Coltivare nel Sahara è possibile, l’esempio dei Tuareg

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Un nuovo studio condotto dalla «Missione Archeologica nel Sahara» della Sapienza, in collaborazione con il Department of Antiquities di Tripoli e le università Milano e Modena-Reggio Emilia, ha permesso di scoprire l’esistenza di tecniche di coltivazione realizzate dai Tuareg nelle aree montane del deserto del Sahara

Il clima arido del Sahara impedisce oggi ogni forma di agricoltura permanente, ma le ricerche condotte dalla «Missione Archeologica nel Sahara» diretta da Savino di Lernia del Dipartimento di Scienze dell’Antichità della Sapienza, in collaborazione con il «Department of Antiquities» di Tripoli e le università di Milano e Modena-Reggio, raccontano una storia diversa.

struttura Tuareg
Una struttura Tuareg

L’agricoltura dei Tuareg

Le attività di coltivazione normalmente praticate nelle oasi sahariane, erano del tutto sconosciute in ambienti montani. Evidenze e testimonianze mostrano però come in occasione di piogge particolarmente abbondanti e durature, alcune aree del massiccio montuoso del Tadrart Acacus, in Libia sudoccidentale, venivano completamente inondate e le popolazioni Tuareg dei Kel Tadrart sfruttavano le acque raccolte in piccoli bacini, le «etaghas» (pozzanghere, nella lingua locale): qui la conformazione del territorio mantiene le polle di acqua per un periodo sufficiente alla coltivazione di grano, orzo, sorgo e altre piante.

La ricostruzione etnoarcheologica ed etnografica dei Tuareg Kel Tadrart ha permesso di tracciare l’uso agricolo di queste aree a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, evidenziando le modalità e i tratti caratteristici. Le indagini archeologiche, geoarcheologiche e archeobotaniche hanno inoltre permesso di comprendere come queste pratiche agricole fossero in realtà ben più antiche e probabilmente risalgono già al Neolitico Tardo, circa 5500 anni fa. A questo sembrano infatti ricondurre le analisi al radiocarbonio di ritrovamenti sul luogo, nonché aspetti della cultura materiale e raffigurazioni di piante coltivate nelle pitture rupestri, che consentono di scattare un’istantanea dell’inizio dell’agricoltura nel Sahara.

itkeri arte neoliticaDove coltivavano

Il deserto del Sahara ha assunto le forme attuali proprio dalla fine del Neolitico: i cambiamenti climatici e ambientali costrinsero i gruppi umani della preistoria ad adottare nuove strategie e modificare le loro abitudini, utilizzando queste aree allagate periodicamente come appezzamenti agricoli. Lo studio multidisciplinare della «Missione Archeologica nel Sahara» ha permesso di identificare un cambiamento radicale nelle modalità di sfruttamento di queste risorse idriche imprevedibili: nella tarda preistoria, con un clima umido su base stagionale, le coltivazioni agricole dovevano svolgersi sui margini di aree paludose via via che l’acqua si ritraeva (una pratica conosciuta con il nome di flood-recession agriculture), mentre nelle fasi storiche contemporanee l’agricoltura è svolta unicamente in presenza di pioggia (rain-fed agriculture). Questa attestazione, già nota e accreditata nella zona del Sahel, sembra essere l’unica del Sahara centrale.

veduta itkeriI cambiamenti climatici

Nello scenario attuale, caratterizzato da cambiamenti climatici e riscaldamento globale, la scoperta di antichissime tradizioni di coltivazione in ambienti aridi e in progressiva desertificazione, oltre a rappresentare un utile strumento per ricostruire la preistoria e la storia antica del Sahara, ha anche implicazioni importanti sulle forme di sviluppo sostenibile da praticare in ambienti marginali o desertici.

La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista «Antiquity», è stata finanziata dai «Grandi Scavi di Ateneo» della Sapienza Università di Roma, e dal Ministero degli esteri e della Cooperazione Internazionale (DGSP – VI).

Riferimenti

Land-use and cultivation in the etaghas of the Tadrart Acacus (south-west Libya): the dawn of Saharan agriculture? – Savino di Lernia, Isabella Massamba N’Siala, Anna Maria Mercuri & Andrea Zerboni – Antiquity (2020) DOI http://dx.doi.org/10.15184/aqy.2020.41.

 

(Fonte Sapienza, Università di Roma)