Il Pollino è un Parco ancora impedito

395
Tempo di lettura: 4 minuti

In una giornata di primavera, inquieta, mite solo in parte, nebbiosa, con sprazzi di schiarite, folate di vento freddo e leggeri colpi di sole sulla fronte, da poco lasciata scoperta dal tradizionale berretto invernale, ho ristabilito il contatto, indebolito negli ultimi tempi, con la fisicità dei luoghi, degli spazi, degli orizzonti. Ho ripreso a respirare; sono ritornato a piccoli passi a dimensioni umane della vita.
Sono salito tra le querce e i cerri ancora spogli, in letargo, verso Monte Carnara, lungo la strada di bosco Capillo. Ho trascorso la giornata di «pasquetta» con gli amici a San Paolo Albanese, in contrada «Fontanelle».
Da lì ho fatto un rapido ripasso dei luoghi e delle vedute: giù, il Sarmento; all’orizzonte, la inconfondibile sagoma di Piatrasasso. Le Serre, ancora abbondantemente innevate, del Pollino sono completamente nascoste da una distesa di nuvole dense.
Ho bevuto molta acqua fresca alla sorgente. Ho cercato di percepire i colori, gli odori, i sapori, i silenzi, il fruscio leggero dei rami, dei fiori, dei germogli e, sul prato fresco di nuove erbe, il belato delle pecore al pascolo: un luogo salubre, un ambiente naturale e un paesaggio rurale pieni di ricordi, di malinconie, di emozioni, di umori, nei quali ho provato, a tratti, a confondermi, ad entrare in equilibrio, e, a tratti, a vivere, quasi in contrasto, le passioni e gli affetti, di cui, nel tempo passato, ho tanto goduto.
C’è stata la mano dell’uomo, ma da decenni non c’è più. Si vede che c’è stata la mano dell’uomo e che ora non c’è più. Ho ritrovato il pastore di sempre, ormai solo, avanti negli anni come me, con le sue pecore e le sue capre, un piccolo gregge al pascolo nei terreni un tempo coltivati, ora invasi da rovi, da piante selvatiche, da ginestre. Altrove le diversità biologiche sono in estinzione; qui, invece, sono una ricchezza inestimabile. Qui la malva è un bellissimo fiore spontaneo; qui le api trovano polline per miele dal gustoso aroma.
Questi sono luoghi dell’anima, dell’essere, del ritrovarsi; sono i luoghi delle ricchezze interiori, che si possono percepire, ma non si vendono e non si comprano. Non sono luoghi di poteri, di averi, di mercanzie da vendere o da comprare.
Sono luoghi della civiltà del bisogno, della sopravvivenza, dell’acqua, dell’aria, della luce, della terra, in stridente contrasto con la civiltà delle merci, del mercato, dell’opulenza, del superfluo, dell’ostentazione.
Ho sperato di trovare tra le siepi gli asparagi selvatici; ho approfittato, invece, della tavola, imbandita nel bel mezzo del prato, per compensare il mancato raccolto con i peperoni «cruschi» già pronti, con una frittata di erbe mangerecce, con un po’ di agnello arrosto e un altro po’ «alla pastorale», insaporito dagli aromi «nostrani» e dal peperoncino piccante, e, in ultimo, con un po’ di pecorino locale, che il palato raffinato, se vuole, può impreziosire con il miele del Pollino.
Mi sono sentito dentro una generazione divisa tra chi affannosamente rincorre la globalizzazione e chi, invece, faticosamente resiste.
I telefonini hanno


rotto la quiete della campagna; hanno imposto il ritmo e il segno dei consumi moderni, dei troppi consumi.
Temo che la terra presto si stancherà e si rifiuterà di dare ancora ospitalità.
Un po’ confusi dal clima attuale, i meli, i peri, i ciliegi, intanto, sono tutti fioriti, prima del tempo. Tra i loro rami, si sente, qua e la, lo svolazzare e il cinguettare dei pochi uccelli, delle poche specie di uccelli rimaste. Forse, l’effetto dell’aumento della temperatura del pianeta si avverte persino in questa sperduta contrada, «protetta» dal Parco Nazionale del Pollino.
Mi interrogo, però, su che cosa, per il Pollino, è stato Parco, finora e che cosa è Parco, oggi.
Che cosa è Parco, oggi, per quelli che si avvicinano per la prima volta all’idea, senza essersi mai chiesti nulla, neanche perché?
Quando il Parco Nazionale del Pollino era solo un’idea, tutti avevano mille questioni da porre; oggi, invece, che è un Ente, con una missione, con un bilancio, con gli organi di gestione, con una struttura, pochi fanno osservazioni, sollevano obiezioni, argomentano.
È diventato un Parco «fai da te», impegnato in un complicatissimo lavoro di bricolage, in cui, oltre ai molti denari, si spendono le intelligenze e i dubbi saperi di una folta schiera di consulenti.
Ma, che cosa può essere un Parco per il vivere quotidiano in queste campagne, che scontano i veleni di tutte le altre campagne della terra, dell’anziano pastore, drammaticamente afflitto non solo dai miseri bilanci di una economia ancora di sussistenza, ma anche dai cinghiali che gli solcano i terreni, gli devastano i prati, le colture? Un Parco che, per incentivare la qualità e la genuinità dei prodotti del suo territorio, utilizza le risorse finanziarie, destinate allo scopo, per fare ancora incontri, convegni, seminari formativi, divulgativi?
Oggi, a distanza di dieci anni dalla sua istituzione, il Parco Nazionale del Pollino, senza essere riuscito mai a operare veramente come Parco, è diventato, per quelli che decidono, talmente cosa fatta, che nessuno se ne dà più pena, neppure quando viene preso come cattivo esempio per contrastare l’istituzione di nuovi parchi. E la sua immagine si deturpa ogni giorno di più. È diventata un vestito extralarge su misura per una fantomatica nuova perimetrazione, inventata per camuffare con la espansione nel versante orientale la intenzione di sottrarre aree di notevole valore naturalistico del versante occidentale.
Uno scandaloso disinteresse, appiattimento, asservimento, occultamento stanno gettando le sorti della più grande area protetta d’Europa nel più fitto mistero, come, ad esempio, quello che dal 1999 avvolge il «Piano per il Parco» ed il «Regolamento del Parco» o quello che dal 2002 avvolge lo «Studio di fattibilità» per il recupero e la valorizzazione dei centri storici.
Come direttore del Parco negli anni cruciali dell’avvio delle attività gestionali, io, invece, sono costretto a difendermi dalle conseguenze delle responsabilità, che non ho avuto mai la possibilità di assumermi, come mi competeva, e dalle colpe che, senza aver mai avuto alcun addebito e senza


aver potuto mai oppormi ad alcun contraddittorio, si continua, subdolamente, in riunioni segrete di alti consessi, a volermi attribuire, ora che direttore non sono più.
Forse, è il perdurante clima di «conflittualità latente», di cui io sono stato vittima dal 1998 fino alla scadenza dell’incarico, nel 2002, e di cui il Parco stesso è stato vittima con il commissariamento degli Organi, nel 2001.
La «conflittualità» è diventata un vero e proprio «logo», dietro al quale si nascondono comodamente ignoranza, arroganza, prevaricazioni, intimidazioni, spregiudicatezza, illegalità o, comunque, comodi alibi per indifendibili incapacità e incompetenze.
A distanza di un anno e mezzo dalla scadenza del mio incarico, continuo, così, a subire ritorsioni, a ricevere torti, a non avere quello che mi è dovuto, che mi spetta. Non mi sono stati ancora corrisposti il trattamento economico accessorio, il trattamento di fine rapporto, il trattamento pensionistico, mentre imperterriti scorrono, come fiume in piena, tutti gli altri atti deliberativi di incarichi, di acquisti, di liquidazioni, senza che alcuno senta il peso e, anche, la dignità del ruolo che ricopre.