Garantire il buon vivere

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L’azione di protezione di un’istituzione non è solo cognitiva, ma anche emotiva e, in questa prospettiva riteniamo che il discorso debba ruotare attorno al tema della felicità. A tal proposito è necessario liberarci di alcuni condizionamenti, contemporanei, relativi alla felicità: ci riferiamo in particolare a quattro di essi: il ritenere la felicità uno stato della mente indipendente dalla nostra volontà, più o meno sottoposto alla casualità; uno stato svuotato di qualsiasi contenuto etico e spesso legato a percorsi meramente edonistici; uno stato che difficilmente supera i confini individuali, per cui parlare di una città o di un’istituzione felice, sembra quasi senza senso; uno stato dipendente dalla disponibilità di risorse per lo più materiali.

Diversi economisti oggi mettono in dubbio l’idea che la felicità dipenda principalmente dal reddito disponibile. Essi lo ritengono valido solo per ristretti casi di reddito sotto una certa soglia, mentre, per la stragrande maggioranza dei casi, invitano a misurare la felicità partendo dagli aspetti relazionali ed istituzionali della persona.
In generale tutti gli approcci economicistici, al tema della felicità, sono veri e propri pregiudizi che non ci permettono, sia sul piano teorico sia pratico, di riscoprire percorsi di felicità, in cui il singolo e le istituzioni collaborano attivamente. Liberato il campo da questi condizionamenti, resta, tuttavia, la difficoltà a comprendere cosa sia la felicità. Il poeta Eliot (1944) scrive che, della felicità, ne abbiamo avuto l’esperienza, ma ci è sfuggito il significato (We had the experience but missed the meaning).

Per cercare di legare la felicità ad un significato, percorriamo la via della filosofia classica. Nel pensiero aristotelico, la definizione di felicità (eudaimonìa) non è molto precisa, essa spesso è il bene a cui si tende, è il fine (tèlos) della vita, è la beatitudine, è anche la prosperità. Consegue che felicità e bene sono termini interscambiabili. Tuttavia, pur in questa imprecisione, emerge con chiarezza un dato: la felicità può essere raggiunta da chi vive, secondo ragione, realizzando le virtù, perché essa è un certo tipo di attività secondo virtù completa. In altri termini è felice chi sta bene e compie costantemente il bene. La felicità che ne deriva è stabile e niente affatto facile da mutare. Essa si raggiunge quando si è adottato come proprio progetto di vita la ricerca e l’attuazione del bene per mezzo delle virtù: la felicità ci arriva a causa della nostra virtù, non del divertimento e delle attività non virtuose. Infine per Aristotele (Etica Nicomachea 1991) la felicità è considerata piuttosto attiva che passiva, cioè è impegno, è legata a qualche insegnamento o esercizio. Il collocare la felicità sul piano etico ci salva da un suo decadimento sul piano emotivo-situazionale.
In termini semplici non sono felice perché sono ricco, mi sto divertendo, non ho problemi, tutto va per il verso giusto e così via. Tutt’al più queste situazioni possono contribuire alla mia felicità, a mo’ di corona di una sostanza che è altra. Sono felice, infatti, perché faccio del bene, in forma stabile, non perché ho dei beni. Questi aiutano la mia felicità ma non sono indispensabili. Solo in quest’ottica si può comprendere il brano delle beatitudini (Mt 5): Gesù proclama beati, felici (makàrioi) coloro che vivono situazioni difficili, anche in stato di privazione di beni fondamentali. La loro beatitudine, felicità deriva, infatti, dall’essere fedeli al Regno di Dio e al bene che si sta realizzando in loro e attorno a loro. Sintesi cristiana del tema può essere considerata la posizione di Agostino (1978-1991) che spiega come la virtù abbraccia tutto il bene che si deve compiere, la felicità tutto il bene che si deve conseguire; la felicità è premio della virtù, non è dea ma un dono di Dio.

La felicità è tutt’altro che circoscrivibile all’ambito individuale, per due fondanti motivi: la felicità è della persona e questa è persona relazionale (zòon politikòn); la felicità è frutto della vita virtuosa e anche questa è intrinsecamente relazionale (politikòn). In sintesi: la felicità è della persona, ma dipende dalla qualità di vita della comunità. Infatti la polis sorge ed esiste per produrre le condizioni di una buona vita (eu zen), che in Aristotele (Politica 1991) è anche sinonimo di felice. La città (pòlis) è il luogo in cui la felicità personale è ricercata e vissuta, non luogo neutro, ma indispensabile in quanto assume lo stesso fine (tèlos) della persona, bene o felicità che dir si voglia. La comunità è anche il luogo in cui la felicità viene condivisa e rafforzata con le felicità altrui. Scriveva chiaramente Hume (1739-1740) che si potrebbe anche ottenere l’obbedienza della natura, ma resta il fatto che l’uomo rimarrà un infelice fino a quando non metterete vicino a lui una persona con cui divida la sua felicità.
È in questi elementi la radice ontologica dello stretto rapporto tra istituzione e felicità personale. Agostino (1978-1991), rifacendosi alla cultura greca, afferma che la vita felice è anche comunitaria (etiam socialem), perché quando si vuole il bene autenticamente, lo si vuole per sé come per i familiari, gli amici, i concittadini, i popoli. Ulteriore testimonianza è il riferimento de The Declaration Of Independence degli Stati Uniti d’America dove è sancito, tra i diritti fondamentali e inalienabili, quello a perseguire la felicità (the pursuit of happiness).
Il legame stretto tra felicità personale e istituzioni, tuttavia, non comporta automatismi di creazione della felicità da parte delle istituzioni; come scrive Böll (1958) la produzione di quella cosa che ha nome gioia non la si può regolare legalmente, né con leggi civili né con leggi ecclesiastiche. In questo quadro è più corretto parlare di un’azione di protezione da parte delle istituzioni nei confronti dei singoli e dei gruppi. Questa azione non ha niente a che fare con azioni di tipo sentimentalistico, vuoto, desideroso di suscitare reazioni immediate ed effimere; tutte prassi che non aiutano a crescere ed acquisire più sicurezza in se stessi e nell’istituzione.
Pensiamo a quante esperienze familiari, lavorative, associative, religiose, burocratiche o politiche hanno fatto leva su sentimentalismi futili per confermare adesioni, approvare progetti o sostenere azioni collettive, rovinando, di fatto, sia le persone sia l’intera istituzione. È sciocco attendere protezione dalle istituzioni aspettandosi da esse atteggiamenti mammisti e iperprotettivi: esse non esistono per compensare le nostre deficienze psicologiche, ma per aiutarci a diventare noi stessi in maniera adulta e responsabile. È saggio e doveroso, invece, attendersi che i membri di un’istituzione, specie i leader, abbiano una capacità empatica, cioè sappiano cogliere e leggere le emozioni personali, per poter meglio rispondere ai bisogni reali ed autentici.
L’azione di protezione, allora, va intesa piuttosto come sostegno cognitivo ed emotivo alla ricerca e attuazione del bene, al conseguimento della felicità, per cui quando la qualità di vita di un’istituzione non è sana, crea un quadro emotivo, oltre che cognitivo, negativo o almeno falso. In ambedue i casi è poco utile a trasmettere sicurezza. È necessario, allora, che una realtà familiare, lavorativa, associativa, religiosa, burocratica o politica operi con tutti i suoi mezzi e nei tempi opportuni, nel sostenere emotivamente chi cresce e si afferma come persona virtuosa. Mounier (1936) ha parlato di un apprendistato del noi che non può fare a meno dell’apprendistato dell’io, dove il primo accompagna il secondo seguendone le vicissitudini, offrendo mezzi ed esperienze che evitino gli eccessi della massificazione totalitaria, da una parte, e dell’affermazione smisurata di sé, dall’altra.
Si comprende come il sostegno superi la stretta sfera cognitiva della coerenza e della protezione delle persone integre e diventi un clima generale e diffuso che si respira nella realtà istituzionale. E sappiamo bene come il clima non è fatto solo di idee e grandi proclami, ma esso è prassi quotidiana di un’istituzione che trasmette sicurezza, perché protegge in tanti modi chi opera al meglio e coerentemente con i fini della stessa. In sintesi: garantisce, sostiene, protegge e sviluppa la vita felice e buona (eu zen).