Il malato di Alzheimer spessissimo vive la propria condizione patologica nella propria solitudine e nella solitudine della propria famiglia che è naturalmente impreparata ad affrontare un così gravoso carico di responsabilità e di compiti. Bisognerebbe fare in modo da creare una rete che si occupi di questa malattia anche dal punto di vista di chi assiste, oltre che da quello dei malati
Questa rubrica è dedicata alla salute ed a tutto il mondo che gira attorno ad essa. Poche parole, pensieri al volo, qualche provocazione, insomma «pillole» non sempre convenzionali. L’autore è Carlo Casamassima, medico e gastroenterologo, ecologista nonché collaboratore di «Villaggio Globale». Chi è interessato può interagire ponendo domande.
La malattia di Alzheimer è una di quelle patologie che risultano in grande e costante aumento in tutto il mondo innanzitutto per via del progressivo allungamento della vita media. Come tutte le ricerche hanno evidenziato chiaramente, essa è dovuta ad un crescente affievolirsi delle capacità funzionali del cervello per via del deposito, fra i neuroni, di una proteina, l’amiloide, che finisce con il rendere non più attive e funzionali le cellule nervose coinvolte. La beta-amiloide innesca un processo infiammatorio di lunga durata che vede coinvolti macrofagi, neutrofili, citochine, interleuchine e TNF-alfa: tutte sostanze che, dopo anni di malattia, determinano sia una variazione morfologica del cervello (in termini di peso e volume) sia un suo severo deficit funzionale che porta inevitabilmente alla morte.
Il quadro clinico, all’inizio molte volte sfumato, è ingravescente e molto articolato: si esprime infatti con una varietà di sintomi davvero notevole, andando dai deficit di memoria a quelli di comunicazione ed orientamento, dalle incapacità a svolgere le attività quotidiane (per ciò che concerne l’igiene personale o l’alimentazione, l’incapacità a mantenere attivi i rapporti interpersonali o l’abbigliamento) alla gestione corretta delle problematiche di tipo psicologico (con umore depresso o variabile) o di tipo fisico (sino a presentare disturbi di incontinenza, perdita di coordinazione nei movimenti o immobilità spesso causa di piaghe da decubito).
In definitiva, come si comprende bene, un quadro clinico «totalizzante» ed invalidante in maniera pressoché completa con il quale si combatte una battaglia che ha inizio il giorno della diagnosi e termina solo con la morte del paziente. Un quadro clinico che «racconta» quasi tutta la propria storia in famiglia, la famiglia del malato, e che si protrae non infrequentemente per decine di anni. L’aumento della durata media della vita e la possibilità di fornire cure adeguate (almeno in termini di cura della persona e di alimentazione, ad esempio) consentono oggi di far perdurare per un tempo relativamente lungo una condizione di Alzheimer che altrimenti, lasciata alla possibilità di gestione del singolo paziente, non consentirebbe un’aspettativa di vita altrettanto duratura.
C’è però il problema del «chi assiste» questi pazienti. E stiamo ovviamente parlando, in nove casi su dieci, della famiglia e di quel microcosmo che si fa carico (ripetiamo: non di rado per decenni) della gestione complessa e problematica di una tipologia di paziente che con il suo «peso» di impegno, coinvolge e talora sconvolge tutte le altre figure del nucleo famigliare di appartenenza. Al punto che le Associazioni per l’Alzheimer cominciano già da molto tempo a denunciare l’usura e lo stress di coloro i quali sono costretti a svolgere (o scelgono di farlo) il compito di caregiver per questa particolare tipologia di pazienti: pazienti destinati col tempo sempre ed ineluttabilmente a peggiorare, in considerazione del fatto che non esistono al momento terapie valide per cambiare il decorso naturale della patologia.
Queste Associazioni hanno messo a punto una sorta di decalogo che serve per comprendere se e quando la stanchezza e lo stress dei famigliari preposti all’assistenza hanno raggiunto pericolosi livelli di guardia e possono determinare reazioni controproducenti: negare la malattia (da parte del caregiver), arrabbiarsi con il malato, smettere di frequentare persone o amicizie, veder aumentare in modo significativo l’ansia o la depressione, divenire incapace di portare a termine i propri compiti quotidiani, cominciare a soffrire di insonnia o irritabilità, presentare cali importanti di concentrazione o veder variare considerevolmente il proprio stato fisico sono tutti segnali che andrebbero attentamente valorizzati per evitare che chi assiste un malato così gravoso sia a propria volta colpito da una sorta di silenzioso burnout.
Il malato di Alzheimer spessissimo vive la propria condizione patologica nella propria solitudine e nella solitudine della propria famiglia che è naturalmente impreparata ad affrontare un così gravoso carico di responsabilità e di compiti. Bisognerebbe fare in modo da creare una rete che si occupi di questa malattia anche dal punto di vista di chi assiste, oltre che da quello dei malati.