Si fa presto a dire mobilità…

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La pandemia, che prima o poi ci lascerà, sta creando una valanga di problematiche. Per il segmento di lunga percorrenza a mercato, una diminuzione della domanda, anche piccola, è in grado di cancellare in breve tempo non solo molte aziende (il che potrebbe essere anche considerato fisiologico), ma soprattutto le condizioni di concorrenza e di estensione della rete a cui stiamo stati abituati nell’ultimo decennio

Storicamente, il trasporto locale è stato impostato per supportare le «punte» di traffico, che sono quelle del mattino, quando tutti hanno bisogno di andare al lavoro o a scuola. Ma un discorso generale sul trasporto che tenga assieme, per esempio, Pavia e Roma non è facile. Nella prima, in bicicletta si arriva più o meno ovunque in 15 minuti e il problema è eventualmente quello di arrivare in città dai paesi vicini. A Roma (e in generale nelle grandi città), anche il trasporto dentro la città è intensissimo e rappresenta una sfida non indifferente.
Ovunque, il problema è dotarsi di una capacità di trasporto che permetta di soddisfare le punte, evitando però di avere una capacità enorme che per 22 ore su 24 sarebbe quasi inutile.
La risposta del trasporto pubblico locale (Tpl) alla pandemia dipendeva dalle aspettative sulle tempistiche dell’emergenza. Se la pandemia fosse stata breve, la risposta sensata sarebbe stata quella di aspettare che la tempesta passasse. Se si fosse capito da subito che la pandemia sarebbe rimasta con noi per un quinquennio o più, si sarebbe dovuto investire rapidamente tutto il denaro disponibile per nuovi mezzi e nuovo personale che li conducesse.
Il primo problema di questo secondo approccio, è che, se anche si fossero fatti questi investimenti (acquisto di nuovi bus, tram, etc.), si sarebbe dovuto comunque attendere oltre un anno per avere i nuovi mezzi, che vengono costruiti a domanda.
Probabilmente solo oggi si vedrebbero (forse) i primi risultati di questi investimenti, e anche questo solo se la richiesta complessiva del sistema avesse potuto essere soddisfatta dalla capacità produttiva dell’industria automotive, anche questa non certo tarata su improvvisi picchi di domanda.

Trasporto pubblico e pandemia

Il secondo problema è che a febbraio 2020 nessuno aveva idea di quanto sarebbe durata la pandemia. Se la pandemia si esaurirà nel 2022, come qualcuno ipotizza, allora occorrerà stringere i denti questo inverno, per poi aspettare che le cose tornino più o meno alla normalità.
In questo caso, se ci fossero stati tutti gli investimenti necessari, i loro benefici sarebbero arrivati probabilmente tardi e ci troveremmo delle imprese di Tpl sovradimensionate, con costi elevatissimi e necessità finanziarie impegnative per tutta la vita utile dei nuovi mezzi (venti anni circa).
È vero che il nostro parco mezzi deve essere comunque svecchiato, ma il costo extra di un’operazione di questo tipo sarebbe stato comunque ingente. Certo, se la pandemia restasse nelle nostre vite per dieci anni il discorso sarebbe diverso, ma chi se la sente di scommettere miliardi su questa possibilità?
Il risultato di questa incertezza è stato che i grandi investimenti in ampliamenti della capacità di trasporto non ci sono stati, e forse è stato un bene così. Si investa nel Tpl, ma sapendo che saranno in esercizio tra oltre cinque anni, e quindi in un’ottica «post-pandemica».
Trasporto locale e a lunga percorrenza devono affrontare sfide diverse nel dopo-lockdown. Per il primo, fortemente sussidiato, il problema è soprattutto organizzativo. Nel lungo raggio si prefigura l’uscita dal mercato di molte aziende.

La «fase 2» dell’epidemia di Covid-19 ha riacceso i riflettori sui trasporti, in particolare su quelli locali chiamati a sostenere la ripresa delle attività (in effetti mai davvero sospese) garantendo regole di distanziamento prima impensabili.
Regole simili, anzi più restrittive, sono richieste anche al trasporto a lunga percorrenza, che dovrà fronteggiare pure un secondo problema, altrettanto grave: la mancanza di ricavi.
È opportuno chiarire le differenze tra i due settori, mostrando che il problema del trasporto pubblico locale è essenzialmente organizzativo, mentre nella lunga percorrenza, quasi interamente a mercato, è in gioco semplicemente la sopravvivenza di molte aziende.
Durante il lockdown le aziende di trasporto pubblico locale (Tpl) e i treni regionali hanno continuato a operare, con frequenze ridotte e una frazione dei passeggeri usuali. Conseguenze: ricavi azzerati e costi quasi immutati. Tutto il trasporto pubblico locale, però, è basato su una duplice fonte di ricavi: biglietti e contributi. Il rapporto tra i due è variabile tra azienda e azienda, sebbene per tutti dovrebbe essere almeno pari al 35 per cento di ricavi e al 65 per cento di contributo dagli enti locali, spesso su fondi nazionali.
Se durante l’epidemia i costi sono scesi, poniamo, del 10 per cento, i ricavi si sono quasi azzerati, creando una situazione di buco non indifferente. Uno schema simile continuerà anche nella «fase 2», ma con costi più alti e qualche ricavo in più. Si tratta di molti soldi, ma, almeno, alle aziende sono già stati garantiti con il decreto Rilancio 500 milioni di euro a compensazione dei danni e come anticipo dei contributi. Il problema delle aziende Tpl nella «fase 2» è dunque essenzialmente organizzativo (garantire il distanziamento) e normativo (non finire nei guai perché non si è garantito il distanziamento).
Cosa accadrà successivamente, quando cioè non vi sarà più necessità di distanziamento e la capacità tornerà a regime? Chiaramente non è facile prevederlo, ma è probabile che si cronicizzi un calo della domanda per effetto di residua paura e soprattutto della crisi economica, e pure per un maggior utilizzo dello smart working e, forse, anche di cambiamenti di residenza delle persone. L’ordine di grandezza potrebbe essere di un calo strutturale del 10-20 per cento.
Potrebbe sembrare un problema, ma è probabile che non sia così. Molte aziende Tpl, quelle delle città più piccole, trasportano quasi esclusivamente categorie deboli: anziani, minorenni e la frazione di popolazione più povera o svantaggiata che non dispone di un’auto. Queste categorie non cambieranno molto la loro mobilità: continueranno a prendere l’autobus. Le aziende perderanno una frazione piccola di quella parte già piccola (dovrebbe essere il 35 per cento, ma spesso è meno) coperta dai biglietti. Nelle città più grandi il calo potrebbe essere quello prospettato, ma stiamo comunque parlando di non più di un -5 o -10 per cento di ricavi. Molti milioni, che qualcuno certamente dovrà coprire, ma che non sconvolgono gli equilibri.
C’è però un altro fattore: spesso, nelle grandi città, il sistema Tpl era già sotto pressione prima della crisi per eccesso di domanda. Un calo dei passeggeri e una loro redistribuzione nella giornata, se qualcuno garantisce i ricavi mancanti, potrebbe essere un beneficio per alcune realtà, che potranno ridurre straordinari, manutenzioni di emergenza, rotture dei mezzi per sovra-utilizzo, manutenzioni durante l’esercizio e via dicendo.

Molte aziende scompariranno

La lunga percorrenza, cioè aerei, autobus e buona parte dei treni nazionali, si preparano invece (in un discreto silenzio delle istituzioni) a una tempesta perfetta. Non stiamo parlando di perdite. Stiamo parlando di scomparsa delle aziende e soprattutto della rete per effetto del solo periodo transitorio della «fase 2», di cui nessuno sembra essersi occupato.
Cosa dobbiamo aspettarci quindi? Molte aziende scompariranno (aerolinee e autolinee, ma anche il business alta velocità sarà a rischio) e quelle superstiti avranno costi maggiori. La scomparsa non dipenderà dalla loro efficienza, ma da quanto verranno protette o garantite. La concorrenza si ridurrà, ma i prezzi non potranno crescere all’infinito.
L’unica cosa che possono fare le aziende superstiti sarà tagliare la rete, concentrandosi su poche rotte certamente remunerative alle nuove condizioni. Cioè esattamente quello che erano i mercati negli anni Novanta.

In conclusione, il problema delle aziende Tpl è enorme, ma di tipo organizzativo. Un calo strutturale della domanda nelle città potrebbe essere un problema per le municipalità (se tanti passano all’auto), per le amministrazioni e lo stato centrale (che saranno chiamati ad aumentare i contributi o i biglietti), ma non per le aziende.
Per il segmento di lunga percorrenza a mercato, invece, una diminuzione della domanda, anche piccola, è in grado di cancellare in breve tempo non solo molte aziende (il che potrebbe essere anche considerato fisiologico), ma soprattutto le condizioni di concorrenza e di estensione della rete a cui stiamo stati abituati nell’ultimo decennio. Quindi non si tratta di chiedere aiuti per superare la «fase 2», ma di immaginare un assetto stabile (e non è affatto probabile che vi sia) nella «fase 3» di cronicizzazione. Quel che è certo è che potremo viaggiare molto, molto meno.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia