La solidarietà del libero mercato

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Per non arrivare a trattare problemi di dimensioni incalcolabili, come possono essere quelli dell’«egoismo» praticato nelle sue varie forme, può essere già sufficiente, per una lettura concreta e legata ai problemi dei nostri giorni, limitare le possibili considerazioni nell’ambito del sistema del «libero mercato». Diamo anche per acquisite tutte le problematiche connesse agli egoismi sociali (praticati all’ombra di anonime irresponsabilità) e relativi all’uso delle risorse che questo mercato gestisce in nome di quel 20 % di popolazione mondiale che consuma l’80% delle risorse disponibili. Prendiamo, dunque, in esame il rapporto fra «mercato dei consumi» e «solidarietà».

«Accumulare profitti è ricchezza, dividerli è povertà» recita un emblematico, succinto e allarmante avviso ai naviganti, del più recente «libero mercato». Nel mondo della crescita dei consumi, dei profitti e delle rendite, chi dovesse ingenuamente «perdersi» in altruistiche e infruttuose iniziative (o anche solo temperare unilateralmente la «competizione» sui mercati per lasciare spazi alla «solidarietà») sarebbe costretto, alla fine, a soccombere nelle spietate paludi della sopravvivenza. La «solidarietà» («virtù» trasformata in «viatico» per rendere sopportabili, alla propria coscienza, le arroganze egoistiche del consumismo) tende, dunque, a essere praticata non come espressione di una qualità umana, ma come opportunità e risorsa per «geniali invenzioni» (così già avviene per il mecenatismo e la filantropia) capaci di trasformare ogni cosa in opportunità favorevoli a nuovi o maggior profitti, almeno d’immagine, se non proprio materiali.

Il dualismo della contrapposizione, nelle società del mercato dei consumi, non sembra presentarsi nelle forme di una relazione dialogica, che presuppone l’esistenza di riferimenti comuni, alle due parti, almeno di metodo se non anche di qualità e dimensioni dei contenuti.

È, invece, un dualismo inerte prodotto da letture autoreferenziali e antitetiche di una realtà artificiale, imposta attraverso l’invenzione di meccanismi, semplificati e universali, di radicalizzazione ideologica ed estrema di concetti di senso comune.

C’è, infatti, una disarmonia sostanziale: da una parte, i presupposti di fondo della solidarietà (assenza di interessi particolari, relazione dialogica con i propri intorni e azione altruistica di disponibilità e di condivisione fraterna delle risorse) e, dall’altra, i presupposti di fondo del mercato dei consumi (paludose competizioni, ricerca di vantaggi individuali, massimizzazione di profitti e accaparramento di risorse). Fra una solidarietà che si muove per condividere, non per calcolo, e un egoismo (o una solidarietà simulata) che, invece, sul calcolo delle opportunità e delle convenienze misura i propri interventi, non ci può essere dialogo. Siamo di fronte a due mondi separati e proiettati in direzioni diverse che non sono riducibili, neanche, a un lontano parallelismo.

Siamo tanto condotti a immaginare la realtà come mercato e siamo tanto immersi nelle buone «convenienze» della solidarietà simulata, che, ai più, una «solidarietà» senza interessi può apparire del tutto impraticabile e visionaria. Non riusciamo a immaginare una solidarietà come senso di un gratuito mettere in comune le cose (che non sono solo quelle materiali e, tantomeno, quelle dei consumi), perché siamo vincolati ai comportamenti dettati dal modello immutabile del mercato dei consumi e siamo ingannati e disorientati da una equivoca solidarietà e da un egoismo compassionevole.

A qualcuno verrà sicuramente da pensare che la solidarietà in fondo è un ideale e normalmente, invece, si vive di altro! Ma forse a qualcun altro ancora potrebbe anche venire in mente di chiedersi, al di là della ineluttabilità dei dati di fatto, se sia normale che tutto un mondo sia guidato da un solo smisurato sistema di mercato che, negando ogni alternativa, confina ogni miglioramento nei recinti, resi inespugnabili, delle utopie. Il libero mercato, inventore e sostenitore della competizione che dovrebbe preservarci da condizioni di monopolio, in questo caso, è proprio lui a negare la competizione fra sistemi economici diversi da quello che propone e, lui stesso, finisce, così, con l’agire in regime di monopolio.

Senz’altro niente di scandaloso, perché questa è la realtà che è stata affidata al nostro tempo, mentre alle nostre responsabilità è, invece, affidato l’uso del tempo, ancora a nostra disposizione per affrontare questo nodo ereditato dal passato, e la gestione, almeno non distruttiva, delle risorse. Forse c’è la necessità, oggi, non di «affrettarci a fare» per «vincere», ma di «cominciare» (o nei migliori dei casi di «continuare»), con sollecitudine e con le alternative offerte dalla diversità umana, a fare meglio e a cambiare quella subordinazione della solidarietà all’utile, prima che si incancrenisca e che, con lui, si incancreniscano anche i nostri egoismi.