La Cassazione conferma la rilevanza penale delle emissioni di cattivi odori

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Il dispositivo riconduce le molestie provocate dalle emissioni di cattivi odori al «getto pericoloso di cose» e riconosce il valore probatorio delle testimonianze dirette, vista l’impossibilità di accertamenti tecnico-scientifici

L’emissione di cattivi odori è uno dei problemi più ricorrenti negli esposti e segnalazioni che pervengono ad Arpat.
Si tratta però di un problema di non facile soluzione, sia perché non sempre è possibile per gli operatori verificarne l’effettiva presenza al momento dei sopralluoghi, sia per la difficoltà di individuare con certezza la fonte emissiva.
Questo può accadere specialmente in aree vaste, dove non insistono impianti particolarmente a rischio o, al contrario, in aree densamente industrializzate dove sono molti gli impianti potenzialmente a rischio.
Tuttavia, la conoscenza delle tipologie di insediamenti che insistono nel territorio, e la ricorrenza delle segnalazioni consente spesso ai nostri tecnici di individuare le cosiddette fonti puntuali.

Fondamentalmente vi sono due tipologie di emissioni perseguibili provenienti da attività produttive:
– emissioni di sostanze inquinanti, che rientrano nell’ambito dell’inquinamento atmosferico;
– miscele di composti gassosi (che possono in parte coincidere con quelle inquadrate nell’ambito dell’inquinamento atmosferico) che producono anche molestia olfattiva ossia gli «odori molesti».

Per le emissioni di sostanze inquinanti la legislazione è ampia e chiara (parte V del D. Lgs 152/06 e smi di seguito Testo unico ambientale). Il superamento dei limiti fissati per le emissioni in atmosfera di attività produttive, fissato dalla normativa vigente e indicato negli atti autorizzativi, è sanzionato ai sensi dell’art 279 del Tua (Testo unico ambientale) che prevede la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Qualora il superamento dei limiti tabellari determini anche il superamento dei valori limite di qualità dell’aria previsti si applica, ai sensi del comma cinque del medesimo articolo, la pena detentiva dell’arresto fino a un anno (pena quindi, non oblazionabile).
I sistemi di autocontrollo delle aziende, i monitoraggi in continuo e i controlli da parte dei soggetti istituzionali, tra i quali Arpat, garantiscono un elevato grado di sicurezza sul rispetto dei limiti. I parametri per la caratterizzazione e misurazione degli inquinanti seguono metodologie validate e certe, tanto che le stesse aziende sono in grado di intervenire direttamente in caso di criticità impreviste.
Per quanto riguarda le emissioni odorigene, l’attività di contrasto risulta molto difficile infatti pur esistendo norme tecniche per la loro misura, ad oggi in Italia l’inquinamento olfattivo non è disciplinato in maniera specifica dal legislatore e mancano completamente riferimenti normativi cogenti sui livelli di accettabilità degli odori e del disagio olfattivo (unica eccezione è contenuta nel DM 29/01/2007che richiama le migliori tecniche disponibili per i biofiltri).
Il Testo unico ambientale, infatti, pare ricomprendere implicitamente l’inquinamento olfattivo nella definizione di «inquinamento atmosferico» di cui all’art. 268 comma 1 lett. a, tuttavia non prevede limiti, espressi in unità odorimetriche, alle emissioni di sostanze odorigene dagli impianti e metodologie o parametri per valutare la rilevanza o meno del livello di molestia olfattiva da essi determinato, limitandosi a qualche riferimento o enunciazione di principio riguardo alla problematica dell’impatto olfattivo (ad es. in materia di rifiuti l’art. 177, prevede che la gestione degli stessi debba avvenire «senza causare inconvenienti da odori»).
La molestia olfattiva è nondimeno da considerarsi una forma di inquinamento che può causare pesanti disagi per la qualità della vita e per l’ambiente ed ormai è consolidato l’orientamento giurisprudenziale che riconduce tale tipo di molestie al reato previsto dalla parte seconda dell’articolo 674, codice penale «getto pericoloso di cose» che punisce «chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti».
La recente sentenza della Corte di Cassazione (sent. Cass. pen sez 3. num 12019 del 10 febbraio 2015) afferma che il reato di cui all’art. 674 del Codice penale è configurabile anche in presenza di «molestie olfattive» promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera e rispettoso dei relativi limiti, non riferiti però agli odori (quindi sanziona le molestie olfattive a prescindere dalla sussistenza dell’inquinamento atmosferico).
Nel caso esaminato dalla recente sentenza i valori limite autorizzati per le immissioni erano stati rispettati dall’imputato, tuttavia tali limiti non si riferivano agli odori e proprio gli odori erano risultati molesti sulla base delle testimonianze degli abitanti residenti nelle vicinanze dell’impianto. La sentenza ha inoltre individuato quale parametro di legalità dell’emissione quello della «stretta tollerabilità», attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente e alla salute umana del criterio della «normale tollerabilità», previsto dall’art. 844 del Codice civile, che in un’ottica strettamente individualistica e non collettiva, tiene conto non solo della sensibilità dell’uomo medio, ma anche della situazione locale (infatti, l’autorità giudiziaria nell’accertare il superamento della «normale tollerabilità», deve contemperare le esigenze della produzione con le esigenze della proprietà e può tener conto della priorità di un determinato uso).
In secondo luogo la sentenza in commento ha riconosciuto che qualora difetti la possibilità di accertare strumentalmente in modo obiettivo l’intensità delle emissioni odorigene, la molestia olfattiva possa non esser «accertata» in via scientifica e «il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni odorigene può ben basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti». È auspicabile che la successiva giurisprudenza chiarisca i tratti distintivi del criterio di stretta tollerabilità rispetto al criterio maggiormente noto, della «normale tollerabilità» previsto dall’art. 844 codice civile.