Le incongruenze di una visione semplificata della realtà, privata quindi della sua complessità, sono acriticamente rimosse. Comunque non sono attribuite al proprio inadeguato modo di interpretare i fenomeni, ma sono, invece, considerate segno di fatali errori o di una Natura matrigna che ci induce cinicamente a fare errori o addirittura come segno di incompiutezza originaria della stessa Natura che genera colpevoli alterazioni alla «perfezione» concepita (secondo presunte illuminate visioni assolute) da qualche caparbia mente umana.
Si tratta, invece, di un’ingiustificabile deviazione concettuale riduzionista, che trasforma un primo necessario approccio semplificato alla realtà, in un risultato compiuto. Una condizione che diventa, poi, non rimediabile se non si procede, successivamente, con un approccio sistemico (per cercare le relazioni, esistenti all’interno degli equilibri naturali, e gli effetti degli impatti antropici) e se si opera in assenza di quelle alternative, che sono elementi indispensabili, in un progetto di interpretazione e di ricerca di senso nelle cose della realtà.
C’è un concreto rischio di rimanere bloccati in una visione deterministica dei fenomeni che, peraltro, ben si adatta a un regime economico nel quale tutto viene giocato sullo stimolo/effetto dei meccanismi dei consumi e dei profitti. Un congegno, questo, che, a fronte di una propria incapacità (o di una paludosa inerzia), ci paralizza e non permette di prendere atto dei limiti della condizione umana e, quindi, della necessità di riflettere e aggiornare le ricerche e le conoscenze necessarie per interpretare il senso vitale dei fenomeni complessi.
Il modello di sviluppo che sostiene questi scenari di semplificazione della realtà, affida alla competizione sia la funzione di indurre incapacità relazionali e operative autonome negli individui (di fatto rendendoli sprovveduti e non attrezzati ad affrontare la complessità del proprio voler essere), sia la difesa del proprio interesse a procurare particolari vantaggi ad alcuni e simmetrici danni agli altri. Tutto un modo che permette ad alcuni di vantare diritti su tutto: in particolare, sia su scoperte tecnologiche e scientifiche (che non sono però un’invenzione creativa, ma, nella quasi totalità, solo lo sfruttamento di proprietà già esistenti e applicate), sia sulle manipolazioni operate sugli equilibri naturali (sulle cui possibili conseguenze e necessità, viene a mancare o è ciecamente ignorata ogni pur dovuta riflessione e diffuso confronto).
Uno scenario, dunque, sottomesso dal pensiero unico riduzionista che, per esempio, vorrebbe far immaginare i fenomeni sempre comprensibili e che, al più, ammette l’esistenza di un’arbitrarietà, propria delle cose di questo mondo, ma priva di una sostanziale e immediata rilevanza pratica.
Ci troviamo, così, di fronte a una specie di destino ineluttabile che incombe su ogni evento della nostra vita, che ostacola la nostra aspirazione a voler vivere una vita sociale attiva, che giustifica, impone e usa gli strumenti della guerra (fatta intendere come una costante obbligata della nostra storia), delle destabilizzanti crisi sociali, economiche, politiche… e che porta ad accettare (come se fossero dati di fatto costitutivi della condizione umana) la ricchezza di alcuni e la miseria estrema di altri, la fortuna che capiterebbe ad alcuni e le disgrazie che vengono, invece, fatte capitare ad altri…
Ancora, siamo in presenza di uno scenario umanamente degradato che, per esempio, vorrebbe ridurre l’aver fede a strumento finalizzato al voler credere che il «tempo che è denaro». Un tempo che non può essere moralmente ben speso se usato per correre dietro ideali e indimostrabili valori umani.
Un tempo che, quindi, va tutto speso per opere che cambiano il mondo per ridisegnarlo come luogo di cose e di fatti sui quali, la forma di potere che li ha generati, può vantare diritti e rovesci di ogni genere, tutti a proprio vantaggio. Un tempo che in alcuni casi si vorrebbe addirittura far intendere come costruttore di tessuti per un progresso umano, ma che, in realtà, è mistificato e ridotto alle sole attività terminali e irreversibili dell’economia dei consumi, delle risorse e dei relativi rifiuti ormai rimossi perché confinati nell’immaginario di un riciclaggio senza limiti, virtuoso e perfino benefico.
Tutto un mondo nel quale, in realtà, l’uomo non solo diventa una pedina, in balia del destino preordinato dai mercati e dai loro gestori, ma che, privato della responsabilità della scelta di un proprio voler vivere, è paradossalmente anche accusato di essere origine (per mancate capacità o partecipazione alle competizioni) di quelle inconcludenti costrizioni alle quali proprio lui stesso è stato condannato per assenza di alternative.