Sradicata una cultura

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Analogo destino è toccato all’agricoltura: da sempre basata sui metodi del biologico, poi rivoluzionata per il lievitare delle necessità alimentari e la scelta di esportare parte dei prodotti. I cicli naturali sono stati stravolti: le alte rese del frumento, oltre 2.000 kg/ha contro i 1.800 del Canada e 1.700 della Russia, ne hanno intensificato la coltivazione a scapito della tradizionale alternanza con altre varietà. Abbandonata la rotazione delle colture, si è preso a sfruttare ogni tipo di terreno, inclusi i pendii, e si è innescato un ciclo vizioso in cui il governo cinese ha creduto di ovviare alla desertificazione costringendo gli agricoltori ad impiegare semi ibridi, antiparassitari e fertilizzanti di sintesi. Nel frattempo ha giustificato la decisione d’isolare le zone montuose e vietarvi il pascolo con la necessità di procedere al rimboschimento.
Il governo tibetano in esilio e le organizzazioni che, da ogni parte del mondo, si battono per il Tibet dubitano della reale efficacia di tali provvedimenti, considerandoli poco più che mere strategie d’immagine. Essi affermano che non si possono risolvere problemi tanto gravi con l’istituzione propagandistica di alcune riserve naturali e che, in ogni caso, lo scarso accesso alle informazioni non permette di valutare eventuali progressi. In effetti l’interesse per la tutela ambientale in Tibet è ampiamente sbandierato da parte delle fonti ufficiali e dei mezzi di comunicazione. Ne è un esempio la «China Radio International», l’unica emittente di stato per l’estero, specializzata nel divulgare notizie amene e rassicuranti a proposito del Tibet. Non a caso lo scorso 17 maggio ha evitato di menzionare le manifestazioni organizzate a Dharamsala e presso le ambasciate cinesi di molti paesi, nel decennale dell’arresto del Panchen Lama, la seconda autorità religiosa dopo il Dalai Lama. Egli fu arrestato all’età di sei anni insieme alla sua famiglia e, a tutt’oggi, è il più giovane prigioniero politico al mondo.

Non solo Panda

Il panda gigante è il più famoso, forse perché adottato quale mascotte dalla Cina, ma sull’altopiano ci sono altre ottantuno specie a rischio tra mammiferi, uccelli, anfibi e rettili. Il trend attuale fa presumere la scomparsa di un gran numero di specie, talvolta addirittura prima che se ne scopra l’esistenza e le si possa studiare. D’altro canto, già nel 1990, nella lista rossa dell’International Union for Conservation of Nature, ben trenta delle varietà a rischio erano tibetane. Si tratta di un’altra delle emergenze ambientali da imputarsi alla colonizzazione, se non altro perché lo sfruttamento agricolo intensivo ha decimato le piante commestibili che costituivano la riserva di cibo invernale per gli animali selvatici.
Un tempo le foreste dell’altopiano davano rifugio ad un gran numero di animali selvatici quali la lepre e l’orso nero himalayani, il burdocade, il cervo muschiato, lo yak selvatico, la gazzella e l’antilope tibetane, il panda rosso, la lince e il leopardo delle nevi. Quest’ultimo è minacciato non solo dalla frammentazione dell’habitat, ma anche dall’apprezzamento per la sua pelliccia e dall’utilizzo di parti del corpo nella medicina tradizionale cinese. D’altro canto


i colonizzatori non hanno rispettato i preesistenti divieti di caccia e, anzi, hanno attivamente incoraggiato lo sterminio di animali in via di estinzione. Esistono numerosi rapporti sull’abitudine dei soldati cinesi di cacciare con armi automatiche gli yak e gli asini selvaggi a scopo di passatempo. In altri casi il movente è di tipo economico: i permessi per cacciare l’antilope tibetana e l’argali, un raro tipo di pecora selvatica, fruttano rispettivamente 35.000 e 23.000 dollari americani e i media cinesi pubblicizzano regolarmente i tour di caccia organizzati per i turisti. Ossia: le specie sono propagandate come protette al massimo livello e ciò ne aumenta il valore sul mercato clandestino, rendendole trofei ancora più ambiti. La carne delle antilopi, delle gazzelle e degli yak selvatici viene comunemente venduta nei mercati cinesi e, in parte, esportata per le ricette «esotiche» dei vari ristoranti etnici, inclusi quelli europei. Anche la moda è complice di questo sistematico eccidio: per lo «Shatoosh», il finissimo manto di lana, ogni anno vengono sacrificate 20.000 antilopi tibetane (Chiru) tra Cina e Tibet. Per tessere un solo scialle è necessario scuoiare da un minimo di tre ad un massimo di cinque capi. Benché dal 1975 il Chiru figuri tra le specie protette dalla Cites (Convention on International Trade in Endangered Species), i traffici illegali del filato proseguono a pieno ritmo. Infatti, secondo l’International Fund for Animal Welfare and Wildlife Trust dell’India, negli ultimi cinquant’anni il numero di esemplari è crollato da un milione a circa 75.000.