Prima gli olandesi con il disastroso sistema di coltivazione forzata e poi gli inglesi, che lasciarono in eredità molti anni di dittatura, hanno reso questo paese un esperimento sociale e ecologico. Lo smarrimento che accompagna una popolazione sino ad allora dominata dai «padroni» si manifestata oggi in una crescita incontrollata all’inseguimento del sogno occidentale che assomiglia più ad un incubo
Una rasoiata nel cuore. Non c’è altra sensazione per descrivere la vista dall’alto di interi arcipelaghi pelati, come fossero patate. Privati della loro rigogliosa vegetazione e della loro incredibile biodiversità. Per farne cosa poi? Armadietti occidentali ed oli vegetali di scarsa qualità per i mercati europei ed americani. Ma la storia dell’Indonesia è lunga e per comprenderla bisogna fare qualche passo indietro.
Isola di Giava, poco a sud dell’equatore. Jakarta sembra un girone dell’inferno. Tra riflettenti grattacieli, Suv, motorini e bidonville la sensazione di soffocamento è indescrivibile. Al più presto si scappa dalla città per trovarsi immersi tra le risaie più a sud con le vette dei vulcani Gede e Pangrango da sfondo.
Nei villaggi la vita scorre lenta ed il caos della capitale si avverte solo a tratti, lungo le vie carrabili, dove sfrecciano motorini e minibus (conosciuti come bemo).
Attraversando le lunghe vie con case in bamboo che le costeggiano per chilometri, è difficile non osservare la quantità di bambini che popola uno dei Paesi più affollati al mondo, con una popolazione che è la quarta del pianeta per densità (240 milioni di persone). Solo Giava vanta, per così dire, ben 1.000 abitanti per chilometro quadrato. Ad ogni angolo spuntano giovani donne con quattro, cinque bambini al seguito ed anziane signore che cullano infanti appena partoriti. Sembra di essere in un’immensa nursery.
Un esperimento sociale ed ecologico
Lo sguardo allegro ma sottomesso di molti riporta alla mente la lunga storia coloniale di questo Paese. Prima gli olandesi con il disastroso sistema di coltivazione forzata e poi gli inglesi, che lasciarono in eredità molti anni di dittatura, hanno reso l’Indonesia un esperimento sociale. Ed ecologico, si potrebbe azzardare. L’ovvia sensazione di smarrimento che accompagna una popolazione sino ad allora dominata dai «padroni» si manifestata oggi in una crescita incontrollata all’inseguimento del sogno occidentale. Che poi somigli più ad un incubo, questo sarebbe meglio non tacerlo.
La conferma di uno stato che avanza, come India e Cina, a passi da gigante la si trova nei numerosi impianti industriali nuovi di zecca che spesso fumano lungo le coste meridionali di mangrovie, creando impatti non solo visivi. Comprendere dove stia andando è un’altra cosa. Ovunque distese a cielo aperto di rifiuti, plastica perlopiù, abbandonati senza alcuna consapevolezza. Imballaggi che costituiscono l’ordinaria amministrazione persino nei villaggi più poveri nei dintorni di Sukabumi, dove manca l’acqua ma è assicurato un costante rifornimento di bicchieri in plastica sigillati di una nota multinazionale francese che monopolizza il mercato idrico. Più che mancare, l’acqua non è potabile. La possibilità di contrarre infezioni in qualunque punto dell’arcipelago, bevendo, è altissima. Così il quarto stato con la più alta densità al mondo si abbevera da bottigliette e bicchieri in plastica, con conseguenze che è facile immaginare.
Tra incantevoli vette fumanti ed infinite distese di campi allagati, si alternano cumuli spaventosi di polimeri dell’ovest. Sino a qualche decennio fa, però, in molte aree dei Giava, Bali, Sumatra e Papua neanche si conosceva l’uso della plastica e si potabilizzava alla meglio. Il problema acqua era innegabile, ma invece di gestirlo cercando di migliorare il sistema fognario e di distribuzione idrica, si è optato per l’imposizione del mercato. Dove compri per bere e ti liberi del contenitore ovunque ti trovi. Dove paghi un bene primario dieci volte in più che se lo potabilizzi in maniera domestica ed in più ti ritrovi i villaggi circondati da montagne di spazzatura.
Rifiuti e specie rare
Ma ad un indonesiano del villaggio non lo spieghi facilmente tutto questo. Non perché non abbia l’intelligenza per capirlo, ma perché il mito del progresso e della crescita, della Tv satellitare ed del motorino corrono più veloce di lui. E a controllare la gara è un brand inglese, italiano o americano.
Per andare più a fondo, lasciando in superficie i bicchieri galleggianti, ci si deve addentrare in quei pochi tratti di foresta rimasti a Giava. All’estremo capo d’occidente risiede l’ultima popolazione vivente del rarissimo Rinoceronte di Java (Rhinoceros sondaicus). Peccato che il parco sia diventato una specie di fortino isolato circondato da mare e strade. Come possa l’animale dal corno ridicolmente afrodisiaco scampare da una delle più assurde estinzioni, resta un mistero. Eppure la bellezza del parco è straordinaria. Ma la sua distanza dall’altra area protetta più vicina è di oltre 150 km. Qui, ai piedi del vulcano Gede, alto quasi 3.000 metri, nel piccolissimo villaggio di Cikawanga, cerca di sopravvivere con le scarse donazioni che riceve e con i piccoli contributi volontari, un centro di recupero per la fauna tropicale che ospita alcuni rari esemplari dell’intero arcipelago.
Aquile dei serpenti, orsi, i minacciati storni di Java insieme ad oranghi, scimmie arboricole e lo straordinario Puma di Giava sono solo alcune tra le specie più minacciate del pianeta ad essere curate e riportate in liberà dal centro. Un’impresa non facile considerata l’assenza di aiuti governativi e la ristrettezza di personale locale. Bisogna ammettere che, nonostante tutto, ai falsi gaviali ed alle testuggini giganti non manca mai un ambiente pulito e del cibo fresco.
Un evento, come emblema inequivocabile della situazione sociale, politica ed ambientale dell’Indonesia, conferma quanto questi luoghi necessitino di una presa di coscienza internazionale per poter essere salvati e non progredire nel modello di sviluppo che ha già creato gravi danni nel resto del pianeta.
Il leopardo ucciso
Alle 17 circa di un caldo pomeriggio una telefonata ai responsabili del centro annuncia il misfatto. Un rarissimo leopardo di Java è stato consegnato al comando di polizia del villaggio dopo essere stato ucciso da alcuni uomini che vivono ai piedi della foresta con le loro famiglie.
All’arrivo del furgoncino con a bordo gli animal keepers, dopo ore di imbottigliamento in un traffico impazzito nel centro della città di Sukabumi, gli agenti rigorosamente in borghese consegnano, con un pizzico di entusiasmo per l’evento, l’animale ancora caldo. Nessun verbale di consegna viene redatto. Né sono noti i nominativi di chi ha sparato. Ma qui funziona così, confermano gli operatori locali del centro di recupero. Non importa chi, se sparando si è evitato che il puma si avvicinasse troppo al villaggio.
Ci risiamo. Vai a spiegare che quella giovane femmina appena uccisa, magari con dei cuccioli da sfamare, è una delle specie più minacciate al mondo e che l’avvicinamento ai villaggi è dovuto alla perdita di habitat e di prede disponibili a causa della pressione antropica.
La pelliccia di un nero ebano brillante emana ancora il profumo di foresta umida. Un foro vicino al collo ed uno sotto l’addome lasciano comprendere da dove è passata la morte. L’autopsia confermerà che si è trattato di due colpi di fucile e quello che ha raggiunto il fegato le è stato fatale. Durante i tagli di bisturi e forbici si prova quasi la voglia di interrompere quella triste dissezione e di lasciare quell’ineffabile creatura intatta. Purtroppo, però, il soffio vitale l’ha abbandonata. I balzi improvvisi e le silenziose corse nella foresta tropicale non le appartengono più. Quelle palpebre chiuse annullano la luce dei suoi occhi nel nero intenso del capo, ponendo la parola «fine». Nessuno può dire con certezza quanti ne restino in libertà. Si è scoperto da poco che si tratta di una sottospecie endemica a sé stante (Panthera pardus melas) e non la versione melanica del Leopardo, e già è inserita dall’Iucn nella lista delle specie più a rischio di estinzione (Critically endangered). Le stime dicono che sopravvivano meno di 250 individui maturi, ma secondo alcuni ricercatori sarebbero meno di 100. Quindi, una giovane femmina uccisa ai confini del parco nazionale è davvero una grande perdita. Per l’intera specie e per tutta la Natura.
Quello che appare più assurdo è la totale leggerezza con la quale sia le forze dell’ordine che la popolazione locale si occupino di casi simili. Sebbene lo si potrebbe considerare il solito episodio di conflitto uomo-fauna, in Indonesia con una popolazione in costante crescita e con uno sviluppo tutt’altro che sostenibile, il futuro della conservazione della natura ha il suo fulcro proprio in questi avvenimenti. Sono 147 i mammiferi a rischio di estinzione su tutto l’arcipelago e tra questi, oltre alla pantera ed al rinoceronte di Giava, ci sono la tigre ed il rinoceronte di Sumatra, l’orango del Borneo e decine di piccole scimmie arboricole ancora poco conosciute.
Quando l’alba spunta sul vulcano Bromo ed il sole si riflette nelle risaie, quando verdi colline di tè circondano i meravigliosi templi di Borobudur, con le scene della vita del Buddha scolpite nella roccia, nei pressi di Yogyakarta, la capitale culturale dell’Indonesia, si stenta a credere che nel bel mezzo di quell’infinita bellezza, di quel paradiso in terra, si celi l’inferno. Umano, perché le persone non hanno più il minimo spazio vitale per una degna esistenza e per il resto del mondo naturale, perché le specie, gli ecosistemi, il paesaggio stanno morendo. Come quella femmina di pantera sotto il suo mantello buio e muschiato nascondeva i segni della distruzione umana, così intere isole un tempo ricoperte dalla seconda foresta tropicale al mondo, dopo quella amazzonica, serbano al proprio interno un orrendo presagio.
Soffre anche il mare
Questa danza di bellezza ed inferno prosegue anche nelle profondità marine. Attraversando lo stretto di Bali si ha un assaggio di quello che si manifesta sotto la superficie. Nell’acqua tra pinne di squali in vista vicino al porto e gabbiani dietro le numerose navi di turisti in cerca della spiaggia perfetta, ondeggiano le più recenti testimonianze dello sviluppo umano. Plastica. Ovunque plastica. In uno dei mari da catalogo, scelti dai tour operator come fiori all’occhiello della promozione turistica, si addensano zattere di rifiuti galleggianti. Sulle spiagge lunghi cordoni bianchi di posate e buste seguono la linea di costa. Su quelle stesse spiagge, nel parco nazionale del Bali Barat dove vivono le iguane giganti, le rare scimmie dell’ebano, i granchi violinisti con la loro grande chela ed il buffo pesce polmonato Periophthalmus. Laddove si alimentano i martin pescatore reali, ogni notte la marea trasporta oli densi e pezzi di polistirolo.
Per una volta non si possono incolpare i turisti. Durante il viaggio in traghetto è facile osservare la gente del posto che si disfa dei più impensabili rifiuti, semplicemente lanciandoli in mare.
Come non essere esterrefatti, così, quando il presidente del parco, dove è sita una delle più belle barriere coralline al mondo, esprime la sua incomprensione per la costante diminuzione del numero di tartarughe marine che nidificano su quelle coste. Come non fargli osservare quanto sia stretta la correlazione tra la morte di tartarughe per soffocamento e la quantità di sacchetti di plastica gettati in mare. Persino sul remoto isolotto di Palau Menjangan, a nord-ovest di Bali, di tartarughe non se ne vedono molte da qualche anno.
Le palme da olio
Tutto questo riporta alla mente la riflessione iniziale. Come si può deforestare intere isole ricche di un’inestimabile diversità biologica e popolate da specie minacciate, per piantare palme da olio? Il Borneo è certamente l’isola dell’arcipelago che più si è vista privare della sua fitta coperta di foresta tropicale. Oltre il 40% è andato perso in soli tre decenni. All’attuale ritmo entro quindici anni i livelli di deforestazione avranno frammentato l’isola al punto da minacciare oltre l’80% delle specie endemiche. La ragione di questa assurda violenza nei confronti della natura la si trova sempre a Giava, nel meraviglioso giardino botanico di Bogor.
Questo parco, ampliato dal professor Reinwardt, un botanico olandese, ospita moltissime piante tropicali, tra cui proprio quella imputata nel processo di distruzione della foresta indonesiana. In questo giardino fu coltivata per la prima volta la Palma da olio (Elaeis guineensis), che importata dall’Africa non avrebbe più lasciato queste terre orientali, sino a diventarne la loro rovina. L’olio ricavato da questa bella palma è il principale motore che spinge molte multinazionali europee ed americane a lanciarsi in progetti di deforestazione ed impianto di colture a basso costo, a discapito della foresta vergine, per ricavarne un ingrediente che ormai si trova ovunque nei prodotti confezionati dei supermercati. Biscotti, creme alla nocciola, maionese, saponette e balsami non riescono a farne a meno. Peccato che per amalgamare i nostri piaceri quotidiani stiamo distruggendo l’incantevole bellezza dell’Indonesia.
Ecco che ora la situazione è più chiara. Abbiamo una popolazione dalla crescita senza controllo all’inseguimento del progresso occidentale, che sfrutta nel peggiore dei modi le tecnologie che già da tempo hanno devastato l’Europa e gli Stati Uniti. Abbiamo, inoltre, le multinazionali di quegli stessi stati coloniali che hanno lasciato nel caos questi luoghi, che fanno di tutto per massimizzare i loro profitti per impastare pessimi biscotti e caloriche creme, devastando l’incommensurabile splendore della foresta umida equatoriale e mettendo a rischio creature meravigliose come gli oranghi.
Così troviamo immense risaie e cibo a disposizione per sfamare migliaia di nati ogni anno, ma foreste che si riducono sempre più soffocate dall’agricoltura. Spiagge incantevoli per turisti parigini e surfisti californiani che nascondono dietro quelle poche foreste di mangrovie risparmiate dalla costruzione di fabbriche, centrali elettriche a carbone ed allevamenti di gamberi, distese di plastica che soffoca la barriera corallina. Una delle più belle e rare specie del pianeta che affamata si avvicina ai villaggi e finisce vittima di chi metro dopo metro gli ha sottratto la sua foreste. Popoli indigeni della più remota Papua e del Sulawesi che col passare degli anni fanno fatica a riconoscere le proprie terre, colonizzate dall’agricoltura di massa.
Il contrasto tra bellezza ed inferno in Indonesia ha radici profonde e merita profonde riflessioni. Certamente, una delle più preoccupanti tendenze è quella dello sviluppo incontrollato della popolazione. L’impatto di 1.000 persone per chilometro quadro non è lo stesso di quello di 500 o di 50. Così uno dei più immediati interventi per tutelare la bellezza dell’Indonesia e salvare i popoli che la abitano, proteggendoli da un’idea di sviluppo che per nulla si avvicina al raggiungimento del benessere ma piuttosto all’autodistruzione, riguarda (come in molti dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo) le strategie di riduzione della natalità. Non con le imposizioni coercitive dall’alto, come nel poco democratico sistema cinese, rivelatesi fallimentari, ma con una serie di azioni che mirino al miglioramento della condizione sociale delle donne, alla diffusione dei metodi contraccettivi e l’incremento del tasso di scolarizzazione (ancora troppo basso), con l’insegnamento di materie come l’educazione ambientale, sessuale ed igienica.
Con meno bocche da sfamare, ma più consapevoli del modello di sviluppo che seguono, l’ambiente e le popolazioni indigene potrebbero recuperare quel tempo necessario per sfuggire al vortice dell’estinzione e preservare uno dei luoghi più incantevoli della Terra.
Tutte le foto sono di Roberto Cazzolla Gatti e sono coperte da copyright