I telai delle ideologie e del senso comune delle cose

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Ci sono telai che tessono le nostre storie con avvincenti sequenze di fatti. Alcuni vorrebbero fare riferimento ad esse per prevenire il ripetersi di fenomeni di degrado sociale e ambientale e di danno alla salute umana. Il fatto è che le nostre storie non si ripetono seguendo i meccanismi raccontati.

La storia raccoglie documentazioni, ristruttura e interpreta avvenimenti, ma non ha accertati dati scientifici da offrire (che una distorta idea di scienza vorrebbe fossero disponibili per sostenere incontestabili prove di verità assolute in ogni campo). La storia, allora, diventa un tessuto che può essere anche manipolato per farle raccontare quello che serve: per imporre convincimenti di parte, verità ideologiche, ragioni per le guerre e ragioni per preordinate condizioni di pace, democrazie senza libere votazioni e votazioni libere senza democrazia.
La storia, come la tela di Penelope, nei vari momenti imposti dalla necessità di vantare ragioni, viene costruita e disfatta. Parti fra loro contrapposte, pretendono, così, di far valere, come verità assolute, racconti che fanno riferimento a stessi fatti, ma che hanno punti di partenza ogni volta diversi e con interpretazioni scelte fra le più convenienti del momento. Eppure avrebbe senso cercare la condivisione delle diverse interpretazioni e andare oltre le contese sui diritti presunti, sui confini arbitrari, sulle risorse da sottrarre agli incapaci di competere, sulle appartenenze che difendono privilegi sulle costituzioni che, fondate su principi assoluti, finiscono con l’essere un tradimento di quei pensieri religiosi ai quali, pur se non sempre esplicitamente, si ispirano.
In modi disumani ci troviamo, invece, a dover accettare tutte le sante e sacre ragioni delle guerre e tutti gli interventi umanitari (che sempre più si trasformano in interventi militari), con il fondato sospetto che se le guerre le scatenano i fanatici, è vero, poi, che le organizzano e le alimentano gli interessi economici.
Un tessuto epiteliale danneggiato ad opera di insetti, microrganismi o una neoplasia del tessuto polmonare, nervoso, sono fenomeni di alterazione di tessuti vitali, ma le diverse conseguenze e condizioni nelle quali possono avvenire, li rendono non comparabili. Se in alcuni casi, come questi, è possibile riconoscere una diversa scala di effetti (non si può paragonare il decorso di patologie infiammatorie con l’esito di patologie tumorali terminali), in altri casi, questa diversità non viene percepita.
Per esempio, i nostri ambienti di vita (quello naturale, quello agricolo, quello artificialmente ricostruito delle nostre città e delle zone industriali e commerciali) sebbene siano, a volte, tanto degradati da non essere più recuperabili nelle condizioni vitali iniziali, non appaiono, però, drammaticamente presenti alla nostra attenzione. In genere, hanno poco seguito le denunce per un bel paesaggio deturpato, per una testimonianza storico-architettonica distrutta, ma hanno poco seguito anche quelle per la destinazione di un territorio ad accogliere attività produttive pericolose e nocive per la sicurezza e la salute umana. Solo a danno avvenuto, vengono percepiti, nei loro tragici epiloghi, i rilevanti effetti della nostra disattenzione.
Molti progetti di sviluppo hanno fallito la loro missione, ma sembra che nessuno se ne sia accorto e tutto, ancora, continua a produrre il massimo dei danni possibili. A fronte di questo fallimento, nessuno sembra immaginare che sia dannoso, fino alla morte, continuare ad accumulare i disastri da esso prodotti. Nessuno sembra rendersi conto che è diventato urgente trovare modi alternativi, più umani e più in sintonia con gli equilibri naturali, per dare futuro e progresso umano al nostro vivere. Forse dovremmo riflettere per valutare quanto siamo prigionieri dell’avidità delle cose e del potere, quanto l’individualismo ci tenga separati e ci renda sospettosi verso i nostri simili e quanto questo stato delle cose ci paralizza rendendoci impotenti nel prendere le decisioni necessarie per liberarci dalle catene alle quali, però, anche noi accettiamo di rimanere legati. Non c’è una consapevolezza globale e coordinata che possa proporre o contrapporre progetti condivisi, che abbiano senso e che siano segno di un progresso umano.
I fatti e i fenomeni sono visti, da una maggioranza che rimane silenziosa, come un destino che può essere, al più, rimandato. Un destino che comunque, prima o poi, avrà un suo compimento, mentre la difesa di valori umani, nel tempo, sarà relativizzata e ridotta a una non più attuale esigenza del passato. Tutto questo avviene, invece, solo perché non si possono compromettere le ragioni prioritarie di un «fare» assoluto e già deciso (che si fa immaginare predestinato ad essere realizzato). Le cose del «fare», in ogni campo e secondo il dilagante senso comune, non possono che andare avanti: la loro missione si assume sia quella di diventare segno tangibile di un necessario sviluppo economico-finanziario che non ammette alternative, pur se, in realtà, è l’ultima disperata spiaggia a sostegno delle mistificanti e terminali virtù liberiste. Un meccanismo distruttivo di risorse e relazioni umane libere, che sembra, però, non incepparsi mai, nonostante i danni che continua a produrre, e che rischia di essere percepito come condizione di normalità per la costanza della sua, tuttora invincibile, tenuta nel tempo.
Non è questa una condizione che le consapevolezze umane consiglierebbero di accettare e tantomeno di perseguire: non solo perché si oppone all’espressione di valori vitali specifici dei contesti naturali, ma soprattutto perché non permette di ricercare quelle sintonie con gli equilibri naturali che danno un senso alle aspirazioni umane, altrimenti disorientate per mancanza di riferimenti e relazioni con i propri contesti di vita.