Energia ausiliaria e uso della produttività in ambiente terrestre

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Alcuni ecosistemi si presentano particolarmente produttivi poiché, oltre alla disponibilità di energia radiante, di acqua e nutrienti (azoto, fosforo), usufruiscono di apporti ausiliari di energia. L’energia fondamentale che i vegetali trasformano in energia chimica, attraverso la fotosintesi, è quella del sole. Gli apporti ausiliari di energia si configurano in meccanismi ambientali che consentono di ridurre i costi di mantenimento a favore della crescita dei vegetali. Per esempio, una corrente marina che renda disponibili maggiori quantità di azoto e fosforo per le alghe che potranno assorbirli con minore spesa energetica, determinerà un incremento di produttività primaria netta.

L’intervento dell’uomo nei sistemi agricoli, dall’irrigazione alla concimazione, dal controllo dei parassiti alla selezione genetica, si configura come energia ausiliaria che riduce i costi di mantenimento delle colture a favore di una maggiore produttività. Così il frumento o il mais spendono molto meno per assorbire acqua e nutrienti o per difendersi dai parassiti e quello che non viene speso per queste «faccende», risolte dall’uomo con investimenti energetici (ed economici), può essere accumulato nei tessuti eduli.
Attraverso la selezione genetica è stato favorito in molte colture il «rapporto di resa» ossia il rapporto tra la parte commestibile e quella non commestibile. Però piante con un elevato rapporto di resa dispongono di minore strutture e fibre per la propria autoprotezione, per cui deve intervenire l’uomo con energie ausiliarie che forniscano protezione da parassiti e insetti nocivi.

Stando alle stime riportate da Whittaker (1975), le terre coltivate, che coprono una superficie di circa 14 milioni di kilometri quadrati, producono annualmente circa 9 miliardi di tonnellate annue di sostanza organica. Questa cifra corrisponde a circa l’8% della produttività primaria netta delle terre emerse. Ovviamente, non tutta questa produttività corrisponde a prodotti alimentari per il consumo umano. Il raccolto destinato al consumo animale (mucche, cavalli, maiali, pecore, polli) supera di 5 volte quello destinato al consumo umano (Odum, 2001). Inoltre, molti terreni coltivati sono destinati alla produzione di fibre, di legno e, negli ultimi tempi, di biomasse vegetali per ottenere combustibili. Infine, esiste una notevole quantità di scarti dai raccolti (radici, foglie, cortecce, rami etc.) rispetto alle parti commestibili. Anche questi scarti, comunque, potrebbero essere utilizzati in differenti modi, dalla concimazione dei terreni alla produzione di energia.
Vitousek e collaboratori in un famoso articolo del 1986 (Human appropriation of the products of photosynthesis) indicava che l’uomo utilizza ogni anno per sé e per gli animali domestici soltanto il 3% della produttività terrestre come fonte di cibo ma se ne appropria di circa il 40% per altri scopi, tra cui la produzione di beni non commestibili, risorse di vario tipo estratte dalle foreste, tagli e incendi boschivi, pastorizia, rimozione di territorio naturale per attività umane (strade e infrastrutture), erosione dei suoli e conseguente desertificazione.

La produzione di cibo dall’agricoltura è aumentata enormemente nel secolo scorso grazie alla meccanizzazione, irrigazione, impiego di fertilizzanti e pesticidi. Ma questo è avvenuto soprattutto nei paesi industrializzati che dispongono di risorse economiche (energia ausiliaria) per muovere macchine, trattori e pompe


nonché per produrre fertilizzanti e pesticidi. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati è sostenuta da una fonte energetica gratuita e pressoché inesauribile, quella radiante, e da una a costi sempre più elevati perché in esaurimento, quella del petrolio. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati ha aumentato la produzione di cibo destinato al consumo umano, ma anche determinato profonde alterazione dell’habitat. Basti pensare al disboscamento o all’inquinamento delle acque prodotto dall’uso di fertilizzanti e pesticidi. Pertanto, per una corretta valutazione del reale beneficio sociale derivante da questo tipo di agricoltura bisognerebbe aggiungere ai costi energetici ausiliari quelli del degrado ambientale.

Considerando che per raddoppiare il rendimento dei raccolti bisognerebbe decuplicare gli input di energia ausiliaria (Odum, 2001), si capisce perché la produzione di cibo nei paesi in via di sviluppo è ancora molto bassa rispetto alle esigenze della popolazione. Nella parte povera del pianeta, l’incremento nella produzione di cibo è determinato soprattutto dall’aumento di terra coltivata piuttosto che dall’aumento dei rendimenti delle colture.
Purtroppo, l’aumento di terra da coltivare viene realizzato con il taglio della foresta tropicale ottenendo risultati tragici su differenti fronti.
Infatti, i suoli dei tropici sono poveri di nutrienti poiché il loro ciclo si realizza soprattutto all’interno della biomassa vivente degli alberi con il supporto di organismi simbionti, come funghi delle micorrize, alghe e licheni. Una volta tagliata la foresta l’humus esposto all’intensa radiazione solare e alle elevate temperature dei tropici si esaurisce in breve tempo e così i pochi nutrienti presenti in questi suoli vengono in breve tempo dilavati dalle piogge torrenziali. A causa del regime climatico il suolo subisce una profonda erosione per cui l’agricoltura, così come realizzata nei paesi industrializzati, risulterebbe fallimentare per gli ingenti investimenti economici necessari per rigenerare idonee condizioni per le colture. A tutto questo si deve aggiungere la perdita della biodiversità della foresta tropicale nonché del ruolo che questa ha nel riciclo dell’anidride carbonica a livello planetario.

Come prima detto, una grossa frazione della produttività primaria è utilizzata anche per altri scopi. Tra questi vi è la produzione di combustibili. Anche se questo uso della produttività terrestre costituisce un tema di grande attualità a causa dell’esaurimento del petrolio, di fatto si tratta di un uso vecchio quanto l’umanità.
Senza considerare il petrolio, che in realtà si tratta di produttività primaria trasformata, sotto la superficie terrestre, nel corso di ere geologiche, il legno costituisce per oltre la metà della popolazione mondiale il combustibile principale. In alcuni paesi più poveri è usato dal 99% della popolazione come unico combustibile. Viene usato per cucinare, riscaldare e illuminare nonché per l’industria leggera spesso ad una velocità superiore a quella necessaria per ricrescere (Odum e Barrett, 2007). Da un po’ di tempo anche nei paesi industrializzati si sta pensando di utilizzare le biomasse provenienti sia dalle foreste sia dall’agricoltura per far fronte alla crisi energetica dovuta alle ridotte disponibilità di petrolio.

Alcune delle opzioni possibili richiederanno ulteriore terra per la coltivazione di piante da cui estrarre combustibili (come biodiesel dall’olio di


colza) o su cui far crescere alberi a rapida crescita e da tagliare in breve tempo («foreste combustibili»), determinando competizione tra produzione di cibo e di combustibili in terreni arabili ed aggravando la situazione alimentare nei paesi in via di sviluppo. Rispetto alle azioni da intraprendere, è di fondamentale importanza tener presente che foreste, boschi, praterie, zone umide e altri ecosistemi naturali sostengono la vita sul pianeta attraverso la produzione di beni e servizi per tutti i viventi e, quindi, per il funzionamento della biosfera. Bisognerà acquisire la saggezza di non erodere ulteriormente questo capitale naturale.