Una ambigua qualità

466
Tempo di lettura: 4 minuti

Come per altri molti e potenti assolutismi della nostra storia, anche il colpo di mano del liberismo dei nostri giorni, ha avuto successo, ma non esistono ragioni, obiettivi e fini umani che possano dare senso a questa inconcludente vittoria e alle sue sciagurate conseguenze, causate dagli infertili effetti entropici (sugli equilibri naturali e sulle relazioni umane) che trasformano rovinosamente, le risorse naturali, in beni di consumo e in irreversibili rifiuti esausti finali. In questa prospettiva, il concetto di qualità (connaturato con quello di libertà che è necessario per renderlo praticabile) dovrebbe essere analizzato anche in funzione dei condizionamenti, eterodiretti dalle visioni ideologiche che hanno pesato e continuano, sempre più, a pesare sui nostri modi di pensare e di comportarci. Non solo nel secolo scorso (con le ideologie che si proponevano, in vario modo, di dare un nuovo e delirante corso alla storia dell’uomo), ma anche in epoche precedenti, vi sono state «illuminate» idee e forti convincimenti di senso comune, che hanno legittimato violenti abusi sull’uomo. Possiamo richiamare, per esempio, la reclusione degli emarginati abili al lavoro (temuti per i possibili seri pericoli di rivolta) che, nei paesi dell’Europa occidentale del XVII secolo, furono internati in strutture, che di fatto erano case di correzione e opifici: una decisione giustificata dalla folle idea che il lavoro fosse una misura morale per combattere l’ozio e dalla convinzione che si sarebbero, così, potuti generare buone opere a favore di nuovi profitti.

Se analizziamo criticamente l’uso del termine «qualità» nel lessico attuale, possiamo, senza ombra di dubbio, facilmente riconoscere che esso viene impiegato per attribuire significati di buona qualità a tutta una serie di garanzie circostanziate sulle quote di affidabilità (rispetto alle prestazioni attese), sul numero degli elementi originali, sui livelli di sicurezza che dovrebbero permettere di escludere ben definite quantità e tipologie formali di pericolo, di danni fisici e di immagine, per persone e cose.
Un uso del termine qualità che simmetricamente attribuisce, a una generica bassa qualità, il numero e il peso degli impatti di maggior pericolo, causati da beni o servizi, che sono, invece, conseguenze di specifici malfatti o mal funzionanti strumenti o di negligente e rischiosa gestione di una pur ben definita buona tecnica di lavorazione. Tutte situazioni che, in realtà, non riguardano una qualità da attribuire a strumenti e prestazioni, ma che dipendono dai livelli di sicurezza, dalle caratteristiche degli strumenti (peso, distribuzione dei carichi, resistenza dei componenti, posizioni di presa) o dal livello di competenze e dalla precisione dei protocolli esecutivi delle lavorazioni. Tutti elementi quantizzabili che se presentano omissioni o se trascurati in fase applicativa, possono portare a ferimenti anche mortali degli individui, ad avvelenamenti, esplosioni, degrado, deturpazione di beni ambientali, artistici e culturali, a errori, non più rimediabili, nella manifattura dei prodotti, nelle cure per la nostra salute, nelle consulenze per la gestione della sicurezza fisica delle persone e delle cose, nelle consulenze per portare a buon fine operazioni finanziarie non speculative, ma utili per lo sviluppo economico di un territorio. Siamo, dunque, in presenza di una deformazione, del concetto di qualità, sulla quale è stata ricostruita tutta una realtà, in funzione del mercato dei consumi.
Le nostre riflessione e le conseguenti valutazioni critiche sulle prospettive terminali di questa realtà, permetterebbero di ricercare e proporre alternative di gestione non dissipativa delle risorse (razionalmente finalizzata al progresso umano), verificabile nei risultati ottenuti (rispetto a quelli attesi) e democraticamente revisionabile. Ma sembra che le nostre capacità di riflettere, di progettare alternative (all’attuale organizzazione dello sviluppo economico, finanziario, tecnologico) non siano, oggi, efficacemente espresse dalle nostre volontà: di fatto accettiamo di lasciarci sopraffare dalle ansie del fare con le quali finiamo irresponsabilmente col colmare il vuoto di nostre mancate riflessioni e intenzioni.
Rimaniamo, così, inermi a sopportare lo stress dei ritmi da tenere, delle opportunità da sfruttare, delle competizioni da vincere, dei pericoli tecnologici, sempre incombenti, che se non sono controllati possono diventare micidiali armi improprie, per veri e propri attentati alla nostra salute, alla nostra sopravvivenza, oltreché alla tenuta degli insostituibili equilibri naturali. Sono tutti malesseri che portano al limite di una patologia mentale ormai tanto diffusa da far apparire normale questa condizione che turba i nostri pensieri, fino a deviarli e renderli incontrollabili. Sono condizioni che alterano la nostra visione della realtà e che (in modo simile a quanto avviene per il personaggio raccontato da Italo Svevo in «La coscienza di Zeno») siamo indotti ad accettare come un dato di fatto immodificabile.
Sono ansie che, ritenendo di non poterle risolvere e insieme ricercando un minimo di conforto per riuscire a resistere alla loro oppressione, finiamo con il rimuoverle dalla nostra mente, accettando acriticamente le cause che le hanno generate. Non c’è quindi da meravigliarsi se, poi, lo sviluppo della tecnica e della tecnologia diventano i motori incontrastati di un’ideologia (di tipo scientista) che contrabbanda (come certezze assolute) garanzie di qualità (a volte, solo dichiarazioni formali, a sostegno del mercato dei consumi) che comunque non sono verificabili direttamente, tantomeno preventivamente, sull’uso di un bene o di un servizio (per esempio, garanzie sulla sostenibilità ambientale degli attuali mezzi di trasporto, degli impianti produttivi, sulla bontà nutrizionale dei cibi conservati, sull’innocuità dei sistemi di smaltimento dei rifiuti, sulla sicurezza degli impianti nucleari per la produzione di energia elettrica, nonostante gli allarmanti e inoccultabili incidenti e i documentati dubbi sulla loro affidabilità).
Pur nella sua ambiguità, questo concetto di qualità riesce, però, a fare facilmente presa, muovendosi (con il suo carico di falsità) sui binari precostituiti di un senso comune che legittima, arbitrariamente, l’uso di dati e criteri quantitativi ai fini di una valutazione qualitativa. Ma i criteri delle valutazioni qualitative hanno tutta un’altra natura: sono infatti capaci di entrare nel merito del valore delle cose e dei fenomeni, di animare una ricerca e una pratica di riconoscimento e verifica del senso delle cose (con il confronto e la realizzazione di sinergie che possono migliorare contenuti e metodi delle nostre relazioni), di proporre significati (diversi e condivisi) al nostro esistere, di rendere spendibili le nostre peculiarità per generare fenomeni vitali in sintonia con quelli naturali.