Il governo incoraggia il turismo ad opera di gruppi organizzati perché se ne possono più agevolmente monitorare gli spostamenti e, comunque, risultano più vantaggiosi dal punto di vista economico. A questo proposito, due sono gli aspetti da considerare. Uno è il rischio che l’afflusso di valuta pregiata richiami altri immigrati, quando già vi sono 1,5 milioni di cinesi in più rispetto ai tibetani. L’altro è la sperequazione a danno di questi ultimi, dato che le compagnie aeree e gran parte degli alberghi sono di proprietà cinese. Inoltre le principali agenzie turistiche locali operano di concerto con le autorità cui, peraltro, è destinata larga parte delle spese di soggiorno, come quelle per i permessi e i mezzi di trasporto.
Tuttavia il turismo resta il mezzo più immediato per far conoscere al resto del mondo le condizioni di vita e le istanze del popolo tibetano. Lo stesso Dalai Lama si è espresso in questo senso, auspicando che i viaggiatori possano rendersi conto di quel che sta dietro la facciata e, al ritorno, farsi portavoce della causa tibetana. Non a caso la testimonianza dei turisti che riuscirono a percepire i segnali della repressione in atto alla fine degli anni 80 fu determinante per la nascita dei movimenti di sostegno in occidente.
Va da sé che qui, più ancora che per altre mete, valgono tutti i principi del turismo responsabile ed è essenziale attenersi a precise norme di comportamento. Se si opta per un viaggio organizzato vanno privilegiate le agenzie che si avvalgono di collaboratori locali. Dal 2003 è operativo un progetto per l’invio in Tibet di cento guide turistiche cinesi l’anno, durante il semestre corrispondente all’alta stagione. Secondo l’associazione Italia-Tibet non ve ne sarebbe alcuna necessità e si tratterebbe di una manovra dettata da ben altri intenti. Gran parte delle guide locali ha perduto il lavoro e, tra loro, molti sono stati espulsi perché sospettati di attività separatiste, soprattutto dopo essersi recati in India per apprendere la lingua inglese. Dal luglio 2002, l’Ufficio del Turismo ha predisposto controlli rigorosi e pretende che le guide tibetane dichiarino per iscritto di rinunciare ai viaggi all’estero.
Infine,per sostenere in modo fattivo la libertà di culto sarebbe opportuno elargire offerte direttamente ai monaci e visitare i monasteri minori, in quanto le tasse di entrata in quelli più grandi sono amministrate dal cosiddetto «Comitato di gestione democratico» che fa capo all’autorità cinese. Per analoghi motivi è preferibile usufruire dei servizi d’accoglienza a carattere familiare e degli esercizi commerciali gestiti da tibetani.
I «bollini rossi»
Molti dei tesori artistici del Tibet sono andati distrutti durante l’occupazione, altri sono stati trafugati ed alcuni alimentano il vivace mercato clandestino. Tuttavia parecchi oggetti sono contraffatti: quindi, siccome per un profano è arduo riconoscere l’età di un manufatto, è buona norma astenersi dall’acquistare oggetti d’antiquariato.
Lo stesso principio vale per prodotti ricavati da animali selvaggi, soprattutto se a rischio d’estinzione,come le pellicce di leopardo, i corni di antilope e i balsami o le pelli di
tigre. Anzi, nel caso se ne notasse una qualche forma di commercio, sarebbe bene scattare fotografie e, al ritorno, informarne le associazioni di tutela. Particolare attenzione va prestata anche ad alimenti spacciati come esotici, sia per evitare di rendersi complici d’un massacro insensato sia per tutelare la propria incolumità. Già in passato si sono verificati numerosi casi di peste in seguito alla lavorazione di pelli di marmotta. L’ultima notizia in ordine di tempo, recentissima, riguarda il decesso di due tibetani che hanno contratto il morbo cibandosi delle carni del roditore.
Infine non si deve scordare che si sta viaggiando in un paese occupato, ove i diritti umani si reggono su equilibri precari. I movimenti dei turisti sono controllati non soltanto con i metodi ufficiali, ma anche per mezzo d’informatori cinesi in abiti civili o, addirittura, camuffati da monaci. Dunque: mai intavolare discussioni su argomenti sensibili e, casomai si ottenessero informazioni di carattere politico, salvaguardare l’anonimato delle proprie fonti. Ai turisti è consentito detenere pubblicazioni e souvenir ispirati al Dalai Lama o riportanti la bandiera nazionale tibetana, purché in singola copia. In caso contrario possono essere fermati, multati ed eventualmente espulsi. Invece, se l’accusa di propaganda riguarda un tibetano, le conseguenze sono detenzione e torture.
Comunque, se pur con le dovute cautele, è possibile fare in modo che una semplice vacanza si trasformi in un modesto ma efficace contributo alla causa tibetana. Se non altro perché, a tutt’oggi, ancora troppi tra coloro che non si sono mai mossi dall’altopiano ignorano l’interesse che la comunità internazionale nutre nei loro confronti. Essi subiscono passivamente le conseguenze del cosiddetto «Piano di modernizzazione», vittime della sudditanza psicologica maturata nei decenni in cui i cinesi ne hanno sminuito la cultura, la religione e la lingua.
All’estremo opposto si trovano alcuni esuli, soprattutto giovani intellettuali nati all’estero, i quali ritengono che i mezzi della protesta non violenta siano assolutamente inadeguati rispetto agli obiettivi da perseguire.
Il governo tibetano in esilio si colloca tra i due estremi. Da un lato invita gli attivisti a mantenere un basso profilo, con l’auspicio che un’atmosfera più rilassata possa favorire il dialogo con Pechino. Dall’altro continua pervicacemente a tener viva la questione tibetana, supportato da gruppi stranieri che operano nei più svariati paesi, formando una rete che copre il mondo intero. Ne sarà emblema, il prossimo 3 luglio, il World Tibet Day che, dal ’97, ricorre nel giorno in cui si celebra il compleanno del Dalai Lama.