Archeologia viticola

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La vita, la storia di un contadino erano spesso la storia di quel vitigno, e come tale la storia di una comunità agricola che aveva visto nella vigna l’essenza stessa della sua esistenza

Chi scrive ha condotto una ricerca (Ente Parco Nazionale del Gargano, Progetto La Vigna del Parco) finalizzata a «cercare», censire i vitigni della tradizionale vigna garganica, quelli rimasti o ancora rinvenibili, per conoscere quanto rimane di quel variegato bouquet di vitigni che caratterizzavano storicamente la realtà viticola del Gargano, sicuramente antica; una realtà complessa, affatto uniforme, poiché non vi era un vino, ma i vini del Gargano, quello di Vieste, di Vico, Ischitella, Monte S. Angelo, Sannicandro, San Giovanni Rotondo. Cercare ma non solo, poiché si trattava di ricostruire un ruolo, una frammento di storia, alla stessa maniera di come fanno gli archeologi; non bastava, infatti, trovare un vigneto, che non manca tutt’oggi nel Gargano, era necessario, indispensabile, un contadino, un «vignaiolo» per ritrovare nella sua memoria il nome del vitigno. La vita, la storia di quel contadino erano spesso la storia di quel vitigno, e come tale la storia di una comunità agricola che aveva visto nella vigna l’essenza stessa della sua esistenza. Non sorprendeva così la fierezza di quando ti portava nella sua vecchia vigna per fartelo conoscere; spesso si trattava di cercarlo in qualche vecchio pergolato, o abbarbicato su qualche vecchio mandorlo o ulivo, o su qualche diruta «macera» del Gargano interno.
Altre volte si trattava di cercare il vitigno, quasi disperso, dimenticato, solitario, tra filari di Sangiovese, Montepulciano, o addirittura tra Pinot, Trebbiano e Chardonnay. Perchè anche nel Gargano sono arrivati i «nuovi vitigni»; anche il Gargano non poteva rimanere estraneo al nuovo che semplicemente si è sostituito al vecchio, cancellando definitivamente, quelle identità che sicuramente dovevano avere i vini e vitigni del Gargano senza averle mai potute studiare, conoscere fino in fondo. Ci resta la memoria storica di «vini spiritosi, euforici», di «rossi vermigli», di «spumanti, assai esquisiti», di «aromi intensi», di vini «con sapore di terra». Di autentica identità doveva trattarsi, se si tiene conto del fatto che ogni agro, ogni paese aveva più o meno il suo vitigno: il Cassano bianco a San Giovanni Rotondo, il Paglione ed il Nereto a Monte S.Angelo, la Plausa nera ed il Sommariello rosso e nero a Viste, la Plavca bianca a Peschici, il Nardobello ed il Moscatello a Vico, Gagghjioff e l’Uva a nocella ad Ischitella, Virrcun a Sannicandro.
Diversi vitigni sono stati rinvenuti in ogni contesto: la Malvasia di Candia, conosciuto anche come Greca, o il Bombino nero, sono ancora presenti in tutte le vecchie vigne esaminate, da Sannicandro fino a Vieste; erano questi i vitigni della Capitanata ed era ovvio trovarli anche nel Gargano. Più o meno sempre presente in ogni vecchia vigna esaminata, probabilmente antichi quanto la storia viticola del Gargano, sono stati un vitigno bianco e nero, identificati localmente con nomi diversi (Malvasia nera antica, Malvasia bianca antica), facilmente inquadrabili nel gruppo delle Malvasie, sempre riconosciuta come «antica», ma le cui «origini» si perdevano a memoria d’uomo. Sarà qualche clone di malvasia salentina? O greca? Questo è uno tanti punti interrogativi, naturalmente attesi, che la ricerca ha aperto.
Per


il resto, ogni paese aveva nella tradizione una specifica composizione di vitigni, diversa da ogni altro.
Il cercare, tante volte si è rivelato infruttuoso, poiché non vi era più traccia di vigna come a Sannicandro, a San Marco in Lamis, o se vi era, non c’era più il vignaiolo, perché era morto appena da qualche anno, o se c’era, era troppo anziano per avere «memoria». Alla fatica seguiva così quell’amarezza di essere arrivati troppo tardi nonostante la consapevolezza che quello che si riusciva a trovare non era che una minima parte di quello che una volta poteva esserci: i vitigni non lasciano fossili.
I risultati, nonostante tutto, già in questa prima stagione di ricerca, sono soddisfacenti; quasi 60 vitigni diversi, sono tanti, e comunque sono una conferma prima ed una testimonianza poi, quasi fossili viventi, della straordinaria diversità di vitigni che un tempo non lontano caratterizzava l’antica tradizione viti-vinicola del Gargano.

Vendemmia e vino

La vendemmia, data la natura dei vitigni a maturazione medio-tardiva, coincideva con la seconda decade del mese di ottobre. Quel giorno stabilito, tanto atteso, era un giorno di gioiosa festa. Bambini, nonni, zii, parenti e amici, tutti a vendemmiare. Le uve, accuratamente mondate di acini malati o secchi soprattutto, venivano riposte in recipienti caratteristici, concepiti per il carico sui muli, asini e cavalli. Si trattata dei «panari», recipienti a forma di parallelepipedi con una struttura di legno di nocciolo sul quale erano fittamente intrecciati polloni di ulivo. Per quei giorni la campagna garganica si animava di lunghe carovane di muli ed asini carichi di panari, in marcia verso i paesi. Tutto questo appena 25/30 anni fa.
Diversi, avevano attrezzato il proprio edificio rurale anche a cantina, per cui la vinificazione si realizzava in campagna. È facile oggi trovarsi di fronte a vecchi edifici rurali in cui è ancora distinguibile il locale adibito alla vinificazione; spesso sono ancora intatti giganteschi torchi in legno e qua e là resti di botti. Fatto il vino, lo si portava poi in paese utilizzando le «mantegne», barili di 25/30 litri.
Il bouquet di vitigni che costituiva il vigneto (spesso oltre una ventina) si pigiava insieme; lo si faceva con «i piedi», utilizzando un arnese in legno (nocciolo) concavo che si autososteneva sui bordi del tino, e a forza di gambe l’uva veniva spremuta. Mosto e vinacce venivano lasciate insieme a fermentare per 7/8 giorni (qualcuno ricorda anche 15 giorni). Ultimata la fermentazione si procedeva alla svinatura. Il vino passava alle botti, le vinacce al torchio ed il vino che si ricavava, «u sprimitur» era il primo ad essere consumato. Qualcuno usava, invece, produrre «l’acquata»: alle vinacce, si aggiungeva acqua e si lasciava il tutto rifermentare per 24 ore circa; seguivano la svinatura e la torchiatura delle vinacce. Si otteneva un «vinello», certo, ma qualcuno ricorda che a volte era migliore del stesso «vino». L’acquata era in fondo il vinello dei poveri, ma spesso era il vino dello stesso contadino per risparmiare quello buono che invece doveva essere venduto. Chi


non poteva permettersi né l’acquata e tanto meno lo sprimituro, si racconta che pur di non rinunciare al sapore del vino, lasciavano macerare per qualche giorno i sarmenti in acqua e il liquido colorato che si otteneva veniva bevuto come vino.
A Natale il vino era «pronto»: a Vico, a Monte, era tradizione che il vignaiolo usava mettere davanti alla porta della sua cantina una frasca di lentisco o un fazzoletto rosso legato ad una canna. Era il segnale che il vino «s’era fatto» e dunque pronto per la vendita. Tutto si svolgeva in un clima natalizio, nelle viuzze dei centri storici che fino a qualche decennio addietro pullulavano di cantine. E se non bastava il fazzoletto rosso c’era comunque un banditore che a squilli di tromba annunciava al paese che il vignaiolo «Antonio, metteva mano il vino». La cantina in un batter d’occhio si riempiva di genti e bambini; non tutti potevano permettersi di comprarlo, ma quel giorno un bicchiere a tutti era d’obbligo. Qualche sera successiva un’altra canna, un altro squillo di tromba, annunciava che il vignaiolo «Francesco» metteva mano al suo vino e, le corse, le curiosità si ripetevano e moltiplicavano. E così ancora per qualche settimana, per circa un mese.