Ancora lì quei relitti industriali

1480
presidio decommissioning
Tempo di lettura: 3 minuti

Il Piano di decommissioning di 34 impianti offshore (25 piattaforme, 8 teste di pozzo sottomarine, 1 cluster), 27 dei quali ubicati nella fascia di interdizione delle 12 miglia è chiuso da tempo nei cassetti del Mise. Greenpeace, Legambiente e Wwf rendono pubblico il Piano. Solo nella fascia offlimits delle 12 miglia 27 relitti industriali

«Nell’incapacità dei ministeri competenti di decidere ed essere conseguenti, dopo due anni di serrato confronto e conoscendo l’elaborato finale dal dicembre 2018, ci assumiamo la responsabilità di tirare fuori le carte di un piano di decommissioning di 34 impianti offshore (25 piattaforme, 8 teste di pozzo sottomarine, 1 cluster), 27 dei quali ubicati nella fascia di interdizione delle 12 miglia», così dichiarano Greenpeace, Legambiente e Wwf.

Le tre associazioni hanno distribuito questa mattina ai giornalisti, nel corso di una manifestazione sotto la sede del ministero dello Sviluppo Economico di via Molise a Roma, l’inedita «Dichiarazione congiunta sul Programma di attività per la dismissione delle piattaforme offshore», concordata nel dicembre 2018 tra ministero dello Sviluppo Economico, ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ministero dei Beni e delle Attività Culturali e (secondo il documento e il carteggio in possesso delle associazioni) da Assomineraria, ovvero l’associazione di categoria dei petrolieri.

Le associazioni hanno ripetutamente chiesto inutilmente in questi mesi di rendere pubblico il piano in questione, anche in considerazione dell’approssimarsi della scadenza del 30 giugno, quando il ministero dello Sviluppo Economico dovrà procedere con la dichiarazione di dismissione mineraria prevista dal Decreto Ministeriale del 15 febbraio 2019.

«Bisogna che il ministero dello Sviluppo Economico sia coerente con gli impegni presi ed entro fine mese decida di avviare subito la procedura di dismissione dei primi 22 impianti e, al massimo nei prossimi due anni, degli altri 12 individuati. Ovvero quegli impianti mai entrati in produzione, non produttivi da almeno 10 anni o che non erogano gas o petrolio da almeno un quinquennio: dunque dei veri e propri relitti industriali, pericolosi per la navigazione e per l’ambiente. Di questi, 29 sono localizzati nel tratto di mare tra Veneto e Abruzzo, 2 davanti alla Puglia, 1 davanti a Crotone e 2 nel Canale di Sicilia. Dei 34 impianti, 25 sono dell’Eni (73,4%) e 9 di Edison (26,6)», dichiarano le associazioni ambientaliste.

Le associazioni ricordano anche che il 50% dei 34 impianti individuati dopo due anni di trattativa non hanno mai avuto una procedura di Valutazione di impatto ambientale, perché autorizzati prima del 1986, anno in cui la Via entrò in vigore in Italia. Tra questi impianti, 4 piattaforme hanno 50 anni o più (Porto Corsini MWA, San Giorgio a Mare 3, Santo Stefano a Mare 1.9, Santo Stefano a Mare 3.7), 4 più di 40 (Armida 1, Diana, San Giorgio a Mare C, Santo Stefano Mare 4), tutte localizzate nel tratto di mare tra Veneto e Abruzzo, e ben 13 (il 38,2%) tra i 30 e 40 anni.

Gli ambientalisti aggiungono che dei 34 impianti, 27 (pari al 79,4%) sono localizzati nella fascia di interdizione a nuove attività offshore delle 12 miglia, istituita nel 2013 a tutela delle nostre acque territoriali e degli ambienti costieri. Greenpeace, Legambiente e Wwf ricordano, più in generale, che sono 138 gli impianti offshore localizzati nei nostri mari, 94 dei quali nella fascia delle 12 miglia e che di questi, ben il 44,6% non sono mai stati sottoposti a Via.

«Abbiamo condotto una serrata trattativa al ministero dello Sviluppo Economico che ha coinvolto sul piano tecnico sia l’Ufficio Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse (Unmig) sia la Direzione competente, oltre che la Segreteria tecnica del ministro dell’Ambiente, selezionando gli impianti da dismettere secondo 3 criteri: piattaforme costruite ma mai entrate in produzione; piattaforme o teste di pozzo produttive ma non eroganti da almeno 5 anni; piattaforme o teste di pozzo che negli ultimi 10 anni abbiano estratto quantità di idrocarburi liquidi o gassosi esigue, al di sotto della soglia di “franchigia”, ovvero con produzione annua al di sotto degli 80 milioni di metri cubi di idrocarburi gassosi e delle 50mila tonnellate di petrolio».

Greenpeace, Legambiente e Wwf chiedono che a questo primo atto seguano altri programmi di dismissione. Per le associazioni, l’Italia deve, inoltre, presto dotarsi di un Piano nazionale energia e clima che permetta di emancipare il Paese dai combustibili fossili e di intraprendere con decisione la strada della decarbonizzazione, procedendo, secondo quanto stabilito nella Strategia Energetica Nazionale (Sen), con la chiusura entro il 2025 delle centrali a carbone e con un rinnovato sostegno a fonti rinnovabili, efficienza e risparmio energetici.

 

(Fonte Wwf)