L’ostinazione di un agronomo

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Frammenti di vita importanti anche per chi scrive, figlio di contadino, adolescente nella prima metà degli anni Settanta, viveva il Gargano così com’era, o com’era stato per altri secoli prima, in cui ad esempio, lo scorrere del tempo si misurava con il tempo dei frutti: il tempo della vendemmia, il tempo delle olive, il tempo delle ciliegie, il tempo delle arance, il tempo delle pere ciccantonio, il tempo delle pere spadone, il tempo delle pere invernali. I tempi dei frutti, che in fondo regolavano la vita anche ad uno studente che doveva cimentarsi con versioni di latino e greco; tempi, segnati da precise coordinate che risultavano fisse, immutabili.
Quando cercavo di spiegare a mia madre il moto di rotazione della terra, ella mi rispondeva semplicemente: «Io quell’albero di ciliegio sempre lì fermo l’ho visto». Anche per un liceale, fissa, immutabile, eterna, risultava quell’immagine del vecchietto che coltivava la sua vigna, che si arrampicava al suo ciliegio. Altrettanto eterni erano le immagini di grandi alberi di ciliegio, peri, i profumi di arance e limoni. Tali risultavano anche i paesaggi di uomini e donne che animavano le campagne del Gargano. Certo, erano immagini di dura fatica, sofferenza, ma sembravano meno drammatiche di ciò che in realtà erano: una nebbia di tanti e tanti colori e profumi li avvolgeva, rendendoli pieni di vita, di felicemente «eterno»; i colori erano quelli dei tanti e tanti alberi, i profumi erano quelli dei loro frutti.
Gli anni universitari mi catapultano in una realtà completamente diversa, nuova, interessante, che mi cancella del tutto, quelle coordinate su cui si era costruita la mia esistenza. Nelle facoltà di Agraria si studiano cose «nuovissime» che affascinano: varietà di grano, mele, pomodoro che producono quantità di frutti, impensabili per i contadini del mio Gargano. Fitofarmaci che sconfiggono ogni insetto, ogni patologia. Mucche che riuscivano a produrre fino a 40 litri di latte al giorno. Una vera e propria rivoluzione! E l’agricoltura del mio Gargano, con viti, ciliegi, peri tutti insieme su uno stesso fondo? E le mie magre mucche podoliche che fine faranno? «E normale che spariranno! – mi rispondevano grandi luminari come il prof. Di Cocco, o Patuelli – Servono terreni profondi, pianeggianti sui quali potere meccanizzare ogni operazione colturale. Dobbiamo sfamare gli italiani. Si deve produrre di più e allora i terreni come quelli del Gargano non sono idonei. Purtroppo devono essere abbandonati». Tanto ci sarà l’industria che darà lavoro a tutti!
Mi ricordo le sensazioni di sconfitta, di amarezza, di fronte a queste affermazioni. Il senso di sconfitta si trasforma in rabbia. Decido di fare una tesi proprio sul mio Gargano. M’incoraggia la disponibilità di una straordinaria professoressa di Economia Politica, Elda Pedrini. La tesi, era che le agricolture come quelle del Gargano non potevano «sparire» anche per il ruolo sociale (ambientale ed economico) che potevano continuare a svolgere in quelle realtà. Questo ruolo poteva essere meglio riconosciuto con le Comunità Montane che proprio in questi anni stavano nascendo, come specifici enti di governo delle


tante realtà interne (zone montane) che non avevano mai conosciuto attenzioni governative. Il giorno che discuto la tesi fu di grande amarezza perché la prima cosa che la commissione mi chiese fu semplicemente: «Che c’entra questa tesi in una Facoltà di Agraria?». Che c’entra, era questo il senso, questa tua argomentazione in una Facoltà di Agraria impegnata su tutti i fronti a «sfornare» scienza e tecnologia per far produrre di più. Quando si sta dimostrando che basta un terzo della superficie agricola attuale per produrre il triplo di quello che prima producevamo con circa 15 milioni di ettari?
Dopo la laurea e qualche altra esperienza, nella prima metà degli anni Ottanta ritorno nel Gargano. È difficile spiegare la sensazione che si provava. Sembrava che non ci fossi mai nato in quel mio paesello. Cinque anni appena erano bastati a cancellare ogni mio legame con quella terra che mi aveva visto nascere e per un bel po’ crescere. Non mi riconoscevo, non riconoscevo. La vigna di mio padre con suoi «mille frutti» non c’era più; non c’erano più le tante vigne, o i tanti frutti con cui fissavo lo scorrere del tempo. Per i primi anni superai queste sensazioni, ma poi il mio lavoro di agronomo mi fa ritornare a girovagare tra le campagne del Gargano. E qui che succede qualcosa di nuovo. Mi rendo conto che era veramente cambiato il mio paesaggio. Ecco la causa del mio non riconoscermi.
Mi mancavano i riferimenti e, ciò che mi amareggiava maggiormente, era la difficoltà anche di immaginare com’era, di ricostruirlo anche con la fantasia. A volte però bastava un profumo, un sapore di una fragola, di una Ciliegia napoletana, a ridisegnare immediatamente nella mia mente una scena, un paesaggio, un angolo, di com’era la campagna del Gargano. Ma erano immagini sempre sbiadite, incompiute, che poi si scomponevano con immediatezza (ero troppo piccolo quando le avevo vissute). Il senso di amarezza, che ancora oggi mi affligge, mi basta un banale profumo o l’immagine di una casetta abbandonata per scatenarlo, era dovuto proprio a questo: la difficoltà di ricostruirlo almeno nella mente il paesaggio. In questi anni (seconda metà degli anni Ottanta), infatti, si potevano toccare con mano i segni e le conseguenze di quell’esodo (fisiologico si diceva in ambito accademico) che si era tradotto non solo nell’abbandono di tradizionali attività agricole ma in un vero e proprio abbandono del territorio, responsabile di un totale degrado del paesaggio che di quei luoghi costituiva l’identità.
Il tutto era avvenuto così in fretta che risultava difficile percepirne tutte le dinamiche, ma evidentemente non si aveva la consapevolezza che l’oggetto del cambiamento era il paesaggio che non solo cambia ma può cancellarsi velocemente ed in modo definitivo. Ruderi diroccati, tratturi, sentieri cancellati, vigne invase dal bosco, sorgenti inquinate, centri storici fatiscenti, muretti a secco crollati, chiese di campagna abbandonate, casette rurali, alberi di ciliegio, arancio, peri seppelliti da rovi ed erbacce, ecc..: quasi un day-after da «bomba atomica». Non è una esagerazione!. È questa


la sensazione di uno che in fondo lo aveva appena visto ciò che era (erano i miei ricordi infantili). Immaginate la sensazione dell’allora sessantenne, o dell’emigrato che vi tornava dall’Australia o dalla Germania. Molti, infatti, non sono più tornati probabilmente per non vivere una vera e propria crisi d’identità.
Questi sono ancora oggi gli scenari delle zone interne italiane ed in particolare del nostro meridione.