Già da qualche anno vi sono preoccupanti segni di un cambiamento che sembra voler far leva, sulle procurate sprovvedutezze umane, per capovolgere, fino ad annullare, le libere relazioni fra gli uomini e con le cose del loro mondo. Nel nostro recente passato c’è stata una tendenza a costruire un contesto di vita libero, sostenibile (in sintonia con le qualità dell’ambiente sociale e naturale) e attento a quel benessere che intendeva modellare la realtà per costruire la migliore dimensione umana delle cose e dei fenomeni economici, sociali, culturali e politici (la ricerca del bene e, in particolare, di quello condiviso che dà valore al senso del nostro vivere).
Il cambiamento in atto sembra, invece, far avanzare esigenze diverse. Per esempio, in nome di un «diritto», assoluto e ideologicamente imposto, dalla ricerca del miglior profitto, un numero sempre più ampio di operatori che offrono servizi (secondo criteri puntati alle attese degli utenti e a obblighi di legge che avevano come riferimenti la persona, i suoi bisogni essenziali e la dignità umana) si chiedono, oggi, perché dovrebbero soddisfare servizi costosi se, invece, è possibile imporre soluzioni, per loro, meno onerose a parità di prezzo pagato dagli utenti. Solo due esempi, purtroppo non unici, che riguardano i criteri di assunzione-attribuzione di responsabilità.
Il primo fa riferimento a un inverosimile concetto di responsabilità civile che si vorrebbe applicare per il risarcimento dei danni provocati in caso di incidenti stradali che abbiano coinvolto pedoni in passaggio sulle strisce pedonali: la colpa verrà condivisa dal pedone investito e dall’investitore. Si fa leva su responsabilità dei pedoni assurdamente addebitate (al limite di un falso ideologico) a una sua improponibile colpa di essersi fatto investire da un mezzo meccanico.
La sua colpa consisterebbe, in altre parole, nell’essere venuto meno al “dovere” di provvedere alla propria incolumità, pur a causa di condizioni dinamiche di un incidente fuori dal suo controllo. In realtà è solo un modo pretestuoso per esigere lucrosi e ingiusti vantaggi (in questo caso per il maggior profitto delle società di assicurazioni) che gli attuali criteri economici liberisti considerano normali se non addirittura un diritto da esercitare obbligatoriamente (e neanche in nome delle già devianti regole del mercato dei consumi, ma per un potere che può essere esercitato, e viene esercitato, arbitrariamente da chi ha strumenti e non si pone limiti nel riuscire a cambiare, a proprio favore, condivise regole sociali di convivenza).
Ancora più drammatico (funzionale però agli interessi di chi opera nel business finanziario delle grandi opere e, più in generale, della gestione del territorio) è, nel secondo esempio, il concetto di responsabilità che si vorrebbe far passare in caso di grandi disastri provocati da attività antropiche (centrali nucleari, modifiche del territorio con connessi pericoli di dissesto idrogeologico, inquinamenti) e da calamità naturali, preventivamente non gestite, o mal gestite dagli enti preposti alla protezione e sicurezza civile.
Anche in questo caso, come responsabile del danno ricevuto, viene indicato il cittadino (che è, invece, vittima predestinata di inerzie e di un «fare le cose» arrogante e più veloce di una dovuta valutazione preventiva, condivisa e verificabile, dei relativi impatti socio-ambientali. In questo quadro non solo non compaiono i veri responsabili (i decisori politici delle scelte) che, per incompetenze o per equivoci e impresentabili interessi, hanno legittimato un disastroso «fare le cose», ma si comincia, già ora, a far implicitamente intendere che toccherà al cittadino provvedere «diligentemente» alla difesa preventiva da danni alle persone e alle cose (una difesa per lui certamente insostenibile economicamente e comunque materia ignota nella sua articolazione tecnica, ma sicuramente un vero affare per le imprese di assicurazioni).
Oggi, di fatto, l’uomo si presenta incatenato ai meccanismi unici del sistema economico di produzione e consumo, del mercato libero e degli scenari senza alternativa di una predatoria speculazione finanziaria.
Apparentemente viviamo in condizioni di vita migliori rispetto al passato, in realtà vi sono motivi per preoccuparci di un’inavvertita mutazione antropologica attivata da meccanismi distruttivi che minano la nostra natura sociale e offrono, invece, ampie opportunità di gratificante isolamento a livello individuale (ricordiamo, per esempio quei concisi modi di dire, oggi reclamati come espressione di un diritto naturale, del tipo: «fai e lascia fare», «chi fa per sé, fa per tre», «chi si immischia si invischia», sempre pronti a sostenere comportamenti e modi di pensare dettati da devianti rivalse individualiste e dall’ottuso senso comune delle cose).
L’uomo finisce, così, con l’essere ridotto nella condizione di un materiale plasmabile, un materiale plastico inerte, deformabile e non solo dalle mode del momento. Ma l’uomo non è solo materia e, dunque, se questi meccanismi di degrado riescono ad affermarsi in un clima di indifferenza, dovremmo riflettere per assumere e condividere qualche responsabilità, per far fronte a questo inaccettabile stato delle cose.
Oggi la scuola non incide più come sostegno alla formazione libera e alla valorizzazione delle qualità delle giovani generazioni, su di essa vincono altre agenzie formative, altre finalità non ben percepite nella loro deviante funzione, ma con obiettivi e risultati ben evidenti. Oggi si plasmano masse di replicanti, pronti ad assumere mode e modelli rituali di comportamento e di consumo (sempre più esigente e sofisticato), che hanno necessità di denaro da spendere e che lo potranno trovare (spesso in modo equivoco) solo nella misura di quanto più sono capaci di procurarlo ad altri.
Intanto, mentre tutti si danno da fare in nome di improvvisate e giornaliere riforme e controriforme, nessun rinnovamento sembra prospettarsi, sulle scene di un atteso progresso umano, perché ancora non riusciamo a liberarci dalle paure di non saper affrontare la realtà e dalle paralisi ideologiche che non permettono di interrogarci e di assumere responsabilità nella ricerca del senso delle cose (che pur possiamo facilmente riconoscere negli equilibri dei fenomeni vitali della natura e mentali dell’uomo). Siamo ancora vinti dall’ossessione di possedere le cose che fa deviare le nostre energie creative dal cercare risposte ai bisogni (lasciando spazio, così, alle abitudini distruttive che fanno proliferare le metastasi dello spreco delle risorse).
Neghiamo e contrastiamo la lettura della complessità della nostra realtà e rincorriamo, invece, il mistificante mito della perfezione e semplicità geometrica di ridotte visioni del mondo e di infertili propositi. Rifiutiamo di riconoscere le opportunità che vengono offerte per valorizzare l’incompiutezza della nostra condizione umana e per operare in sintonia con essa.
Questo stato delle cose non propone un’interpretazione plastica del vivere, ma una vita plastificata. Una condizione non potrà essere diversa se continuerà a mancare quella mobilità di idee e quelle elaborazioni condivise che sono indispensabili per cercare il senso delle cose nei fenomeni sociali, nello sviluppo economico, negli equilibri naturali, nella diversità e ricchezze delle nostre risorse, tutti elementi essenziali per una partecipazione consapevole e responsabile nei momenti delle scelte da trasformare in progetti comuni, in progresso delle conoscenze, in qualità di vita per tutti.