Progresso ed economia, elaborazioni di equivoche trasparenze

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Le attese di progresso umano non sembrano in nessun modo conciliabili con l’andamento perverso dell’attuale economia globale e con le micidiali fantasie dell’ideologia liberista: sottrarre soldi, imporre insostenibili «pizzi» e ricatti, minacciando il lavoro che altrimenti verrebbe a mancare (se le fabbriche dovessero chiudere e migrare in altri territori o se si interrompesse la catena dei consumi), non solo sottrae risorse per il progresso umano, ma immobilizza anche ogni opportunità per attuarlo. È ormai passato mezzo secolo da quando ci raccontavano le fiabe sulla bontà del mercato libero dei consumi, su uno sviluppo economico virtuoso in favore del progresso (in realtà mai definito con riscontri che potessero verificarlo) e sulla liberazione dell’uomo dalla fatica fisica (in realtà sostituita, oggi, dagli stressanti ritmi imposti da crescenti richieste produttive e dalle alienazioni di un uomo ridotto a merce in vendita sul mercato del lavoro).

Oggi, anche se un vetro deformante, messo a difesa della bontà della globalizzazione dei mercati, sottrae, alla nostra visione, fondamentali prospettive per analisi e valutazioni critiche sui meccanismi economici (per esempio, quelli dei trattati internazionali, quelli del commercio delle armi, quelli del dominio su un intreccio indecifrabile di interessi nascosti e particolari), siamo consapevoli di essere di fronte a un sistema che dissipa risorse, che crea attriti, finalizzati a preordinate provocazioni e sfide, per affermare un dominio sulle diverse società civili del nostro mondo. Oggi, possiamo smascherare molte false fatalità: guerre necessarie (dovute, invece, a ingiustificabili incapacità politiche, ma forse ancor più a preordinate e pretestuose rivendicazioni e a micidiali ritorsioni finalizzate a riordinare il dominio dei mercati); alleanze virtuose (per spartire risorse altrui); insostenibili propositi di eliminazione della diversità (necessaria per combattere immaginari nemici di una propria civiltà superiore da difendere); interventi umanitari armati in nome di virtuosi principi (che si sostiene siano stati violati, ma prima ancora forse anche armati proprio da chi invoca, poi, la necessità di tali interventi).
Tutte queste falsità sono causa di disgrazie umane, ma possono essere occasione (sicuramente anche amare) per riflettere sull’origine e sui rimedi che riguardano quella sottrazione di autonomia che impedisce lo sviluppo di modi di pensare e di comportarsi consapevolmente scelti da ogni essere umano. Una riflessione che può diventare denuncia dell’uso arcaico delle fatalità, imposto (ma anche passivamente subito) che impedisce interpretazioni e partecipazioni responsabili, dei cittadini e delle loro comunità, al divenire delle cose del mondo.

La storia dovrebbe, oggi, mostrare chiaramente (al di là delle opacità e mancate trasparenze filtrate dai vetri delle analisi degli eventi avvenuti nel tempo) come, quote sempre più rilevanti del genere umano (pur fra difficoltà, crisi profonde di ogni genere, sacrifici estremi), sono riuscite a non soccombere, in un percorso durato molti secoli, al dominio di prepotenti interessi, che apparivano invincibili, e hanno raggiunto mete di progresso nel campo sociale, politico e culturale. La storia documenta una tendenza, lenta ma continua (pur sempre contrastata dalle seduzioni del potere e dalle azioni repressive e violente sugli individui), verso un progresso realizzato dall’uomo con progetti condivisi, con le risorse delle sue diversità creative, con la faticosa ricerca delle sinergie necessarie per mantenere e dare prospettive alle vitali complessità, delle relazioni umane (sempre esposte agli attacchi dell’assoluto ideologico-riduzionista dei poteri forti). C’è da sperare e da lavorare perché questa nostra storia non si fermi, oggi, bloccata da nuove e più sofisticate forme di potere.
Proprio, in questi mesi, specifici messaggi televisivi cercano di convincerci sulla bontà di un trattato commerciale di libero scambio (Ttip) fra Ue e Usa, lasciando trasparire il favore di certi numeri e vaghi vantaggi («un mercato di 400 Ml di cittadini è meglio di un mercato di soli 200 Ml») e non offrendo nessuna informazione, invece, sul merito di questo accordo in quanto segreto e che, quindi, nessun vetro potrà ufficialmente svelare. Forse, pur se non traspare da nessun vetro, il nuovo trattato di libero scambio, verticisticamente sostenuto a livello della Commissione e del Consiglio Ue, sembra destinato ad aprire i mercati europei all’invasione, senza possibilità di controllo, di prodotti non certificati o certificati con criteri che non fanno alcun riferimento ai diritti alla salute e alla qualità dell’ambiente, che sono, invece, da noi europei già acquisiti.
In realtà, quest’ultimo trattato, messo in mostra sugli schermi televisivi in modi accattivanti, sembra essere il tassello importante di un progetto di governo del mondo, del tutto sottratto alle politiche delle comunità democratiche, affidato solo alle convenienze economico-finanziarie del mercato globale e a un tribunale privato (Isds), unico e inappellabile, per la soluzione delle controversie commerciali internazionali. C’è poco da immaginare su quale sia la visione delle cose da parte di questo tribunale (voluto dalle grandi società internazionali di produttori e distributori di beni e servizi). C’è, però, da valutare anche quanto sia improbabile che i cittadini europei possano facilmente rinunciare alla trasparenza sulla qualità delle merci e si sottomettano ai nuovi criteri in contrasto con i diritti all’informazione e alla salute già riconosciuti nell’ambito della Ue.

Nel merito di questo trattato c’è anche una chiarezza, che è essenziale esigere, per opporsi a un vantato diritto assoluto al profitto, autoproclamato dai sostenitori del liberismo, che sembra si voglia sia riconosciuto oggi a chi semplicemente «fa le cose», qualunque esse siano.
A ben vedere, sembra un modo per aggirare la tanto osannata competizione, proprio sui fattori della qualità di beni e servizi. Siamo, infatti, in una situazione paradossale: con questa richiesta (che ormai è anche una pratica già in atto, in alcune controversie internazionali) si nega quel principio assoluto della competizione sul quale si basa il libero mercato globale. Detto in altro modo, le promesse del libero mercato sulla qualità dei consumi, regolata dai meccanismi della competizione, si sta dimostrando insostenibile.
Oggi, quindi, all’ombra della retorica del libero mercato, vengono imposti altri meccanismi in piena contraddizione con quelli della competizione: il profitto garantito (cosa del tutto diversa dal lavoro garantito) annulla la competizione in modo unilaterale. Le nuove regole sono tanto indifendibili da essere tenute prudentemente segrete nell’attesa di un immutabile dato di fatto finale. Le Istituzioni democratiche, intanto continueranno a essere del tutto assenti o a far solo da tappezzeria, e dovranno solo prendere in carico gli ordini esecutivi finali. È dunque evidente che questo specifico trattato (Ttip) Usa-Ue vuole «solo» imporre un proprio intoccabile diritto: quello al profitto, senza rischi, che è sostanzialmente una vera e propria prepotenza.
Già si annuncia l’assurda intenzione di eliminare la data di scadenza, la tracciabilità, la provenienza e l’elenco completo dei prodotti dalle etichette degli alimenti conservati per evitare, sul nascere, fastidiosi contenziosi e una buona quota del reso delle merci senza più garanzie di qualità (varrà, quindi, la regola secondo la quale beni e servizi essendo prodotti con l’aspettativa di un guadagno, hanno diritto alla sicurezza del profitto che non potrà essere impedito da criteri diversi, come quelli per la sicurezza della salute e per la qualità dei prodotti). Questo diritto assoluto al profitto riguarda tutti i beni di consumo e i servizi verso i quali non potremo più rivalerci per eventuali frodi o danni subiti (non si potrà agire legalmente neanche con una class action).
Passando a un altro caso (quello delle assicurazioni sulle responsabilità civili) è allo studio una proposta che intende attribuire, sempre, responsabilità anche i danneggiati da un incidente stradale (e forse non solo da questo tipo di incidenti), tutto con chiari, grandi e sleali vantaggi per le società di assicurazioni (che pagheranno risarcimenti meno onerosi, ma certamente non decideranno di fare meno profitti).
C’è, ora, da temere una nostra inerzia, che può diventare «fatale» per un nostro cedimento a un’invincibile burocrazia liberista globale che complicando, se non proprio annullando, le rivalse internazionali sui danni derivanti da prodotti e servizi acquistati, può arrivare a sopprimere anche i diritti e l’essenzialità di bisogni irrinunciabili individuali e collettivi (luoghi di riparo, difesa personale dalle intemperie, cibo, luoghi di incontro e di socializzazione, condivisione risorse materiali e immateriali).

Il liberismo economico di fatto si presenta, dunque, in sua una virtuale vetrina, come un sistema non solo deformato dalle sue contraddizioni, ma anche blindato per resistere passivamente a qualsiasi critica, a qualsiasi contestazione: un vero e proprio governo assoluto che l’ideologia liberista sta trasformando in una compiuta tirannia. Attraverso una gestione centralizzata e universale, di tipo amministrativo ed economico-finanziario sarà consentito l’esercizio di forme, poco percepite ma oppressive, di controllo delle libertà umane di pensiero, di proposta creativa, di critica e opposizione democratica (a scelte di sviluppo non condivise, a modifiche e destinazioni militarizzate dei territori contro la volontà degli abitanti). Saranno, invece, favoriti i profitti, le strutture verticistiche di governo che decideranno unilateralmente le nostre condizioni di vita. Sarà anche consentito di «liberare» da ogni vincolo, gli interventi sugli equilibri naturali (che sono opportunità di business, anche se mettono a rischio la sopravvivenza del nostro pianeta).
Per comprendere la disumanizzazione in atto già da tempo nelle nostre società civili, è significativo fare riferimento al cinico riduzionismo già presente in certi pensieri di A. Smith. Un «grande» del passato e un riferimento mitico del presente, che (riducendo la libertà e le qualità umane a un’opportunità per adeguarsi ai meccanismi delle asimmetrie utilitaristiche e solipsistiche che fanno girare i mercati e i profitti) viene ancora oggi proposto (ma indirettamente anche offerto alle nostre capacità di riflessione e valutazione) nell’assoluto, sottovetro, trasparente e invulnerabile, dei suoi tristi pensieri di economia liberale:

«Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio, che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo, non alla loro umanità, ma al loro amor proprio e non parliamo delle nostre necessità, ma della loro convenienza».

In realtà, sembra di essere finiti in un mondo gestito da personaggi, esaltati da meccanismi relazionali semplificati e disumanizzati, che immaginano, in nome di verità relazionali meccaniche e assolute, di poter trovare, nell’esercizio di arroganti pragmatismi, non il senso del proprio esistere, ma ingenue e immediate soluzione ai problemi complessi che non intendono affrontare o che comunque ritengono essere espressione di inutili interferenze. Vengono, così, eliminate tutte quelle realtà relazionali e quelle impostazioni sistemiche che possiamo riconoscere in tutti i fenomeni fisici e sociali del nostro mondo (per esempio, quelle dell’avere il senso del limite della nostra condizione umana, che dà concretezza ad un progresso fattibile e non insegue né irrealizzabili fantasie, né rovinose innovazioni tecnologiche e speranze di successo decise dal caso, senza senso).
Una vera brutta storia di fatti, trasformati in un’autoreferente geometrica teoria di asimmetrie socio-economiche, del dover dare da parte di molti e del pretendere di avere da parte di pochi, nelle contingenze del trovarsi a esistere. Fatti che sono in totale contraddizione con le dinamiche degli equilibri naturali (per i quali la diversità del nostro mondo, non finalizzata a un utile individuale terminale, è, invece, garanzia di vitalità). Una brutta storia che non ha, neanche occasione di dare un senso specifico alla vita umana perché racconta solo le conseguenze scontate di banali meccanismi, lineari e decontestualizzati, che non entrano in sintonia e tanto meno danno valore ai processi vitali unici di ogni individuo. È allora anche evidente che, chi impone questi tipo di processi, se non deciderà di contribuire ad alimentare le relazioni e le sinergie necessarie per dare tenuta agli equilibri naturali, non potrà più, neanche lui, trarre, da esse, le proprie insostituibili energie vitali.
Dovremmo, forse, costruire noi vetrine accessibili a un meditato e condiviso cambiamento, attivato dalle consapevolezze sui meccanismi di aumento incontrollato di entropia, prodotto dal sistema del libero mercato dei consumi, che opera degradando risorse ed energie, per arrivare a un paralizzante e irreversibile equilibrio finale. Un equilibrio statico che trova dirette analogie solo nella immobilità conclusiva delle salme nei cimiteri e dei «beni», trasformati in «mali» di consumo e destinati all’abbandono e al confinamento nelle discariche dei rifiuti.
Diversamente da quanto avviene nelle pratiche del libero mercato dei consumi e dei profitti, la Natura pur se non mette direttamente in mostra ogni cosa, nella profondità dei suoi significati, permette, però, di essere esplorata senza limiti nelle dimensioni delle nostre migliori capacità che sappiamo sviluppare nel tempo. Non ha vetri che la difendano ed è invece sempre aperta all’intelligenza e alla creatività cognitiva di chi la indaga. La Natura non impone assoluti ai nostri modi di conoscere e al senso che possiamo dare ai contenuti delle nostre conoscenze da essa tratte: lascia che la nostra diversità possa continuamente definire e ridefinire le nostre visioni del mondo materiale e argomentare in modo non preordinato tutto ciò che lo trascende.