In tempi di globalizzazione

524
Tempo di lettura: 2 minuti

( Dipartimento Difesa della Natura, Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici )

In tempi di globalizzazione, spesso sinonimo di banalizzazione (che ovviamente comprende il paesaggio) e di manipolazione genetica dei viventi, si sta procedendo in modo saggio ad incentivare l’impiego di piante autoctone. Ciò serve precisamente a conservare l’identità paesistica dei luoghi difendendo la biodiversità. Ma serve anche per tenere a distanza il pericolo di invadenza che può celarsi in piante che arrivano in punta di piede, timide e impacciate per un uso ornamentale, e poi diventano temibili specie invasive che, sostituendosi alla flora locale, sconvolgono la componente verde di un territorio. Non mi dilungo sull’onnipresente ailanto (caducifolia) nella fascia più calda del paesaggio mediterraneo (sempreverde) perché l’effetto negativo è ormai noto a tutti.
Benvenuto perciò il lavoro che si sta portando avanti in Toscana (Arsia, Cnr, Università di Pisa) con le cosiddette wildflowers (non abbiamo ancora coniato una parola per indicare specie autoctone con attitudine alla funzione ornamentale e di restauro ambientale?) per impiego nella rinaturalizzazione di ambienti degradati e per uso ornamentale.
Giardini, aiuole spartitraffico e spazi ornamentali costituiti con numerose piante erbacee native hanno un sicuro effetto estetico e, fatto fondamentale in ambienti mediterranei, richiedono poca acqua. Forse è il caso di abbandonare al più presto l’impiego di piante sempre desiderose di irrigazione (perché magari originarie dell’umidissima Inghilterra); l’esistenza di prati all’inglese in aree con carenza idrica a me sembra, senza esagerare, una soluzione immorale in quanto ci sono ottime alternative meno costose.
E se da noi si valorizzano sempre di più le piante autoctone, va detto che negli Stati Uniti si sta facendo un lavoro ammirevole: vivai, riviste, conferenze importanti si dedicano con passione alle piante native. In rete si trova moltissimo materiale di buon livello scientifico e tutti i giorni si immettono nuovi protocolli per la propagazione di specie spontanee.
Per dare un’idea del boom che ha subito questa materia basti pensare che, consultato Internet (motore Google) sulla frase native plant, ha fornito 186.000 risposte nell’ottobre del 2001 mentre si sono riscontrate 4.930.000 in giugno 2008. Mi permetto di segnalare il sito www.nativeplantnetwork.org/ perché valido e perché conosco il livello scientifico, la serietà e l’entusiasmo di chi ci lavora; contiene la rivista «Native Plants» che, ricca di illustrazioni e notizie pratiche, è consultabile gratuitamente on line.

L’uso di piante native nel giardino, che è poi il paesaggio di casa, soddisfa un nostro comprensibile desiderio di essere in contatto con la natura (fino a ieri ci abitavamo davvero dentro!), ma con quella natura a noi familiare perché vista e visitata per anni nelle vicinanze. È come se ci fosse un’urgenza culturale, ma anche intima, di riprendere quello che si percepisce come «perso». Per lo stesso motivo potrebbe così spiegarsi l’impiego di tanti toponimi che alludono alle «nostre» piante (Saliceto, Sorbara, Frassineto, Querciola, Campo all’Olmo, Poggio degli Ulivi) e appare questo come un modo di tenercele più vicine, più dentro casa.