Infide asimmetrie e ciniche prepotenze di un cambiamento epocale

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I primi potenti segni del cambiamento, oggi ancora in atto, risalgono ai tempi della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra nella seconda metà del 1700. Diversamente dai primi timidi cambiamenti (avvenuti in alcuni paesi europei a partire dalle epoche post-feudali), in Inghilterra l’industrializzazione fu caratterizzata da una disumanizzazione dei principi alla base dello sviluppo delle imprese, dal prevalente ruolo dei mercati nelle scelte economiche, dalla sola utilità pratica dei beni da produrre, dallo sviluppo del potere finanziario e, soprattutto, da un interesse primario a far aumentare i profitti che sopravanzava anche ogni attenzione a una dignità umana che non fosse oggetto di mercato e monetizzabile, anche lei, in un profitto.

Ma il maggior impatto del cambiamento è, poi, avvenuto nel volgere di pochi recenti anni. A partire dal 1995 (anno diffusamente ignoto della fondazione del Wto), è stata data, infatti, una forte accelerazione ad un arbitrario e profondo cambiamento (dei diversi sistemi economici mondiali) che è stato attuato senza una dovuta informazione (rivolta alla popolazione civile che, di questo cambiamento, era la destinataria) e tanto meno proponendo consultazioni democratiche. Silenziosamente quasi fosse una decisione che i cittadini del mondo dovevano solo subire, sono stati capovolti unilateralmente, da parte di prepotenti e autoreferenti sodalizi del potere economico, i paradigmi fondamentali delle relazioni fra le autonomie e le diversità che, fino allora, avevano composto un dinamico quadro di gestione delle economie locali. I cittadini sono stati ridotti a fare la parte dei sudditi e i delegati, che li avrebbero dovuti rappresentare in ambito politico, hanno, poi, completato l’opera svolgendo i compiti, a loro affidati per questo cambiamento, in un ruolo passivo, quasi da utili idioti, in un processo di trasformazione epocale che avrebbe, invece, richiesto ben altra partecipazione e capacità di negoziazione (sui diritti dei cittadini) e di assunzione di responsabilità nel momento delle decisioni.
È stata imposta una trasformazione che ha cambiato i significati e gli equilibri delle realtà sociali preesistenti, con silenziose e subdole operazioni: alterando il concetto di società, di democrazia, di autonomia e di responsabilità individuali e collettive; deformando le negoziazioni sociali (sui modelli di sviluppo, sul welfare, sui servizi) e le dinamiche del mercato del lavoro; rimuovendo i riferimenti alle finalità dell’agire umano nelle quali ogni comunità riconosce il senso del proprio esistere; disconoscendo, nei fatti, le peculiarità della nostra specie (che per sua natura non può essere soggiogata da volontà assolute, spesso espressioni patologiche di turbamenti mentali e di disadattamento sociale).
È stata una trasformazione sociale, culturale e politica che ha forse consentito di preordinare (o quantomeno di favorire) conflitti regionali e interregionali, di armarli (invece di comporli) e perfino di deformare il concetto di libertà riducendolo, ideologicamente, a una deviata interpretazione dei comportamenti evolutivi, proposti dalle teorie darwiniane e note come «legge del più forte» (teorie mal applicate a un agire non specifico e non obbligato per l’uomo, ma esclusivo e necessario solo per tutte le altre specie animali). Infatti (come se fosse un comportamento unico e distintivo dell’uomo) la regola secondo la quale il più forte vince sul più debole, viene considerata una caratteristica propria dell’uomo e viene ipocritamente ridefinita (secondo le logiche egemoniche del potere) come punto di riferimento del modello della «libera competizione», quella della serie: libera volpe in libero pollaio.
Un’idea di competizione che se è un istinto per tutti gli animali (uomo compreso), come tale non può essere espressione di una libertà umana, ma è espressione solo di atti istintivi di potenza fisica (del più forte per sottomettere i più deboli) che sono presenti, in modo obbligato, solo nei comportamenti delle specie animali diverse dall’uomo.
La libertà umana sta, invece, proprio nel non soggiacere automaticamente a questo istinto, nell’interrogare le proprie consapevolezze per poter autonomamente scegliere quale comportamento tenere, modulando, per esempio, intuizione, partecipazione, fino, anche, ad attivare proprie specifiche qualità umane, con comportamenti solidali, di collaborazione, di amore verso i propri simili. La competizione, come modello di comportamento umano, è solo una condizione di sopraffazione imposta all’uomo da un’ideologia liberista che, così e di fatto, diventa un’espressione riduttiva e deviata (ma anche stravagante e paradossale) del termine libertà (che come significato e prospettiva di senso ha, invece, ben altra consistenza e natura).

Il secolo scorso ha esposto l’umanità a disastrose esperienze socio-politiche (gravemente luttuose e segnate da ingiuste sorti cinicamente e atrocemente inflitte a intere comunità umane) che, indicate con terminologie alterate (tutte caratterizzate dal suffisso «-ismo»: comunismo, fascismo, nazismo, populismo), sono diventate mal auguranti segni di oppressioni e non solo distorsioni dei significati originari. A questi nostri tempi sembra sia toccata una sorte simile con il liberismo che, in forme più sofisticate, quasi impalpabili, ha imposto un regime assoluto di governo del mondo (la dittatura del mercato globale della produzione, consumo e degradazione di risorse in quantità non rinnovabili) corredato da rituali fanatismi ideologici, da esaltati consensi verso l’ordine totale del quale, questa visione chimerica (priva di ogni riferimento alla realtà socio-culturale umana complessa e non solo al nostro mondo fisico, già di per sé, incompiutamente conoscibile), si fa portatrice.