Felicità fra ricerca e destino?

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Dalle «felicità» fisiologiche (come quelle che accompagnano il desiderio istintivo dell’atto procreativo) alla felicità di un atto di amore (che non trova utilità nell’essere compiuto, ma che sentiamo originato solo da un desiderio e da una volontà di bene liberamente e disinteressatamente espressa), la realtà si presenta con tutto un articolato scenario di ricerca della felicità che trova motivazioni nelle dinamiche di un proprio modo di essere, ma che è anche frutto di relazioni, di sinergie fra realtà materiali, pensieri e consapevolezze costruite e sviluppate nei propri intorni di vita. Una ricerca che oggi dovrebbe suggerire prospettive più intelligenti e responsabili ad un vivere umano che invece, troppo spesso, si lascia trascinare, privo di ogni autonomia critica, da infelici e preordinate semplificazioni ideologiche.

C’è, infatti, un modo inavvertito di inculcare convincimenti eterodiretti, che aliena le capacità di valutazione individuali e che, purtroppo, è rilevabile solo nei suoi atti terminali, quando le condizioni e le energie personali, necessarie per una ricerca sul senso e valore dell’esistere, possono essere state del tutto compromesse. Una condizione di dipendenza e uno spreco di energie vitali che, pur sentiti come socialmente ed economicamente disastrosi, vengono invece vantati, da alcuni interessati e subdoli imbonitori, come espressione di un meccanismo innocente che, di fatto, opera a danno di tutti, ma che pretende di essere assolto dai suoi crimini in quanto ritiene di essere solo produttore incolpevole di un «fare le cose» neutrale che risponde ad una volontà superiore a quella di un singolo uomo.
Un sottile e perfido modo per imporre regole devianti e plasmabili (a vantaggio di interessi unilaterali e precostituiti) come quelle, per esempio, del sedicente «virtuoso» mercato libero dei consumi (peraltro, «innocentemente» proposto proprio da quei gestori dell’economia dei consumi che ne traggono vantaggi esclusivi a danno delle risorse del bene comune). Un mercato definito virtuoso, ma che è sostanzialmente schizofrenico se si arriva a sostenere che «ha ragione anche quando ha torto» come osa, indecentemente, proclamare il sottotitolo di un recente saggio (Mingardi A., 2013).
Quale felicità potremo cercare, allora, in un sistema condizionato dall’incapacità, di alcuni «stregoni» della globalizzazione (e dei loro esaltati sostenitori), di liberarsi dalle irrazionali passioni ideologiche per i consumi (immaginati come un gioco astratto, senza il contesto degli equilibri umani e naturali) e di passare, invece, a modi di pensare e a comportamenti affrancati da impulsi primordiali ed estemporanei di vittoria o di successo non solo dei mercati, ma anche dei poteri che ne derivano? Quale felicità può essere consentita se vengono, così, a mancare quelle valutazioni critiche sugli impatti del mercato globale dei consumi, sul senso del vivere umano e sul valore delle risorse naturali, che sono essenziali per attivare un consapevole progresso umano e non permettere assurde gare fra chi, per vincere, deve saccheggiare le risorse del mondo prima di altri?
La felicità è immateriale, ma non può nascere, o essere rielaborata, per finire, poi, confinata nei soli nostri pensieri. Per la nostra natura sociale essa è, infatti, motivo di condivisione. Viene immaginata sia come un bisogno esistenziale ad alto valore aggiunto (capace, per esempio, di attivare solidarietà), sia come sostegno pragmatico ad alternative che non ci facciano collassare in un individualismo che, se proprio non diventa una drammatica (forse anche patologica) ansia da solitudine, sicuramente ci costringe ad una stressante salvaguardia, della nostra sopravvivenza (oggi sempre meno oggetto di condivisioni e sempre più, invece, occasione di distruttive rivalità, anche estreme, con i nostri simili).
Ci affascina l’idea (ma non tanto la pratica, perché c’è la convinzione che di cultura non si vive) che la felicità possa essere vissuta come effetto di un’avventura (quella del poter conoscere e scoprire, senza vincoli, le cose del mondo) e che questo sia già avvenuto per alcuni esseri umani del nostro passato. È un conforto offerto dalle storie di quei personaggi considerati geniali, per le loro felici intuizioni nel campo delle scienze umane e naturali, che sono, poi, entrati anche nella nostra storia concreta di ogni giorno, per aver svelato conoscenze e proposto culture, con dimensioni più umane, che hanno offerto speranze per lo sviluppo di sinergie relazionali e di segni significativi, ancora attesi, di politiche per il progresso umano.
Oggi la felicità, per l’insufficiente tempo concesso alla riflessione, tende a concretizzarsi nella forma di un valore, di tipo economico, attribuito a qualcosa o ad un evento di quella realtà materiale, nella quale immaginiamo di essere immersi come attori con pieni poteri su ogni cosa che riusciamo a possedere.
Anche se è vero che la nostra mente tende a rielaborare spontaneamente e continuamente la nostra visione della realtà materiale e a indagare anche su valori di una realtà trascendente, i processi di approssimazione alle possibili verità (che siamo risoluti nel voler possedere) appaiono però interminabili e, quindi, inconcludenti per chi immagina di poter raggiungere una visione compiuta delle cose del mondo.
Sopravanzano, così, le nostre convinzioni (sempre più catturate dalla suggestione di un assoluto) che pongono fine alle nostre ricerche e ci trasformano in infertili controllori della forma delle cose che fanno leva sulle certezze di pensieri unici, di meschini calcoli sui nostri interessi e di arroganti sostegni ai nostri privilegi. La felicità, infatti, sfuma nel nulla se la ricerchiamo nella forma delle cose o se la vogliamo possedere come attributo fisico del nostro modo di vivere.
La felicità non è una proprietà della materia, un prodotto fisiologico, strutturale o funzionale del vivere umano. È da ricercare, allora, nel senso, che possiamo trovare nelle cose alle quali facciamo riferimento (quando indaghiamo sulla nostra identità e sui nostri intorni relazionali) per decidere e verificare i nostri modi di essere noi stessi nei nostri contesti di vita.
I fenomeni e le loro cose seguono processi che noi percepiamo compiuti solo perché li ricostruiamo nella nostra mente riducendone la complessità. Solo così riusciamo a procurarci una visione finale di un unicum apparentemente assoluto che, però, per la sua semplicità, se offre le certezze formali di un meccanismo di tipo deterministico, si presenta, poi, del tutto insufficiente per affrontare la dimensione complessa e immateriale della ricerca della felicità. Un meccanismo che, infatti, non ha nulla di significativo da offrire a una ricerca che deve, invece, esplorare e fare esperienza nel nostro articolato (per molti versi ignoto) modo di essere per poterlo, poi, esprimere senza condizionamenti ideologici o presunte interpretazioni oggettive.
La felicità è un’essenza che va «oltre l’immanente» e, proprio in questa sua dimensione, offre identità specifiche ad ogni individuo. Non essendoci, però, un obbligo ad andare in tale direzione l’uomo rischia, anche solo per inconsapevole disattenzione o per troppe semplificazioni nella lettura della realtà, di tendere a realizzare una propria felicità trascurando la sua dimensione complessa e, se non proprio rimuovendola, almeno male interpretandola e adattandola formalmente ad una pratica neutrale del vivere (costruita, per esempio, sui principi funzionali naturalistici o di un’inventata etica darwiniana basata sulla legge del più forte).
Siamo, in questo caso, di fronte a un determinismo che ci esonera dal costruire le nostre consapevolezze, che tende a narcotizzare chi viene, così, depredato del tempo e della serenità per riflettere e per assumere proprie ineludibili responsabilità. Un determinismo che premia, invece, chi si impegna a «fare le cose», seguendo con fedeltà un ordine precostituito (qualunque sia la sua natura ideologica), senza farsi domande sul loro senso e sugli impatti delle relative scelte e dei risultati finali. Tutto un modello di vita che porta fino allo scandalo dell’accettazione di un concetto di male che si propone come fenomeno banale, basato sull’inconsapevolezza di un agire umano, definito «normale» in quanto seguirebbe le leggi entropiche di un degrado che, come fosse un destino ineluttabile, esige addirittura l’assoluzione di colpe e colpevoli di ogni, anche estrema, nefandezza. Un modello di vita, quindi, che per la sua inerzia vitale, non potrà mai imboccare le strade per la ricerca della felicità.
Eppure dal senso del «bene comune» vengono precisi e forti stimoli a riflettere su una felicità che trova, in un interesse condiviso, ragioni fondate perché noi possiamo scegliere di impiegare le nostre energie per riconoscere quel valore sociale che è proprio della natura umana e che va oltre l’unire le forze solo per cercare di sopravvivere. C’è, infatti, il valore aggiunto delle sinergie che non consiste solo in un potenziamento operativo del «fare bene», ma anche nell’attivazione di un motore della qualità, di finalità e obiettivi, del vivere sociale fondato sulle relazioni e connessioni interpersonali, che costruiscono intelligenze collettive, che danno qualità alle nostre scelte: tutte risorse poco valorizzate nella pratica, pur dichiarata, del voler perseguire la qualità del vivere umano. Qualità che certamente non emergono da una ricerca, individuale o di gruppo, con forti interessi esclusivi che nel migliore dei casi le sfruttano come strumenti deviati per perseguire vittorie competitive.
La felicità, dunque, non può trovare solo nell’assoluto (autoreferente pur se ispirato da nobili principi) di nostre legittime aspirazioni (per esempio, a realizzarci nelle relazioni, ma che non possono essere deformate a danno dei nostri simili), quelle qualità umane e quei catalizzatori immateriali per andare oltre gli obiettivi di arbitrarie libertà di azione, di possesso e accumulo di beni materiali, di fatto, sottratti alla comunità degli altri esseri umani.
È noto, fin dai più lontani tempi della storia del pensiero umano, che gli impegni materiali, per la nostra sopravvivenza, se vengono trasformati (per scelta, per caso, per necessità o per violenta imposizione) in affannose e ingovernabili preoccupazioni, non ci permetteranno, poi, di riflettere sul senso e sui vincoli da gestire che possono dare qualità al nostro lavoro di vivere: saremo così indirizzati «a nostra insaputa» (ma proprio perciò, con pesanti responsabilità) non verso la ricerca della felicità ma verso un ignoto, che ci apparirà come un tremendo e immodificabile destino che possiamo solo subire.