Ridurre gli investimenti per la ricerca negli ospedali e nelle università pubbliche espone tutti al ricatto di dover sottostare all’unica legge che il mercato conosce e che è la legge del profitto. C’è il rischio che il Sofosbuvir sia solo il primo di una lunga serie di espropri di salute
Quando nell’ultima pillola abbiamo affrontato le problematiche relative all’introduzione ormai prossima del Sofosbuvir nel Prontuario farmaceutico italiano abbiamo lasciato volutamente da parte un aspetto decisivo della questione.
Il Sofosbuvir, ricordiamolo, è quel nuovissimo farmaco ad attività antivirale capace di combattere in maniera molto efficace il virus dell’epatite C ed in particolare quelle forme che non rispondono agli schemi attualmente in vigore, basati sull’utilizzo (prevalentemente associato) di ribavirina ed interferone pegilato alfa. Il problema però è attualmente rappresentato dall’enorme costo del farmaco che è prodotto dalla californiana Gilead sciences e che costa, sul mercato internazionale, più di 80mila dollari per l’intero ciclo di trattamento di dodici settimane e che sul nostro potrebbe stabilizzare il proprio costo sui 50mila euro. Un costo enorme, se si considera che la platea dei potenziali beneficiari è amplissima essendo in Italia fra 200mila e 500mila coloro i quali potrebbero teoricamente essere trattati con quel farmaco, con una spesa complessiva che si aggirerebbe attorno ai 25 miliardi di euro.
L’antivirale più prezioso dell’oro, così, ha cominciato a far parlare di sé prima ancora di sbarcare negli ospedali e nelle farmacie, inducendo necessariamente una serie di riflessioni che avevamo cominciato a snocciolare nel nostro precedente intervento.
Il punto di fondo, però, è quello relativo al come si sia giunti non tanto al punto in cui un farmaco possa costare così tanto, quanto al come sia possibile che tutto il processo produttivo (quindi sostanzialmente il prezzo) sia stato di fatto privatizzato da un’azienda che, pertanto, è in condizione di fare il bello e cattivo tempo. Le proposte che si sono sentite in questi giorni (limitare la terapia ai soli casi gravi, limitarla ai non responders alle altre terapie, limitarla ai soli genotipi virali più aggressivi, trattare solo i giovani e così via) devono pagare lo scotto di adeguarsi ad una condizione di partenza che è quella della proprietà privata di un bene di pubblica utilità e della concreta impossibilità di trattare con una holding che, dopo aver investito in ricerca, ora chiede al mercato di riconoscerle il proprio tornaconto.
Anche le proposte (un po’ surreali, per la verità) di entrare in partenariato con l’azienda produttrice o di imporre dei prezzi più bassi non trovano logica applicativa in un sistema di mercato che si basa sull’enfatizzazione massima del ritorno commerciale e che fa del rientro economico l’unico dio a cui rispondere. Beninteso, è quello che accade un po’ a tutti i farmaci presenti sul mercato, ed è anche quello che accade a tutto ciò che circola sul mercato, anche oltre i farmaci, naturalmente. E allora perché scandalizzarsi? Perché gridare all’assurdo nel caso del Sofosbuvir e della possibile rinuncia a curare malati di epatite C in caso di deficit nazionali particolarmente rilevanti (e l’Italia nel settore è molto esperta)? Ed inoltre: come si è potuti arrivare a questo? Come si è consegnata la ricerca nelle mani di privati per poi andare ad elemosinare prezzi più contenuti o inapplicabili partenariati commerciali?
Ciò che si va dicendo da ormai molti anni, specialmente nel campo della difesa della salute ma ovviamente non solo, è che la ricerca non può essere frustrata e depotenziata negli ambiti pubblici con la speranza poi che qualcun altro la faccia a propri costi. È una logica perdente ed autolesionista, che porterà negli anni a determinare non tanto costi elevatissimi per prodotti di primaria importanza (i farmaci in genere ed un farmaco salvavita come quello di cui stiamo parlando sono pertanto ed allo stesso tempo uno sconvolgente «caso di studio» ed un esempio emblematicamente rappresentativo) quanto alla impossibilità di tracciare la delineazione stessa della modalità produttiva del prodotto, rendendone incomprensibile il valore economico. E quindi sottraendolo ad ogni possibile tentativo di «dargli un valore accessibile». Se sono l’unico a produrre un bene e rendo segreto ogni passaggio della sua produzione potrò vantare e dichiarare costi di ogni genere ed entrare nel mercato alle mie condizioni, senza possibilità di replica e di contestazione.
Se la ricerca verrà sempre più esclusa dalle aule universitarie e dai centri pubblici di sperimentazione e verifica si otterrà semplicemente uno spostamento delle analisi e degli studi verso i grandi potentati economici (non di rado sovvenzionati dall’economia pubblica in nome del dovere di sostegno all’occupazione dei lavoratori di quelle aziende resi sempre più precari da modelli di contratto sempre meno garantisti per i più deboli) che poi potranno proporre sul mercato le loro «merci» senza dover rispondere ad altro che alla richiesta famelica delle proprie tasche e dei propri portafogli.
Ridurre gli investimenti per la ricerca negli ospedali e nelle università pubbliche espone tutti al ricatto di dover sottostare all’unica legge che il mercato conosce e che è la legge del profitto.
Ecco perché le componenti più avanzate della scienza e della medicina chiedono con sempre maggiore insistenza che la ricerca biomedica sia e rimanga quanto più possibile pubblica, autonoma ed indipendente e che si basi su priorità derivanti dalla pubblica utilità e non dalle sole logiche di mercato. L’alternativa è che il Sofosbuvir sia solo il primo di una lunga serie di espropri di salute.