Pesca illegale in Thailandia

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Svolta anche in violazione dei diritti umani. La Thailandia è il quarto esportatore di frutti di mare al mondo, guadagnandosi un fatturato annuo di oltre 6,5 miliardi di dollari. Un fatturato che è macchiato dal sangue delle condizioni disumane in cui versano i lavoratori ai quali di fatto viene negato ogni tipo di diritto

Alcuni pescherecci tailandesi negli ultimi anni hanno spostato le proprie attività di pesca verso aree di mare sempre più remote, per non dover sottostare alle regole adottate da diversi paesi asiatici in seguito ai numerosi scandali di violazione dei diritti umani emersi di recente nell’industria ittica tailandese.
A denunciarlo è Greenpeace nel rapporto «Turn the Tide», che diffonde i risultati di un’indagine durata circa un anno. Lo scenario che ne emerge è inquietante: a bordo di pescherecci tailandesi attivi in Oceano Indiano, sono stati documentati casi di pesca illegale, traffico di lavoratori (trafficking) e altri abusi dei loro diritti, tra cui pessime condizioni di lavoro causa di incidenti mortali. Folli pratiche al di fuori di ogni tipo di controllo.
La Thailandia è il quarto esportatore di frutti di mare al mondo, guadagnandosi un fatturato annuo di oltre 6,5 miliardi di dollari in base ai dati recenti.
Un fatturato che è macchiato dal sangue delle condizioni disumane in cui versano i lavoratori ai quali di fatto viene negato ogni tipo di diritto.
Ma com’è possibile tutto questo?
La risposta sta nella dannosa pratica dei trasbordi in alto mare, che permettono ai pescherecci di rimanere per periodi lunghissimi lontano dalla terra ferma, trattenendo per molto tempo gli equipaggi a bordo, spesso in condizioni terribili.
Ben 76 pescherecci d’oltremare tailandesi, per evitare l’inasprimento dei controlli adottati nell’agosto del 2015 in Indonesia e Papua Nuova Guinea, hanno spostato le proprie attività di pesca nella zona dell’Oceano Indiano nota come Saya de Malha Bank. Un ecosistema marino estremamente fragile, lontano oltre 7mila chilometri da Samut Sakhon, centro dell’industria ittica tailandese.
Approfittando della possibilità di non dover tornare in porto, trasferendo pesce a grandi navi frigorifero, lontani da ogni controllo, le flotte d’oltremare tailandesi hanno continuato in tale area a portare avanti pratiche illegali molto simili a quelle che in precedenza avevano attirato l’attenzione delle autorità: la pesca distruttiva, o illegale, in fragili ecosistemi marini, l’impiego a bordo di lavoratori vittime di traffici, abusi fisici, spesso sottopagati e, in alcuni casi, talmente malnutriti da ammalarsi di patologie letali che si credevano scomparse da decenni.
Quanto pescato può finire nelle filiere delle più grandi compagnie tailandesi che producono prodotti ittici per i mercati internazionali? In particolare, potrebbe esserci un elevato rischio che il pesce pescato da tali flotte sia stato utilizzato per produrre surimi, utilizzato per il cibo per animali venduto poi nei supermercati di tutto il mondo, tra cui anche l’Italia.
Una procedura che mette in evidenza come si mettano in atto procedure volte ad eludere il monitoraggio, controllo, sorveglianza ed esecuzione delle pratiche in mare ma che, allo stesso tempo, sottolinea la necessità di una maggiore cooperazione regionale in materia che faccia terminare gli abusi nei confronti dei lavoratori e dell’ambiente.