La peste suina avanza, Italia ferma, Puglia immobile

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cinghiale caccia
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In questa Regione governata da Michele Emiliano sembra che nessuno si ponga il problema (e non si ha notizia del Piano di contenimento del cinghiale finanziato tre anni fa). Una legge nazionale giace dal 12 ottobre ma con un equivoco coinvolgimento dei cacciatori. Una malattia con un impatto devastante su alcuni prodotti d’eccellenza che rappresentano l’Italia nel mondo

Questo articolo sarebbe dovuto uscire quasi un anno fa. Per diverse ragioni non è stato così e forse, come si dice, dal male può nascere un bene. Nel senso che tra novembre e dicembre dello scorso anno nessuno di noi aveva idea di quel che sarebbe accaduto dopo circa un mese con il Sars-CoV-2, mentre, invece, notizie continuavano a giungere dall’est Europa sulla diffusione di un’epidemia molto severa che non aggredisce l’uomo ma alcune sue attività economiche come gli allevamenti suinicoli: la peste suina africana (Psa).

In quel periodo raccoglievo ulteriori informazioni sulla cosiddetta «piaga cinghiali» in Italia ed in Europa. E così in rete ne trovai numerose sulla diffusione dell’epidemia riscontrata nei cinghiali in Polonia. Chiesi ad alcuni amici veterinari e mi confermarono che la peste suina africana era diventata un vero flagello già in Cina determinando il crollo della produzione di suini in quel Paese e scatenando un export incredibile dai Paesi europei verso l’oriente. Ora la peste suina africana è arrivata in Germania e fa davvero paura. Le autorità sanitarie italiane confermano che l’Italia (tranne la Sardegna per altro ceppo virale) è indenne dal virus di cui non ci sono evidenze scientifiche che contagi l’uomo, ed hanno posto in essere azioni di sorveglianza attiva piuttosto stringenti. Ma sui cinghiali la questione è complicata.

Nello scorso luglio il ministero della Salute ha diramato un Manuale delle emergenze da Peste Suina Africana in popolazioni di suini selvatici. Nel manuale si dice, tra l’altro, che «per migliorare la sensibilità del sistema di sorveglianza, il ministero della Salute ha disposto che ogni cinghiale deceduto indipendentemente dalla causa di morte (ad eccezione dell’attività venatoria) sia sottoposto a idoneo campionamento per consentire l’esecuzione della diagnosi di laboratorio della Psa» e che «Efsa (l’Autorità europea per la Salute degli Alimenti, N.d.R.) ha stimato che un sistema di sorveglianza passiva efficiente ed efficace dovrebbe essere in grado, in assenza di malattia, di segnalare, campionare e testare un numero di carcasse (cinghiali morti per cause non venatorie) pari circa all’1% della popolazione di cinghiale stimata ogni anno; in Italia, quindi, si dovrebbero testare almeno 5.000 cinghiali all’anno per una popolazione circa di 500.000 animali in periodo pre-riproduttivo».

Ancora, nel manuale si afferma che «si calcola che, con le densità medie del cinghiale in Italia, ogni mese di ritardo nell’individuazione della presenza del virus possa corrispondere ad una diffusione della malattia di circa 50-80 km2 (5.000-8.000 ettari, N.d.R.), inoltre l’area interessata potrebbe essere ancora più vasta nel caso la popolazione fosse sottoposta a pressione venatoria (vedi situazione Polonia). La pratica della braccata in una zona infetta, ma non ancora individuata come tale, può determinare una diffusione spaziale del virus di difficile gestione».

La collaborazione con il mondo venatorio, quindi, dovrebbe essere uno dei veicoli principali per monitorare l’eventuale presenza del virus che «sopravvive nella carne e nei visceri per 105 giorni, nella carne salata per 182 giorni, carne/grasso e pelle essiccata per 300 giorni e nella carne congelata per anni. Essendo resistente all’autolisi il virus rimane infettante anche nelle carcasse per diverse settimane in dipendenza delle temperature ambientali».

Eppure, da informazioni assunte, le carcasse di cinghiali abbattuti dai cacciatori, almeno in Puglia, non vengono sottoposte neanche alle obbligatorie verifiche di presenza di trichinella. Per cui si può ipotizzare che, con una velocità annua dell’onda epidemica di 20-40 chilometri/anno e con i capi di cinghiali cacciati di frodo con eviscerazione sul posto, la peste suina africana possa risultare, qualora entri in Italia, una sorta di tsunami quantomeno per gli allevamenti suinicoli. Basta immaginare che cosa possa accadere in quelli della Pianura Padana per i prosciutti di Parma oppure in Friuli per il San Daniele e, in Puglia, per il prosciutto ed i salumi di Faeto e di Martina Franca. Ma nella Regione governata da Michele Emiliano sembra che nessuno si ponga il problema (e non si ha notizia del Piano di contenimento del cinghiale finanziato tre anni fa) mentre le associazioni di categoria degli agricoltori continuano chiedere interventi di riduzione delle popolazioni di cinghiali solo per i danni subiti dalle colture. Da parte dei cacciatori non v’è alcuna traccia collaborativa.

Intanto si continuano giustamente a portare avanti le campagne di cattura e traslocazione di cinghiali vivi da parte di enti gestori di aree protette. Ma anche queste azioni dovrebbero essere accompagnate dalle necessarie verifiche di eventuale presenza del virus Psa. Il ministro per le Politiche agricole, Teresa Bellanova, per parte sua, ha messo mano alla «fondina» ed ha predisposto uno schema di decreto-legge «Misure urgenti di prevenzione della diffusione della peste suina africana», in qualche modo scavalcando il ministero della Salute. Probabilmente sollecitata da associazioni di produttori di salumi del nord, ha scritto il testo e lo ha inviato al Presidente del Consiglio, Conte, per iscriverlo all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri. Senonché, il testo è circolato ed alcune associazioni protezionistiche hanno scoperto che tra le disposizioni c’è anche quella che, in sostanza, «consente anche alle squadre dei cacciatori di sostituire il personale pubblico di vigilanza (in primis gli agenti di polizia provinciale) in non meglio precisati piani di controllo del cinghiale per il contrasto della peste suina».

Il testo è fermo sulla scrivania di Conte dal 12 ottobre. La peste suina africana, quindi, potrebbe costituire, se non prevenuta, la malattia regolatrice delle popolazioni italiane di cinghiali determinando però un impatto devastante su alcuni prodotti d’eccellenza che rappresentano l’Italia nel mondo.

 

Fabio Modesti