua sopravvivenza.
Cambia il «divertimento», ma il tempo, ad esso dedicato, definito «libero», è tale solo di nome, perché, di fatto, rimane prigioniero di quella «unica» alternativa dell’«intrattenimento» proposto come evasione dalla «realtà», luogo che sempre più rischia di connotarsi irreversibilmente, ai nostri occhi, come tetro contenitore di un nostro insopportabile ed inviolabile destino.