L’uomo ancora non sceglie di vivere sulla Terra

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Avviato uno sradicamento iniziato alla fine della seconda guerra mondiale che punta ad una colossale perdita di identità che accentua la divisione fra solidarietà ed egoismo, fra ricchi e poveri. Le altre divisioni artefatte volute dalla politica sono strumenti di distrazione di massa. A queste considerazioni si inserisce la visione dell’uomo su questo pianeta: è destinato a conviverci con l’aiuto di una comprensione scientifica delle dinamiche esistenti sempre crescenti o vince la visione del dominio e della trasformazione continua con la sfida costante a gestire le dinamiche alterate?

A livello globale sembra sia iniziato un nuovo tipo di selezione naturale. A riflettere sulle notizie che giungono da più parti del pianeta, sembra che l’uomo, come un oggetto dotato di scadenza, stia virando verso un dualismo fra individui più evoluti e individui bloccati e in regressione.
Avevamo già segnalato una forte radicalizzazione politica nell’affrontare le situazioni che impongono il cammino dell’uomo. Avevamo anche auspicato una sorta di nuova alfabetizzazione, una specie di appello che da tempo viene da varie voci contemporaneamente alla nascita della globalizzazione.
Gli uomini, nel passato, hanno affrontato situazioni di guerre e di stenti che nulla hanno a che vedere con le situazioni attuali dove queste condizioni sono ben presenti nei luoghi degli scontri e non nei luoghi che reggono, indifferenti, le fila di azioni che sfuggono ormai alla ragione, così come l’abbiamo intesa fino ad ora.
Eppure, allora, anche in quelle situazioni, la dignità, una base etica minimale, una solidarietà quasi istintiva erano presenti. Anche in mancanza di una educazione diffusa ed in una situazione generale di analfabetismo, gli uomini erano sorretti da un «ben pensare» che li ha aiutati a superare gli stenti, a rialzarsi e a garantire la ripresa di un cammino che ci ha portati fuori dalle difficoltà.
Ora non c’è quasi più nulla di tutto questo.
Gli individui intelligenti sono lontani anni luce dalle difficoltà in cui si dibattono certi strati della società. Ed in questi strati domina la violenza. Non quella che rappresenta una sorta di autodifesa, ma la violenza per la violenza, con punte di crudeltà tribali. I delitti sono particolarmente cruenti e tendono a negare al prossimo qualsiasi via d’uscita. Sono un richiamo alla violenza non solo i valori materiali, come la ricchezza posseduta da altri, ma anche valori estetici come la bellezza.

La violenza in aumento

In uno studio delle Nazioni Unite del 2013 si sottolinea come la disparità tra le nazioni più «sicure» e quelle più pericolose sta aumentando.
Secondo i dati diffusi dall’Oms, nel 2012 sono state uccise 475.000 persone e l’omicidio è la terza causa di morte a livello mondiale per gli uomini dai 15 ai 44 anni. Nonostante una diminuzione dei tassi di omicidio del 16% tra il 2000 e il 2012, inoltre, la violenza resta diffusa e colpisce soprattutto donne e bambini, con il 25% dei minori maltrattati fisicamente, il 20% delle ragazze abusate sessualmente e il 33% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale da parte del partner.
Nonostante questo, solo un terzo dei 133 paesi esaminati dall’Organizzazione mondiale della sanità stanno attuando iniziative di ampio respiro per prevenire la violenza, e anche se l’80% dei paesi ha introdotto un sistema di misure anti-violenza, poco più della metà delle nazioni fanno realmente rispettare queste leggi.
È vero che le statistiche che conteggiano gli omicidi non considerano i morti nelle guerre, però va detto che dalla fine della seconda guerra mondiale i morti nei vari conflitti regionali fino al 2014 sono stati oltre 50 milioni. In totale dalla prima guerra mondiale al 2014 i morti sono stati 130 milioni. Lo sterile calcolo dei morti non dà però l’idea di quanto sta avvenendo.
La polverizzazione dei conflitti e le atrocità con cui avvengono gli omicidi danno un’amplificazione al dilagare della violenza che è ben superiore al calcolo matematico.
Per parafrasare un concetto che tutti possono comprendere, quando si parla di calore si parla di caldo percepito e dati reali della colonnina del barometro. Qui è lo stesso caso.

La seconda guerra mondiale non è finita

Le atrocità naziste hanno costituito un modello negativo che ha fatto scuola. Dalla fine della seconda guerra mondiale il mondo non è stato più lo stesso. Basti pensare all’uso delle torture, al terrorismo, ai genocidi.
Secondo l’Associazione per i popoli minacciati «dopo la fine della seconda Guerra Mondiale le vittime dei genocidi e degli assassini di massa sono stati gli indigeni dell’Amazzonia, gli indiani Maya, i popoli di montagna Chittagong, i Biafrani, i Bengalesi, i Tibetani, i Kurdi, gli Assiri aramaici, gli eritrei, i Sudsudanesi, Hutu e Tutsi, Afghani, Timoresi dell’Est e Papuani. A partire dal 1991 il genocidio è ricomparso anche in Europa: nella Slavonia dell’Est, in Bosnia, Kosovo ed in Cecenia.

Una barbarie crescente e rilevante la cui ragione, per lo storico Eric Hobsbawm, che ne scrisse sin dal 1995 ne «Il secolo breve», era da ricercarsi nell’inedita democratizzazione della guerra. «I conflitti generali si trasformarono in “guerre di popolo” sia perché i civili e la vita civile diventarono gli obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare, sia perché nelle guerre democratiche, così come nella politica democratica, gli avversari sono naturalmente demonizzati allo scopo di renderli odiosi o almeno disprezzabili».
Un crescendo di radicalizzazioni a tutti i livelli, da noi più volte segnalati.
Lo spegnersi o il mettere a tacere le voci consapevoli di coloro che leggono i fatti della società e l’affermarsi di una generazione di governanti legati al malaffare e favoriti da un concetto liberale più legato al consumismo che alle libertà, hanno finito per offuscare i problemi reali che sono cresciuti in un mix di odi antichi e ingiustizie recenti.
Praticamente le ferite della seconda guerra mondiale non si sono mai sanate. Ed è allora che nacque l’idea di un nuovo ordine mondiale, una nuova terra prossima, un nuovo paradiso che il libero mercato avrebbe donato al mondo.
Il «frutto» più immediato doveva essere una destabilizzazione globale. Il grimaldello di tutto ciò erano le migrazioni.

Le infinite migrazioni

Lucida l’analisi di Eric Hobsbawm sin dal 1995: «A una stima approssimativa negli anni tra il 1914 e il 1922 si ebbero dai quattro ai cinque milioni di profughi. Questa prima ondata di relitti umani fu di assai poco conto rispetto a quella che seguì la seconda guerra mondiale, dove i profughi vennero trattati spietatamente. È stato calcolato che nel maggio 1945 c’erano forse in Europa 40,5 milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano dinanzi all’avanzare dell’Armata rossa (Kulischer, 1948, pp. 253-273). Circa tredici milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse dalla Polonia e dall’Urss, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell’Europa sudorientale dove essi si erano sistemati da tempo (Holborn, p. 363). Essi furono accolti dalla nuova Repubblica Federale di Germania, che offri una patria e una cittadinanza a tutti i tedeschi che vi rientravano, così come il nuovo stato di Israele offrì un “diritto di ritorno” a ogni ebreo. Solo in un’epoca come la nostra, in cui sono possibili i voli di massa, offerte simili da parte degli stati potevano venire seriamente formulate. Degli 11.322.700 “deportati” di varie nazionalità trovati in Germania nel 1945 dagli eserciti vittoriosi, dieci milioni tornarono subito in patria, ma una metà di questi vi fu costretta contro la propria volontà (Jacob Meyer, 1986).
«Questi furono soltanto i profughi dell’Europa. La decolonizzazione dell’India nel 1947 ne creò quindici milioni, costretti ad attraversare le nuove frontiere fra l’India e il Pakistan (in entrambe le direzioni), senza contare i due milioni uccisi nella guerra civile che seguì. La guerra di Corea, un altro derivato della seconda guerra mondiale, produsse forse cinque milioni di profughi coreani. Dopo la costituzione dello stato di Israele, altra conseguenza della guerra, circa 1,3 milioni di palestinesi furono presi in carico dall’UNWRA (United Nations Relief and Work Agency), l’agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti e l’occupazione; di contro, all’inizio degli anni 60 gli ebrei emigrati in Israele, per lo più come profughi da altri paesi, ammontavano a un milione e duecentomila. In breve, la catastrofe umana complessiva scatenata dalla seconda guerra mondiale è quasi certamente la più grande mai avvenuta nella storia. Uno dei suoi aspetti più tragici è che l’umanità ha imparato a vivere in un mondo in cui lo sterminio, la tortura e l’esilio di massa sono diventati esperienze quotidiane di cui non ci accorgiamo più».
(Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995)

Scegliere fra egoismo e solidarietà

Una confusione e una instabilità che si incancreniscono perché, come disse Eric Hobsbawm in una intervista prima di morire, il problema è «la mancanza di leadership, di persone che decidono», un nodo insito nella globalizzazione: «Lo dicevo in passato e lo ripeto oggi: questo è il tallone di Achille della globalizzazione che funziona in tutti i campi, linguistico, culturale, scientifico, economico ma non in politica. Non ci sono accordi tra i due o tre principali paesi del mondo, nessuno decide più».

Per questo da anni sosteniamo che la divisione è fra solidarietà ed egoismo, fra ricchi e poveri. Le altre divisioni artefatte volute dalla politica sono strumenti di distrazione di massa.
A queste considerazioni si inserisce la visione dell’uomo su questo pianeta: è destinato a conviverci con l’aiuto di una comprensione scientifica delle dinamiche esistenti sempre crescenti o vince la visione del dominio e della trasformazione continua con la sfida costante a gestire le dinamiche alterate?

Tutto è comunque riconducibile alla conoscenza e per questo è intollerabile che il mondo della ricerca segua l’onda della parte deteriore della globalizzazione e non la ricerca di quella visione complessiva, interdisciplinare e radicalmente globale propria delle origini della scienza.
La parcellizzazione delle ricerche equivale ad una pericolosa diaspora perché si consente ad altri di gestire le linee della ricerca e ad orientarne i risultati verso visioni non utili alla crescita e allo sviluppo della società umana.

 

Ignazio Lippolis