Trasparenze armate

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In Israele e in Palestina si votano i governi secondo criteri diversi ma sostanzialmente democratici. Lo Stato israeliano è, perciò, democratico. Non appare, però, altrettanto evidente che anche in Palestina c’è democrazia: questo, forse, è solo perché la definizione di Stato non le viene formalmente riconosciuta. In Palestina, uno Stato esiste ma non traspare nelle prospettive a noi formalmente visibili.

Senza un possibile riferimento a uno Stato, la Palestina non può definire una costituzione: nella pratica della gestione politica dei suoi territori e delle sue comunità, fa riferimento (anche con scelte fondamentaliste di alcuni gruppi) a principi tratti dal Corano. Lo Stato israeliano, che si propone come Stato laico, pur potendo definire una propria costituzione (a garanzia sia dei diritti e doveri di suoi cittadini e delle loro comunità, sia dei riferimenti per le proprie relazioni internazionali) ha solo leggi che regolano i meccanismi, di tipo democratico, per la nomina dei delegati e per la formazione dei Governi. Di fatto tutto è demandato alle scelte di un parlamento, solo democraticamente eletto, che sostanzialmente fa, poi, riferimento (anche con posizioni fondamentaliste) a principi tratti dalle loro Sacre Scritture.
Due paesi dunque che, pur in modo diverso, presentano anche riferimenti a posizioni fondamentaliste di origine religiosa, con tutte le immaginabili conseguenze. La Palestina, come espressione di una comunità mussulmana, trova le verità nelle parole del profeta Maometto comprese quelle sulla guerra contro gli infedeli, fino alla loro morte. Israele, come Stato ebraico, trova, invece, i propri riferimenti, nelle parole di Mosè che propongono l’immagine di un popolo eletto, destinato a vincere le sue guerre per il ritorno e la difesa della sua Terra Promessa, quella dei Palestinesi compresa.
In questo stato delle cose è evidente quanto sia concretamente impossibile una conciliazione fra le loro diverse posizioni, irrimediabilmente contrapposte, senza correre il rischio di rendere più incombente un loro inestinguibile scontro mortale. Attualmente, la prospettiva di un termine, a questo stato continuo di conflitto, non sembra essere la pace fra i due popoli, ma, sostanzialmente, una drammatica e disumana soluzione finale di distruzione totale dell’avversario che il più forte dei due sarà capace di imporre. Sono molti i segnali che minacciano continuamente una simile soluzione, dalle pressioni militari e terroristiche che mettono in crisi la sopravvivenza umana in particolari territori, alle tregue tradite, all’offerta di condizioni di pace inaccettabili, al cinismo sostanziale con il quale le due parti rispondono alle iniziative di pace internazionali (iniziative sospettate, da entrambi i governi, di dare sostegno alle strategie dell’avversario). Fra occupazione di territori, provocazioni, prepotenze, attacchi mortali anche contro la popolazione civile da una parte e atti terroristici dall’altra, neanche le risoluzioni Onu sono riuscite a fermare le più spietate azioni con le quali i due popoli (che credono nello stesso Dio) sembrano determinati a una reciproca distruzione.