Ricerca scientifica, tecnologie, democrazia e rischi occulti…

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Casi come la sentenza del tribunale di Torino sono una rarissima eccezione, ma ancora una volta la sede giudiziaria diventa sostitutiva di un processo di decisione democratica, informato e partecipato: a nessuno è venuto in mente, per esempio, di chiederci se a fronte di vantaggi diffusi di queste nuove tecnologie siamo disposti ad esporci agli eventuali rischi che ne derivano? Certo che no; si cerca in tutti i modi di nascondere i possibili rischi, e di oscurare la ricerca scientifica che se ne occupa

Anche per chi ha un livello di istruzione elevato, non è affatto facile farsi una idea precisa di gran parte della produzione scientifica specialistica oggi disponibile sulle riviste di settore; tanto meno per chi ha la sfortuna di un livello di formazione medio-basso.

Non aiutano nemmeno gli sforzi divulgativi dei media e di riviste specifiche, che tentano di tradurre in linguaggio e concetti facilmente comprensibili gli avanzamenti della scienza nei vari campi.

In questo passaggio, infatti, alla schematizzazione e semplificazione dei concetti e risultati scientifici, spesso si associano due fenomeni correlati che rischiano di falsarne pesantemente il significato e la valenza.

Da un lato viene dato spazio ad una certa valenza «assoluta» dei risultati e delle scoperte scientifiche di cui si tratta, ignorando così un metafondamento proprio della scienza, ovvero il dubbio sistematico, anche a fronte di altri risultati scientifici che magari non confermerebbero affatto quanto viene propalato; dall’altro si indulge quasi sempre nella proposizione di scenari applicativi di tali prodotti scientifici, anche quando trattasi di ricerca di base, come se il passaggio dalla scoperta alla sua applicazione sia automatico e debba sfuggire ad ogni sorta di controllo o valutazione di accettabilità del resto della società.

Il concetto vale anche per i prodotti della ricerca applicativa, laddove una scoperta, o meglio una nuova applicazione o invenzione, venga presentata come panacea risolutiva di problemi globali o capace di introdurre cambiamenti di stili e modelli di vita e di consumo applicabili all’intera comunità sociale, senza che se ne considerino impatti, effetti e sostenibilità reale.

Se da un lato non è auspicabile una qualsiasi limitazione alla ricerca scientifica e tecnologica, quello che invece meriterebbe di essere ben compreso è la netta differenza che sussiste fra i diversi livelli della ricerca e l’impiego che se ne fa, e questo competerebbe proprio agli strumenti di traduzione e divulgazione di massa delle conoscenze.

Una frequente alterazione culturale viene creata dalla sovrapposizione concettuale fra ricerca scientifica e sviluppo tecnologico: la prima tesa allo studio di meccanismi, la seconda all’ideazione e applicazione dei risultati della prima.

Sembrerebbe banalmente evidente l’ordine gerarchico che regola i rapporti fra i due livelli, sebbene spessissimo sono proprio le esigenze di avanzamento tecnologico a stimolare gli studi di meccanismi di base, ma si assiste, invece, a una assurda inversione di paradigma: una necessità (o spesso comodità) applicativa finisce per qualificare come scientifiche le uniche conoscenze di base che la legittimano, ignorando, quando non addirittura bollando come non scientifiche, tutte le altre conoscenze di base che potrebbero creare dubbi o controindicazioni alla sua realizzazione.

Un campo in cui si manifesta evidente questo fenomeno, ad esempio, è quello dello sviluppo applicativo delle tecnologie di trasmissione dei segnali elettromagnetici, di cui anche i media di divulgazione scientifica diffondono suggestioni vantaggiose, ignorando, però, tutti i fenomeni di interferenza ancora allo studio, primo fra tutti quello con la salute dei cittadini esposti, oltre che con altre tecnologie in uso.

In realtà esistono già tutte le conoscenze di base di fisiologia, oltre che studi specifici, per essere sufficientemente sicuri di effetti biologici di tali esposizioni (anche se non necessariamente cancerogeni), senza dove attendere che siano gli anni di esposizione di massa e i sempre opinabili studi epidemiologici a indicarcene la conferma, quando il danno è già stato fatto.

Casi come la sentenza del tribunale di Torino sono una rarissima eccezione, ma ancora una volta la sede giudiziaria diventa sostitutiva di un processo di decisione democratica, informato e partecipato: a nessuno è venuto in mente, per esempio, di chiederci se a fronte di vantaggi diffusi di queste nuove tecnologie siamo disposti ad esporci agli eventuali rischi che ne derivano? Certo che no; si cerca in tutti i modi di nascondere i possibili rischi, e di oscurare la ricerca scientifica che se ne occupa.

Ancora più emblematico è il campo di applicazione dei fitofarmaci e degli Ogm in agricoltura «industriale», che si vorrebbe confinare all’ambito economico agricolo, ovvero alle dinamiche di mercato, magari anche eludendo, attraverso politiche poco trasparenti di marchiatura ed etichettatura, la consapevole possibile scelta del consumatore se subirne le conseguenze, sia di salute sia sociali. Qui si assiste, inoltre, addirittura al fenomeno della organica e sistematica denigrazione e demonizzazione della ricerca sui metodi e processi agronomici alternativi; questa volta, non potendo propalare automatici vantaggi diffusi derivanti dall’impiego di tecnologie chimiche e genetiche, o di meccanizzazioni sostitutive del lavoro umano, si lanciano indimostrabili promozioni di queste tecniche come capaci di sfamare il mondo, o di sopperire ad apocalittici scenari di carestia che non il clima (contro cui poco potrebbero comunque) ma le pratiche sostenibili tradizionali sarebbero destinate a causare.

L’apice di questa strutturale distorsione si raggiunge in un campo ignoto ai più: la geoingegneria (di cui parliamo specificamente in un altro articolo). Si tratta di tecnologia (quindi non molto di ricerca) che punta a interventi diretti sugli equilibri naturali atmosferici e geologici, per modificarli a presunto vantaggio dell’uomo, più spesso solo di particolari categorie produttive.

Si parte dall’inseminazione delle nubi per far piovere, o non far grandinare, o non far piovere, a schermare la luce solare per ridurre l’effetto serra, o assorbire CO2 o pomparla nel sottosuolo, o abbattere inquinanti, e così via, in un fiorire delle idee più stravaganti.

Molte sono ancora elucubrazioni fantascientifiche, fortunatamente lontane dall’essere praticate; altre sono già progetti pronti all’uso (meglio dire all’azzardo). Ma altre sono state già impiegate e si impiegano tutt’ora. E la notizia è totalmente sconosciuta e taciuta al grande pubblico, quando invece queste tecnologie avrebbero, e hanno, un’immediata vastissima ricaduta su tutta la popolazione vegetale, animale e umana delle aree dove vengono o verrebbero praticate, nella totale indifferenza e ignoranza dei possibili effetti negativi. Anche in questo caso esiste già scienza con la S maiuscola su processi e meccanismi complessi che suggerirebbe valutazioni molto più attente, nonché lo sviluppo di prove, queste sì di carattere scientifico serio, in condizioni confinate di sicurezza, per verificare effetti ed efficacia di tali tecnologie. Magari seguite da una grande comunicazione neutrale dei risultati a tutti i cittadini.

In altre parole, mentre possiamo accettare la definizione che «la ricerca scientifica non è democratica», intendendo che non possa e non debba essere limitata da decisioni affidate al sistema democratico, se non sul piano dell’indirizzo preferenziale delle risorse, tutt’altra cosa sono le applicazioni tecnologiche, dove invece la democrazia decisionale, seguente alla corretta e completa informazione, deve essere la regola.

 

Massimo Blonda