Il Parco del Pollino, quasi un caso di studio
In Italia i cattivi o i mancati risultati vengono, in modo astratto, scaricati, quasi sempre, sulla burocrazia, utilizzata, in ogni emergenza, come bersaglio di qualsiasi incapacità, insuccesso, ritardo, impedimento. La burocrazia diventa un luogo dove vengono fatte scomparire, nascondere le malefatte, le cattive gestioni. In questo tempo concitatissimo della pandemia, davanti al dramma sofferto per la salute singola e collettiva e per la economia, fornisce materia a un dibattito infuocato
Si sta lavorando in questi giorni al decreto semplificazioni, «madre di tutte le riforme».
Viene considerato «una priorità, fondamentale per accelerare la messa a terra degli investimenti». Serve a togliere il freno allo sviluppo: la cosiddetta «burocrazia difensiva».
Si pensa di cambiare il reato di abuso d’ufficio e di abolire il codice degli appalti.
La sburocratizzazione delle opere pubbliche e del rapporto con i cittadini e le imprese, insieme alla digitalizzazione, è ritenuta centrale nella strategia del piano di rilancio dell’Italia, di cui si parla. Anche l’Unione europea raccomanda di riformare e di modernizzare il Paese.
A porre mano a tutto ciò dev’essere necessariamente la politica, ovvero la più diretta e principale causa della «odiata burocrazia», dichiarata responsabile di tutti i mali e dei disastri, nei quali siamo rovinosamente caduti e dai quali ci riesce difficile rialzarci.
Malgrado le insopportabili inefficienze diffuse, però, in un sistema economico avanzato, avverte Sabino Cassese, la burocrazia ci vuole; è necessaria. Per comprenderlo, basta studiare il funzionamento di amministrazioni occidentali, quali: Usa, Inghilterra, Francia, Germania.
In Italia i cattivi o i mancati risultati vengono, in modo astratto, scaricati, quasi sempre, sulla burocrazia, utilizzata, in ogni emergenza, come bersaglio di qualsiasi incapacità, insuccesso, ritardo, impedimento. La burocrazia diventa un luogo dove vengono fatte scomparire, nascondere le malefatte, le cattive gestioni. In questo tempo concitatissimo della pandemia, davanti al dramma sofferto per la salute singola e collettiva e per la economia, fornisce materia a un dibattito infuocato.
La politica, intanto, appena ha potuto, ha preso le distanze da se stessa dichiarando che «per cambiare davvero l’Italia, per andare alla velocità che ci serve, per uscire da questa crisi, bisogna abbattere la burocrazia». Non si è ricordata che sono state fatte leggi, norme, disposizioni, procedure scritte male, incomprensibili, sbagliate, farraginose, incoerenti, contraddittorie, prive di senso, difficili da applicare. Non si è ricordata che quelle leggi, quelle norme, quelle procedure le ha fatte e le ha approvate la «politica» stessa e che la responsabilità, quindi, è sempre e solo della stessa «politica».
Il Pollino, l’Ente parco e la Legge Quadro
Le dichiarazioni, le frasi, le parole usate risuonano come anatemi in un tormentone senza spazio, senza tempo. Richiamano alla mente «tormentate» vicende prima culturali, poi professionali, amministrative e politiche viste e, in parte, vissute in prima persona, a cominciare dagli anni 60, intorno all’idea di fare del Pollino un Parco nazionale e alla responsabilità di lavorare per la sua creazione.
Dopo diversi anni dalla sua istituzione, nel 1993, l’ente Parco era ancora privo di strumenti fondamentali, di mezzi indispensabili e di personale adeguato per la vita dell’ente. Aveva, invece, a disposizione un cospicuo budget finanziario, accumulato con i piani triennali per l’ambiente, negli anni precedenti. Restava da prendere decisioni per l’attuazione, nella consapevolezza che prendere decisioni non significava conseguire immediatamente un risultato; che in mezzo c’era tutto il «fare», il «gestire» e un lungo, faticoso, difficile e complesso iter processuale.
Con l’articolo «Il Parco nazionale del Pollino e il ruolo delle Regioni Basilicata e Calabria», pubblicato sul n. 21/1997 della Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali, ho fatto il punto della situazione.
In premessa ad una lunga e dettagliata disamina dei problemi aperti per l’applicazione della legge quadro n.394/1991 sulle aree protette e per l’avvio della gestione dell’ente Parco, ho scritto: «Le condizioni generali di politica per l’ambiente e per i parchi, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, chiedono all’Ente parco nazionale del Pollino e alle Istituzioni locali, ad esso collegate: Comuni, Comunità montane, Province e Regioni, di porsi il problema di un “posizionamento strategico” del neonato Ente parco rispetto alle scelte di pianificazione territoriale ed ambientale e di programmazione socio-economica, a livello locale, regionale, nazionale e comunitario. Il Pollino è una delle 2.700 aree, cui la Ue ha riservato attenzione per una tutela di interesse comunitario. Se nelle politiche nazionali e comunitarie il problema “ambiente”, “aree protette” e “beni culturali” e la possibilità di una fruizione a vantaggio dello sviluppo economico e della promozione civile e culturale sono un indirizzo ed una direttrice di azione, capace di orientare uno dei pochi e residui flussi di risorse finanziarie ancora disponibili per il sud, occorre, allora, che nel quadro di politica economica generale il modello di sviluppo “sostenibile”, che passa attraverso lo “speciale regime di tutela e di gestione”, cui le aree protette sono sottoposte, ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge n. 394/91, venga, da parte di tutti i soggetti istituzionali interessati e, tra questi, in prima fila le Regioni, opportunamente e coerentemente collocato e sostenuto, per far dispiegare alle scelte già compiute tutte le loro potenzialità».
Ho richiamato, perciò, il ruolo della cooperazione e dell’intesa, specificando che: «Nell’articolo 1, comma 5, della citata legge n. 394/91, è detto che “Nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le Regioni e gli Enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa, ai sensi dell’articolo 81 del Dpr n. 616/77 e dell’articolo 27 della legge n. 142/90”. Sarà utile, quindi, alla vigilia della messa in moto dei più importanti strumenti di gestione dell’Ente parco, il Piano per il parco, il Piano pluriennale economico sociale, il Regolamento del parco, avviare una procedura di preparazione, un tavolo permanente di consultazione, che si incarichi di promuovere tali forme di cooperazione e di intesa».
Nel febbraio 2002, sul n. 35 della stessa Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali ho ritenuto opportuno fare una riflessione aggiornata riguardante «I parchi in Italia e nel Sud a dieci anni dalla legge quadro».
«È in corso a livello nazionale una riflessione sull’applicazione della legge quadro sulle aree protette, la legge n.394/1991, e sui suoi risultati dieci anni dopo. La sfida del 10% del territorio nazionale sottoposto a protezione, lanciata a Camerino nel 1980, è stata vinta; ciononostante aleggia nei dibattiti di questi giorni un forte disagio tra tutti gli addetti ai lavori perché, con l’applicazione della legge quadro, il passaggio dalle politiche di tutela alle politiche di gestione della tutela non è avvenuto o non è avvenuto completamente».
Dopo le molte critiche, a volte soltanto strumentali, sui mancati risultati, era auspicabile che nella seconda Conferenza nazionale delle Aree protette, realizzata, poi, l’11-12-13 ottobre 2002, si potessero prendere, finalmente, in esame le cause di tale insuccesso.
Sulla base delle esperienze di direzione del parco fatte nei primi anni di vita del Parco, in quell’articolo io ho osservato: «La legge quadro, avviando il processo di istituzione e gestione delle aree naturali protette, si è posto l’obiettivo di creare uno speciale regime di tutela e di gestione per realizzare in quei territori la conservazione attiva e lo sviluppo durevole. La missione di incommensurabile valore culturale, scientifico, sociale ed economico è fortemente innovativa rispetto alle tradizionali politiche di governo del territorio, ma è sorretta, proprio nella parte che deve ordinare la gestione, da un impianto normativo obsoleto, fortemente penalizzante rispetto alle esigenze di efficacia, efficienza ed economicità di una pubblica amministrazione che non ha solo il compito di erogare servizi e di qualificarsi per questi, ma di garantire anche la protezione della natura e lo sviluppo durevole per l’uomo che vi abita e di certificare la sua gestione ambientale.
«Sono tutti convinti oramai che bisogna snellire la legge, rompendo certe procedure paralizzanti che fanno nascondere le cosiddette burocrazie dietro alibi difficili poi da riconoscere e rimuovere o sconfiggere. Bisogna anche ricollocare finalmente le comunità locali al centro dei processi decisionali, per consentire loro, attraverso una partecipazione “a monte”, di responsabilizzarsi e di responsabilizzare su un progetto condiviso ed assentito di conservazione, tutela e valorizzazione delle proprie aree protette».
Ed ho messo in evidenza come: «Con i dubbi e gli interrogativi si può aiutare, in questa fase particolare dei parchi, che può essere di crescita, ben oltre l’età di dieci anni che hanno, e di maturità, a comprendere i limiti, le devianze, le cause della difficoltà di superare la sproporzione tra la “iperattività” promozionale e la “ipoattività” organizzativa e gestionale; si può, altresì, aiutare a comprendere che il superamento delle difficoltà non passa attraverso né le semplificazioni, né le scorciatoie, a cominciare dai parchi del sud, il cui malessere nella gestione non può essere nascosta, perché ammorberebbe quella sfida del 10% per la quale molti, per lunghi decenni, si sono battuti».
Annibale Formica