Storie di fabbriche e di morte

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«La svolta. Donne contro l’Ilva» il documentario scritto e diretto dalla giornalista Valentina D’Amico che, dalla presentazione ufficiale dello scorso 28 maggio, sta raccogliendo largo successo di critica e pubblico

S’intitola «La svolta. Donne contro l’Ilva» il documentario scritto e diretto dalla giornalista Valentina D’Amico che, dalla presentazione ufficiale dello scorso 28 maggio, sta raccogliendo largo successo di critica e pubblico. La prossima proiezione è in programma il 18 luglio, presso la Sala del Trono del Palazzo Ducale di Presicce (LE).

Parteciperà ai principali film festival nazionali ed internazionali, da ultimo il Sila Film Festival conclusosi domenica scorsa, il documentario choc di Valentina D’Amico. Protagoniste le storie di cinque donne, mogli di operai deceduti in fabbrica o ex lavoratrici. Storie di soprusi, malattie, mortificazione non solo dell’uomo ma anche dell’ambiente. La scenografia è quella di Taranto, la città dell’acciaio, e del suo triste simbolo, l’Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa. Un paesaggio in cui, in un cielo una volta di un azzurro terso, svettano una miriade di ciminiere fumanti, presagio di morte e malattia.

Qui vivono Anna, Margherita, Vita, Patrizia e Caterina. Cinque donne le cui vite sono state segnate drasticamente dall’Ilva. Anna, che vive da sempre nel quartiere Tamburini, il più vicino e soffocato dai fumi della fabbrica, finita su una sedia a rotelle; Margherita, vittima di soprusi e mobbing; Vita, che ha perso il figlio schiacciato da una gru; Patrizia, il cui marito è deceduto in fabbrica; Caterina, mamma di un bambino autistico. Voci e vite spezzate da ricordi dolorosi, ma che conservano la grinta e il coraggio per continuare nell’estenuante battaglia legale contro quel mostro che ha la capacità di decidere sull’esistenza dei tarantini, lasciandoli il più delle volte senza via di scampo.

Il punto di vista femminile del racconto è interrotto da due voci maschili, quelle dei due operai che alla fine degli anni 90 furono internati nella Palazzina Laf dell’Ilva. Un vero e proprio lager, creato per distruggere psicologicamente gli operai più anziani e improduttivi al fine di spingerli a licenziarsi.

È inevitabile indignarsi vedendo questo documentario. È impossibile rimanere impassibili davanti a queste storie di morte e disgrazia. Ed è stata proprio l’indignazione per tutto il male prodotto dall’Ilva che ha spinto la regista ad occuparsi di Taranto, percepita dalla D’Amico come una città violentata. Eppure, i tarantini non vogliono la chiusura dello stabilimento. Del resto, per Taranto l’Ilva significa posti di lavoro, salari, possibilità di mantenere una famiglia. Nonostante la consapevolezza che firmare un contratto di lavoro con l’Ilva significhi stringere un macabro patto con la morte.

L’obiettivo del documentario è dunque, come si legge dalle pagine del blog dedicato al film, contribuire a fare dell’Ilva il polmone produttivo di Taranto, il simbolo e la vita della città. Una sfida ardua ma non impossibile, grazie alla tenacia delle protagoniste del documentario e di tutte le persone che quotidianamente lottano per cambiare le sorti della città e assicurare un futuro migliore ai propri figli.