Salvare la natura è salvare noi stessi

3086
Ispra carta natura
Tempo di lettura: 3 minuti

֎È inesistente la nostra capacità di adeguarci ai ritmi naturali, mentre all’estero si fa tesoro dell’esperienza noi non ci riusciamo neanche di fronte a disastri enormi֎

«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Così parlò Toro Seduto, capo dei Sioux Hunkpapa, nativi americani che consideravano la natura «Teofania», manifestazione cioè della Divinità in forma sensibile, espressa cioè attraverso le Sue opere.

Il grande ecologo E. Odum più di recente ha scritto dell’ossessione delle moderne società umane riguardo al mito della «crescita» (quante volte abbiamo sentito questo «ritornello» in TV o sui giornali…), per la quale ad ogni livello (individuale, familiare, societario e nazionale) lo scopo fondamentale è avere sempre di più, diventare sempre più ricchi, sempre più grandi e potenti, tutto questo spesso senza alcuna considerazione per i valori umani di base e il costo finale del consumo illimitato e sfrenato delle risorse di questo Pianeta: artatamente ignorando, il più delle volte, lo stress che subiscono beni e servizi ambientali che ci mantengono in vita.

Con mente illuminata, Odum ha anche preconizzato che con molta probabilità i problemi ambientali della seconda metà del secolo scorso si dovessero intensificare, prima che la terapia per il pianeta «malato» (il nostro, purtroppo…) potesse essere considerata una questione urgente, oltre che doverosa. Ma l’uomo moderno è fatto così, occorre spesso una grave crisi o terrificante disastro per ottenere un buon piano previsionale per l’ambiente e passare finalmente all’azione.

Proprio in America e nel 1972, in quel di Rapid City nel South Dakota, il nostro ecologo ricorda che vi è stata un’improvvisa inondazione del vicino fiume Rapid Creek che ha causato 160 milioni di dollari di danni alle proprietà, distrutto 1.200 edifici e ucciso 238 persone. Durante il mandato del sindaco Don Barrett, la comunità ha coraggiosamente acquisito la zona inondata con un «programma prototipo nazionale», ne ha rimosso le costruzioni danneggiate e ha creato una zona verde urbana lunga sei miglia e larga un quarto di miglio nel centro della città. La zona verde ora contiene parchi, musei, zone di ricreazione e campi sportivi. Il fiume è stato rinaturalizzato e reso vivibile per pesci e foriero di biodiversità, adatto anche alla pesca sportiva.

Rapid City è stato dunque un luogo creativo ed ecologico di gestione illuminata, che ha trasformato un disastro di grandi dimensioni in un bene comunitario di cui gode non solo il South Dakota, ma anche l’intero Paese, vuoi sotto l’aspetto ecologico sia culturale, sanitario e turistico. Così, già dalla seconda metà del secolo scorso, una comunità coraggiosa, oltre che colta e responsabile, ha adottato soluzioni basate sulla natura, utilizzando cioè il potere della natura per mitigare l’impatto climatico di cui siamo tutti responsabili.

Per tornare a tempi più recenti, e nel nostro Paese, abbiamo forse preso simili iniziative per l’Emilia Romagna e la Toscana? Dovunque ci rechiamo è ormai scientificamente acquisito che il mondo naturale è alla base della civiltà umana, dai mari alle foreste, dai fiumi alle praterie, gli ecosistemi ogni giorno nutrono miliardi di esseri umani, «ingrati» perché non spendono neanche un cent per tutto questo immenso regalo: aria e acqua pulite, cibo, materiali e medicine, oltre al naturale smaltimento dei rifiuti. Con tutta la nostra scienza e tecnologia non sapremmo certo far di meglio, quindi è proprio la natura la chiave per proteggere questa umanità improvvidente in un pianeta che si surriscalda: come a Rapid City, è fondamentale sfruttare tutta la sua ricchezza, perché ecosistemi pregni di piante, animali e una pletora di organismi piccoli e grandi sostengono molta più vita di quelli degradati e semplificati che l’essere umano spesso e volentieri lascia dietro di sé.

A chi amministra dico che con risorse contenute si possono piantar alberi in città anche per proteggere gli edifici dal calore, ripristinare le zone umide per creare «città spugna» che proteggano le persone dalle inondazioni, e nelle zone costiere rispristinare dune e piantar mangrovie per fermare erosione e proteggere dalle mareggiate.

In Portogallo hanno finalmente deciso di sostituire infiammabilissimi eucalipti (non autoctoni) con specie arbustive ed arboree autoctone a combustione lenta, specie nei pressi di città e villaggi, proteggendo così le persone da possibili incendi devastanti. Si possono piantare siepi e alberi per arginare il pervasivo diffondersi dell’inquinamento luminoso che sta falcidiando (e continua indisturbato a farlo…) preziosa entomofauna a volo crepuscolare e notturno. Scienziati di tutto il mondo sostengono che quanto precede rappresenta un insieme di soluzioni che costituiscono un’opzione economica ma ancora sottoutilizzata per proteggere territorio e popolazioni: cruciali, perché si avvalgono di tutta la ricchezza della natura, una natura che, unitamente al diminuire delle emissioni, può svolgere un ruolo significativo nella mitigazione e nell’adattamento alla crisi climatica in atto.

Per tornare ai nativi americani per i quali prima che arrivassero gli europei «ogni collina, ogni pianura e ogni boschetto rispondeva con amore ai loro passi», chiuderò con un bel ricordo di «Capo Falco che Vola», il quale esprime tutta la gratitudine del suo popolo verso la ricchezza e la generosità della natura: «Gli indiani… sanno meglio come vivere… Nessuno può essere in buona salute se non ha sempre aria fresca, luce del sole e acqua buona».

 

Valentino Valentini