Ad esempio gli incendi che hanno bruciato le foreste indonesiane tra il 1997 e il 1998 avrebbero rilasciato nell’atmosfera più carbonio di quanto, nello stesso periodo, ne avrebbero prodotto i combustibili fossili dell’intera Europa.
Da tempo gli esperti locali ed associazioni ambientaliste a livello internazionale indicano come responsabili varie multinazionali che, ciò nonostante, continuano ad agire indisturbate da cinquant’anni a questa parte.
Poi nell’ultimo decennio, spronate dalle forti richieste di mercato ed agevolate dalla liberalizzazione del commercio, hanno ulteriormente accelerato la distruzione delle foreste residue.
Per questo motivo Greenpeace si appella a tutti i governi affinché cessino di approvare e sovvenzionare i progetti di abbattimento ed intensifichino gli sforzi per fermare il taglio illegale.
In particolare ritiene essenziale che i governi dell’Indonesia e del Brasile perseguano penalmente le compagnie coinvolte nel disboscamento selvaggio e negli incendi, riconoscendo nel contempo il diritto all’utilizzo delle foreste da parte delle comunità che le abitano.
A tal fine occorrono non solo controlli più efficaci nei paesi esportatori, ma anche pressioni forti da parte dei consumatori. In Europa, ad esempio, gli obiettivi a breve e medio termine comprendono sia il monitoraggio e la denuncia di crimini ambientali nelle aree a rischio sia la sensibilizzazione dell’opinione pubblica affinché si eviti l’acquisto dei legnami di provenienza illecita.
Di tutto questo si tratterà più diffusamente in seguito, mentre è inevitabile una digressione sulla catastrofe nel Sud Est Asiatico.
Poiché, appunto, il tema dei prossimi articoli verterà sulle interazioni tra il commercio internazionale dei legni esotici e gli equilibri delle foreste di provenienza, come non sottolineare che queste ultime si sono addirittura opposte alla furia dello tsunami?
Ce lo conferma la sezione italiana del Wwf sulla base di frequenti contatti con le sezioni locali, dichiarando che «i danni sono risultati minori nelle zone in cui l’ecosistema era intatto».
Da questo punto di vista, e se mai ce ne fosse stato bisogno, il cataclisma che si è abbattuto sulle coste dell’Oceano Indiano rappresenta un ulteriore monito di quanto lo sfruttamento economico «spinto» amplifichi qualunque impatto sociale ed ecologico.
Gli ecosistemi tropicali delle zone a rischio possiedono sofisticati meccanismi di difesa che ne assicurano la sopravvivenza anche in caso di onde anomale e, soprattutto, ne limitano le conseguenze.
Il reef corallino costituisce una barriera che s’inoltra nel mare, costringendo le onde ad infrangersi al largo ove dissipano gran parte della loro energia distruttiva. Dal canto loro le mangrovie fanno da frangiflutti e si oppongono al dilavamento. Crescono in aree paludose prive di un sottofondo solido e, con le loro radici simili a tiranti saldamente ancorati al suolo, sono straordinari esempi di adattamento all’ambiente.
Ovunque, lungo la fascia dei climi tropicali umidi, esse limitano l’estendersi delle inondazioni e ne permettono un più rapido drenaggio. Ciò indipendentemente dalle cause che, a seconda delle diverse aree geografiche, vanno dai tifoni agli tsunami.
Infatti la sezione del Wwf di Andhra Pradesh riporta che, laddove non decimata in nome del turismo di massa, la vegetazione
costiera ha salvato parecchie vite. Ad esempio numerosi pescatori sono sopravvissuti perché durante lo tsunami hanno trovato rifugio tra le mangrovie della riserva naturale di Coringa.
Al contrario, dove l’ambiente naturale è stato maggiormente snaturato, la furia delle acque ha causato più danni e stroncato più vite. È accaduto sia nelle aree in cui la barriera corallina era danneggiata a causa degli allevamenti intensivi di gamberetti, sia in quelle ove gli alberghi avevano rubato alle mangrovie lo spazio in riva al mare. In entrambi i casi gli interessi economici si sono beffati dell’antica saggezza popolare che imponeva di costruire i villaggi ad una certa distanza dalle linee di costa.
Infatti uno tsunami può inondare l’entroterra per centinaia di metri, devastando vastissime superfici. In particolare vengono considerate ad alto rischio le aree a meno di 25 piedi sul livello del mare ed entro un miglio dal bagnasciuga.
In India la Corte Suprema ha concesso una deroga temporanea affinché si possa ricavare un surplus di legname da impiegarsi per la ricostruzione. Tuttavia sono tassativamente escluse le mangrovie costiere e le foreste entro i mille metri dal mare.
Si potrà obiettare che gli esiti di uno tsunami dipendono principalmente dalla capacità delle autorità locali di rendersi conto dell’imminente pericolo e non v’è dubbio che un’efficace Protezione Civile debba allertare rapidamente e capillarmente tutti i potenziali interessati, nonché educare la popolazione ad allontanarsi tempestivamente.
Tuttavia, poiché la natura improvvisa e la virulenza del fenomeno lo rendono estremamente pericoloso per le comunità costiere, la meticolosa pianificazione dello sfruttamento del suolo resta un fattore essenziale.
In sintesi lo tsunami che ha devastato i paesi sul golfo del Bengala avrebbe potuto sortire effetti meno drammatici, se solo si fossero preservate le barriere coralline ed il baluardo delle mangrovie costiere. In altre parole, come afferma Isabelle Louis del Wwf International’s Asia-Pacific Programme, «i disastri naturali non si possono certo prevenire ma certamente si può far molto per mitigarne l’impatto».