Il regno della biodiversità

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Nel 1642 il quinto Dalai Lama pubblicò un decreto per la protezione dell’ambiente naturale, che è stato puntualmente rinnovato di anno in anno. I Tibetani vivevano in armonia con l’intero creato, guidati dalla credenza buddista secondo cui tutti gli elementi naturali sono strettamente interconnessi. Non occorreva creare parchi e riserve, perché la religione predicava il rispetto dell’ambiente e vietava la caccia, il che era sancito anche da un decreto del 1901 ad opera del tredicesimo Dalai Lama. Le foreste che ricoprivano i ripidi pendii delle valli fluviali nel sud-est ospitavano più di 100.000 specie di piante secolari, alcune delle quali rare ed endemiche, e ricoprivano un’area di oltre 25 milioni di ettari che si è ormai ridotta dell’80%.
Si tratta prevalentemente di conifere tropicali e subtropicali come l’abete rosso, il pino, il larice, il cipresso, la betulla e la quercia. La loro densità media era di 272 metri cubi per ettaro che, nella regione dell’U-Tsang, salivano a 2.300, primato mondiale per una vegetazione a conifere. Vi erano inoltre più di duemila varietà di piante medicinali e, del solo rododendro, la metà di tutte le specie esistenti. Una biodiversità paragonabile a quella della foresta Amazzonica, che ha pagato lo scotto allo sfruttamento economico: i ritmi del disboscamento sono aumentati man mano che nuove strade penetravano le regioni più remote, sino a divenire insostenibili. Basti pensare che, nella sola zona del Kongpo, i prigionieri tibetani e più di 20.000 soldati cinesi sono tutti impegnati negli abbattimenti e nel trasporto del legname.