Il mare, la pesca e le nostre colpe

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barca pesca mare
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Proponiamo l’editoriale del Direttore Ignazio Lippolis pubblicato sul nuovo numero del nostro Trimestrale dedicato alla pesca. Anche questa attività è legata alla febbre della produzione che sta condizionando il pianeta, l’economia mondiale e la vita di tutti noi.

Ma la colpa di alcuni disastri siamo sicuri che sia sempre di altri? Oltre agli articoli specifici sono interessanti anche alcune considerazioni fatte, fra gli altri, da Ugo Leone, Massimo Blonda, Giorgio Nebbia e Roberto Cazzolla Gatti, che fa una stimolante provocazione parlando di ecologi ed ecologisti.

Tutti da leggere, poi, gli articoli scritti da specialisti anzi, alcuni, anticipano studi o danno risultati ancora non diffusi.

Il mare, questa enorme massa d’acqua che ci meraviglia e ci intriga, una sorta di cielo in terra, sembra forte e potente come tutte le espressioni della natura quando si esprimono nella loro forza fisica.

Eppure noi siamo riusciti a rendere il mare insignificante e pericoloso, così come abbiamo fatto con l’aria che è la nostra fonte vitale.

È inutile tergiversare, ci comportiamo proprio come i parassiti. Attacchiamo una forza vitale per trarne nutrimento e quando l’abbiamo esaurita passiamo ad altro. Facciamo così sin dalla nostra apparizione sul pianeta Terra.

Molti arricceranno il naso, diranno che è il solito discorso catastrofista, che non siamo tutti uguali e che la vita è retta dalla tensione fra odio e amore, fra il positivo e il negativo, ecc. ecc. ma ciò che ha prodotto questa filosofia è sotto gli occhi di tutti. Nessun dubbio? Che dire allora dell’aria che respiriamo e dell’acqua che ci sostiene, se sono diventati un rischio per la nostra vita? proprio non credo che questa sia la strada giusta e naturale…

D’altra parte esiste in natura un essere che si comporti come noi umani?

In agricoltura siamo intervenuti con nutrienti e anticrittogamici per aumentare la produzione, poi ci hanno pensato il marketing, il business e la disinformazione ad orientare i gusti.

Per la pesca siamo intervenuti sulla tecnica e il potenziamento degli strumenti per aumentare il prelievo e cerchiamo con l’acquacoltura di sopperire alla nostra incapacità di aumentare la produzione…

Il risultato è lo stesso: campagne diventate sterili e un mare sempre meno produttivo e più inquinato.

È questo un risultato intelligente?

L’uomo va verso una sola direzione quella della crescita e non quella dello sviluppo. Verso la direzione egoistica e non verso quella solidale. La natura, per lui, è un canovaccio, una trama su cui scrivere la propria storia. È un ambiente da disarticolare per trarne il massimo vantaggio. E se un giorno non sarà più possibile cavare benefici dal mondo circostante, non importa. Tanto lui ha appreso tutti i segreti (quasi tutti!) e sarà in grado di replicare ogni cosa ci serva.

Accanto a quest’uomo, è vero, ne esistono altri. Ma non sono questi che determinano la direzione da prendere. Anzi, il nuovo è sempre più incarnato dalle forze parassitarie della natura. Ogni crisi serve per riposizionare l’occupazione dell’uomo sulla natura.

È una storia antica. Da Cartesio in poi, il dibattito è aperto anche se, a dettare legge, è proprio la teoria del filosofo francese, forte anche di una interpretazione antropocentrica del Vecchio Testamento che ha condizionato per secoli il Cristianesimo. Anche l’intuizione del Club di Roma, nel voler creare un distinguo fra crescita e sviluppo ha segnato, ed ancora segna, lo spartiacque delle azioni dell’uomo.

È affascinante vedere, ancora una volta, come i modelli umani si ripetono nei secoli con modifiche impercettibili e come l’ambiente, gli animali, si incrociano con la cultura dell’uomo determinando modelli di civiltà e condizionando i rapporti fra i popoli. La necessità, per motivi religiosi, degli olandesi di non mangiare carne, determinò nel XVII secolo un forte sviluppo della pesca essenzialmente basato sulle aringhe. Progredì, quindi, quella che Robert Delort chiama la civiltà dell’aringa.

Cosa è mutato oggi rispetto a ieri? Tutto si spiega nella logica dell’antropocentrismo. L’uomo ha creato gli squilibri e continua a gestirli. Un esempio può essere quello della caccia alle balene e alle foche.

Quella delle foche non è stata un’esistenza facile: negli anni 50 venivano uccisi a bastonate 500.000 cuccioli per venderne le pelli. Oggi gli esemplari uccisi sono un po’ di meno. Le stragi sono un po’ diminuite per effetto dei divieti di importazioni di pelli di cuccioli di foca vigenti negli Usa e grazie alla direttiva europea promossa da Carlo Ripa di Meana e adottata dai 12 paesi della Ue nel 1989. Ma nulla fu risolto perché il Canada (dopo l’esempio norvegese) riaprì la caccia che comunque era praticata, indisturbata, in Sud Africa, Namibia, Russia, Giappone e clandestinamente anche nel Mediterraneo.

A proposito della caccia alle foche, significativo è l’esempio del premier norvegese Gro Harlem Brundtland che disse: «Sono molto felice che si caccino le foche perché altrimenti rischierebbero di alterare l’ecosistema dell’oceano». Il primo ministro difese così la decisione di autorizzare la caccia a 20.000 foche nel Mare del Nord. Questa dichiarazione della Brundtland è stata fatta il 24 marzo ’93 a Roma dove si era recata per promuovere l’adesione del suo paese alla Ue.

«Il mare deve mantenere il suo equilibrio – sostiene la Brundtland – se smettessimo di cacciarle avremmo un’invasione di foche che mangiano tutto il pesce e danneggiano le reti dei pescatori». «La nostra linea di autorizzare una caccia regolamentata non viene sempre capita negli altri paesi – ha aggiunto il premier norvegese – ma è avallata dai più recenti studi scientifici. In fondo cosa hanno di diverso le foche dagli altri abitanti dell’oceano?».

La Brundtland è colei che ha dato il nome al Rapporto sullo sviluppo sostenibile e queste dichiarazioni hanno dato il via ad una polemica a distanza con un altro rappresentante doc dell’ambiente, Carlo Ripa di Meana. Nello stesso giorno, infatti, veniva fondata la sezione italiana dell’Ifaw (International found for animal welfare) alla quale Carlo e Marina Ripa di Meana annunciarono di voler partecipare attivamente.

A proposito del comportamento norvegese, Carlo Ripa di Meana disse che si tratta di «un esempio di tradizionale e pura eco-ipocrisia». «È deprimente – aggiunse – che chi è stato un teorico dello sviluppo sostenibile come la Brundtland, oggi ceda alla pressione delle lobby anti-ambientaliste». Quello della Norvegia, concluse il nuovo portavoce dei Verdi italiani, «è un caso da antologia dell’ipocrisia nordica impastata di opportunismo ambientalista. La Brundtland allora non pagava nessun prezzo per le sue teorie sullo sviluppo sostenibile, ma ora che è diventata primo ministro, per cercare appoggio e voti di pescatori e pellicciai, vende sottobanco i suoi principi».

Questa polemica dà la misura di quanto ardua sia ancora la strada da percorrere nella ricerca di un giusto equilibrio fra l’uomo e l’ambiente. Ancora una volta emerge la figura dell’uomo al centro della natura e il suo presunto potere di gestirla. È qui l’origine dei guasti. La percezione del rischio è completamente scomparsa.